Il tennis è uno sport crudele, legato all’errore. Chi gioca non ricerca la perfezione: tenta di convivere con le proprie fragilità. Perfino Roger Federer, assoluto vincente, ha perso il 46% dei punti giocati in carriera: quasi la metà. E proprio in un contesto simile, dove il fallimento è connaturato allo sport, ecco che l’eccellenza può prendere la sua forma migliore: le ATP Finals ne sono una dimostrazione. Undici mesi di interminabile selezione, per trovare i migliori otto tennisti al mondo. Una stagione intera e sessanta tornei, per concentrare in un’unica settimana il massimo che il tennis mondiale possa offrire.
All’Inalpi Arena di Torino, per pochi giorni, il tennis si avvicina alla perfezione. Ma non è sempre stato così. Per anni, infatti, le Finals sono state un torneo senza casa, nomade, che aveva tentato di costruire impalcature complesse su basi fragilissime. Veniva puntualmente smantellato e spedito altrove, molto lontano. Non era mai riuscito a radicarsi, a entrare nell’anima di una città, come sta accadendo invece a Torino. Nel passato delle ATP Finals, la continua rotazione delle sedi aveva impedito di creare un rapporto speciale tra gli atleti e l’arena: erano come monaci senza tempio. Era mancato quel legame che trasforma una semplice competizione in un evento straordinario, essenziale soprattutto nel tennis. Dove il culto e la ritualità di certi luoghi – come il Centre Court di Wimbledon, il Philippe-Chatrier del Roland Garros o l’Arthur Ashe Stadium dello US Open – trascendono la performance atletica: chi gioca è secondario rispetto alla sacralità e al valore del campo. Per le ATP Finals è stato così fin dalla prima edizione nel 1970, a Tokyo. Tanto che Stan Smith (sì, proprio quello delle scarpe), dopo aver vinto, non si è nemmeno fermato a festeggiare: è tornato in patria, di corsa, negli Stati Uniti, richiamato immediatamente a compiere il servizio militare.
Da quel momento in poi, hanno ospitato il torneo quindici città diverse: da Parigi a Shanghai, da New York a Londra. Le ATP Finals hanno attraversato le metropoli più grandi del mondo fino a raggiungere Torino nel 2021. Dove hanno trovato la loro casa. In realtà, il nuovo corso, quello del successo e dei record, è cominciato nella capitale inglese, che le ha organizzate dal 2009 al 2020. Prima era il torneo di fine anno, quello dove i giocatori – se si presentavano – avevano il volto segnato dalla fatica della stagione, il corpo corroso dai crampi accusati durante gli ultimi Masters 1000. Oggi, invece, i migliori si preservano per questo appuntamento. Come Sinner e Alcaraz, che hanno pianificato gli ultimi mesi per arrivare in piena forma alla seconda settimana di novembre, rinunciando a diversi tornei.
A Londra sono stati 12 lunghi anni impreziositi dai Big 4 – Federer, Nadal, Djokovic e Murray. Adesso, Torino ha abbracciato il cambiamento, ha salutato la vecchia generazione e accolto la nuova. Ai piani alti dell’ATP si sono accorti che con l’addio dei grandi sarebbe dovuto cambiare qualcosa, avrebbero dovuto cercare un nuovo centro gravitazionale del circuito. Lo hanno trovato: si chiama Italia, ed è la culla del nuovo empireo del tennis mondiale. E Torino aveva già dimostrato di essere in grado di gestire degli eventi sportivi internazionali, come le Olimpiadi invernali del 2006. Quest’anno le ATP Finals saranno davvero speciali.
«L’obiettivo di questa quinta edizione sarà la celebrazione dell’eccellenza», ha detto a luglio Marco Martinasso, direttore generale della Federtennis (FITP). «Un modello organizzativo che si evolve, si perfeziona, e che oggi raggiunge la sua migliore espressione». L’eccellenza parte quindi proprio da Torino, che si trasforma e diventa la capitale del tennis. Allestisce il miglior palcoscenico possibile per ospitare 30 partite – tra singolare e doppio – con i giocatori d’élite. A novembre, durante l’evento, la città riflette un chiarissimo senso di eleganza monumentale, palpabile attraversando le sue vie, camminando sui letti distesi di foglie autunnali nei parchi. Scorgendo, tra le strade, i monti innevati che la circondano come se dovessero proteggere la sua bellezza, per conservarla il più a lungo possibile. Una sensazione che si prova perfino quando passano i tram e lo sguardo si incrocia con quello di Sinner e Alcaraz, sorridenti e imperturbabili, sospesi su un cartellone pubblicitario. Come a ricordarci che Torino offre solo il meglio: la classe della città e quella dei più grandi campioni del mondo.
«L’eccellenza passa anche dal gusto», ha aggiunto Martinasso. Ribadendo che le Finals, in Italia, offrono il massimo in ogni dettaglio. Così, le lounge e i ristoranti vantano il contributo di ben undici chef decorati con stelle Michelin; mentre il Fan Village, l’area di intrattenimento per i visitatori, si è espansa ulteriormente, superando gli 8.900 metri quadri di superficie. Gli organizzatori sono consapevoli che il nuovo fascino delle Nitto ATP Finals provenga anche dall’entusiasmo dei tifosi italiani. Nell’ultima edizione, l’Inalpi Arena è sempre stato riempito fino a esaurimento posti, accogliendo un totale di 210mila spettatori in una settimana. Non a caso, le Finals – da quando le ospita Torino – sono diventate uno dei tornei più ricchi in assoluto: oggi il vincitore si aggiudica oltre cinque milioni di dollari, e dal 2020 – l’ultima volta a Londra – a oggi il montepremi totale è addirittura triplicato, testimoniando il grande lavoro fatto in Piemonte. A questo si aggiunge che ci sono 1500 punti ATP in palio, il massimo ottenibile oltre ai quattro tornei Slam. Per l’importanza dei premi, per la classifica e per la qualità dei partecipanti, le Finals di Torino sono a tutti gli effetti il “quinto Grande Slam”. E resteranno in Italia almeno fino al 2030.