Capo Verde ai Mondiali non è un miracolo, ma il frutto di un progetto portato avanti in mezzo alle difficoltà

La qualificazione conquistata dalla Nazionale africana arriva da lontano, da un'identità molto forte e da anni di lavoro, come raccontano il centrocampista Andrade e l'ex ct Rui Águas.
di Emanuele Giulianelli 14 Ottobre 2025 alle 11:15

«Penso che sia il più grande risultato della storia di Capo Verde dopo l’indipendenza. Bisogna continuare a lavorare allo stesso modo, con tanto impegno. Solo così potremo migliorare sempre di più». Queste parole sono di Patrick Andrade, uno dei leader della Nazionale. Le ha dette a Undici dopo una lunga nottata di festeggiamenti. Sì, perché il 13 ottobre 2025 è una data da incorniciare, per il piccolo arcipelago africano. Non solo per il calcio, ma per qualcosa di molto più importante: la memoria collettiva di un Paese grande meno del Molise, ex colonia portoghese indipendente dal 1976, che in un pomeriggio d’autunno ha conquistato il mondo con un pallone.

Sono quasi le 17 quando il triplice fischio all’Estádio Nacional de Cabo Verde, nella capitale Praia, sancisce la fine della sfida contro eSwatini. La vittoria dei padroni di casa per 3-0 vale un buglietto per il Mondiale del 2026. La luce dorata del pomeriggio sta virando verso il crepuscolo, in questo angolo di Atlantico, e tutti, in un’aria già densa da ore, sembrano trattenere il respiro. Capo Verde si è fermato per davvero: scuole, servizi pubblici e molte imprese private hanno sospeso l’attività, grazie alla tolerância do ponto concessa dal governo. Un’usanza tipica di Capo Verde e di altri Paesi lusofoni, che prevede una dispensa straordinaria dalla presenza lavorativa in giorni feriali, diversa da un giorno di ferie o da un festivo, concessa per eventi di interesse collettivo.

Il 3-0 rifilato a eSwatini, grazie alle reti di Rocha Livramento (ex Hellas Verona), Semedo e Stopira, ha regalato a Capo Verde il primo posto nel gruppo D. Al secondo ci è finito il Camerun, la Nazionale africana con più partecipazioni a un Mondiale. Novanta minuti con il fiato trattenuto, dicevamo: le tv locali trasmettono a ripetizioni le immagini delle riserve che scattano in campo al termine dell’incontro e degli abbracci che si moltiplicano sul rettangolo verde e sugli spalti, senza sosta. I quindicimila spettatori dello stadio si alzano in piedi, gridano, cantano, danzano. E poi, come in un’onda che travolge tutto, la festa si allarga a tutte le isole dell’arcipelago. A Praia e Mindelo, a São Filipe e Santa Maria, a Tarrafal e Sal Rei. Nelle strade, nei cortili, lungo le spiagge battute dal vento, si ballano la morna e il funaná. Ci sono bandiere, tamburi, volti illuminati da una felicità mai provata prima, eppure antica. Qualcuno dice: oggi abbiamo fatto pace con l’Oceano. Con 500nuka abitanti, Capo Verde è la seconda nazione più piccola della storia, dopo l’Islanda qualificata a Russia 2018, che è riuscita a qualificarsi per la massima competizione calcistica.

Per arrivare a questa lunga nottata di feste, Capo Verde ha costruito qualcosa di profondo e duraturo, perché i quarti di finale alla Coppa d’Africa del 2023 non fossero solo un fuoco di paglia. Ce lo racconta proprio lui, Patrick Andrade, 31 anni, centrocampista con 29 presenze con la maglia dei Tubarões Azuis, gli Squali Blu. Nato nella capitale Praia, formatosi in un calcio non professionistico, ha girato il mondo con la sua tecnica pulita e la sua visione di gioco. Dopo le esperienze in Angola, Bulgaria e Grecia, oggi gioca in Azerbaijan con la maglia dell’Araz-Naxçıvan. Ed è l’anima tattica della squadra, un numero 8 che magari non si vede sempre, ma che regge l’equilibrio tra i reparti. Ha dovuto saltare gli ultimi due appuntamenti della Nazionale, ma con lo spirito (e non solo) è sempre stato accanto ai suoi compagni e al commissario tecnico Bubist: «Siamo un Paese piccolo, ma i giocatori sono giganti», dice Andrade. «Lo dimostriamo in ogni partita, mettendo sempre l’amicizia davanti a tutto». Parla con la pacatezza di chi ha visto il gruppo crescere davvero: «È una soddisfazione enorme, penso sia il sogno di ogni giocatore rappresentare il proprio Paese. Per noi che siamo nati là è ancora più speciale, per la famiglia, per la cultura, per l’identità. Ma anche quelli che sono nati fuori sentono le stesse emozioni e hanno la stessa voglia di rappresentare Capo Verde».

Andrade parla anche di campo, raccontandoci il gioco che Bubista ha impostato da quando ha preso in mano la squadra: «Il nostro è un sistema misto. Sappiamo tenere palla, ma sappiamo anche ripartire. In contropiede siamo forti, cerchiamo di finalizzare le azioni il prima possibile». I numeri gli danno ragione: Capo Verde ha chiuso il proprio girone con sette vittorie, due pareggi e una sola sconfitta. 23 punti, miglior attacco, solidità percepita. Più che i numeri, però, la cosa che colpisce di questa squadra è la maturità: «Non abbiamo mai smesso di credere nelle nostre qualità», aggiunge Andrade. «Ogni anno cresciamo, ogni anno abbiamo più giocatori con tanta qualità. L’intento è crescere sempre di più».

Il percorso parte da lontano. Lo sa bene Rui Águas, portoghese, oggi sessantacinquenne, in due riprese commissario tecnico della nazionale capoverdiana. La sua biografia parla da sola: mito del calcio portoghese negli anni Ottanta e Novanta, con decine di gol in Nazionale e titoli vinti tra Benfica e Porto, ha chiuso la carriera in Italia, giocando nella Reggiana in Serie A. «A Capo Verde ho vissuto alcuni dei momenti migliori della mia carriera», racconta a Undici. «Sono sposato con una cittadina capoverdiana, quindi il mio legame con loro è davvero speciale. È un Paese povero ma vive il calcio, soprattutto la Nazionale, con un’intensità enorme. Oggi il turismo è la principale fonte di reddito del Paese. Partecipare al Mondiale migliorerebbe molto la situazione nel suo complesso». Quando gli chiediamo quale sia il segreto della continuità calcistica di un piccolo arcipelago africano, il tecnico portoghese ci spiega la ricetta: «Capo Verde è un Paese di emigranti e poi c’è il talento naturale: credo che questa sia la risposta. I giocatori crescono e competono all’estero, poiché in patria non esiste un vero e proprio calcio professionistico». Rui Águas non ha dubbi: Capo Verde può essere un modello per tutta l’Africa: «La squadra ha dimostrato che con volontà e organizzazione tutto è possibile. Ho sempre sentito un grande desiderio di rappresentare il Paese e di portare gioia alla gente con i risultati. È un popolo che si adatta e resiste alle difficoltà, non solo in Portogallo ma anche nei Paesi Bassi, in Francia, negli Stati Uniti e altrove».

Intanto, mentre la festa continua, il pensiero corre al sorteggio del 5 dicembre, a Washington, dove Capo Verde scoprirà le sue avversarie per la fase finale del Mondiale che si disputerà dall’11 giugno al 19 luglio 2026 tra Stati Uniti, Canada e Messico. E la Nazionale potrà contare, tra i suoi sostenitori, sul sostegno di una diaspora imponente. Sono più di un milione e mezzo i capoverdiani sparsi per il mondo, tre volte la popolazione residente. Li trovi a Boston, Providence, Rotterdam, Marsiglia. E anche nel Lussemburgo, dove vive una delle comunità capoverdiane più numerose e radicate d’Europa, presente da oltre cinquant’anni. Famiglie intere hanno seguito la partita dagli smartphone, dalle radio, dagli schermi montati nei centri comunitari. Il boato dell’arcipelago si è sentito anche lì, anche qui, ovunque. Capo Verde è la parte più occidentale dell’Africa, un arcipelago sospeso sull’Oceano, quasi una premonizione geografica. Da sempre guarda verso l’altrove. Verso l’America. Verso il sogno. Oggi quel sogno ha preso una forma concreta. Per una volta, l’Oceano non separa, ma unisce. E davvero, l’America non è mai stata così vicina.

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