A guardare le cose da qui, dall’Italia, non ci sono dubbi: siamo nell’età dell’oro del tennis. Jannik Sinner ha portato gli appassionati del nostro Paese a vivere trionfi bellissimi ed emozioni mai provate prima, accanto a lui ci sono tanti giocatori e tante giocatrici di primo livello, o che comunque hanno ciò che serve per arrivare ai vertici delle classifiche mondiali, le Nazionali azzurre hanno vinto le ultime edizioni di Coppa Davis e Billie Jean King Cup, tra qualche giorno Torino ospiterà le ATP Finals per la quinta edizione consecutiva e poi sarà la volta della Davis a Bologna. Beh, si può dire: tanta, tantissima roba. Chi segue il gioco da sempre, però, potrà confermare come questa sensazione di sviluppo costante, di interesse febbrile, di eccitazione assoluta, vada oltre l’Italia. Insomma, per dirla in poche parole: il tennis non è mai stato così attraente, così seguito, così ricco, ed è un discorso valido a livello globale. A dirlo sono dei numeri – quelli relativi agli spettatori dal vivo, agli accordi commerciali e con le televisioni, ai montepremi – in crescita esponenziale, così come i racconti dei media. E lo confermano anche i dirigenti, ovvero le figure istituzionali che reggono il multiverso dei tornei, delle classifiche.
Andrea Gaudenzi, ex numero uno d’Italia (nonché numero 18 del mondo) e presidente ATP dal primo gennaio 2020, è dentro questa rivoluzione. Anzi, ne è protagonista: l’ha preparata, l’ha sentita esplodere, la sta cavalcando con provvedimenti impattanti – primo tra tutti la riforma di nove tornei Masters 1000, che da quest’anno durano 12 giorni. E ora, naturalmente, vuole portarla a compimento, risolvendo i problemi che restano e creando un tennis più equo, più competitivo sul mercato, ma che rispetti l’anima del gioco e le esigenze di coloro che lo praticano. È lui stesso a spiegarlo, partendo dal suo vissuto in campo: «Sono stato nell’ATP Tour per 13 anni, ho viaggiato molto, posso dire che so cosa significa giocare a tennis. Inoltre mi sento legato alla tradizione e alle regole classiche, farei fatica a pensare uno stravolgimento totale. Allo stesso tempo, però dopo il ritiro sono stato esposto per 15 anni ad altri mondi, ad altri settori, il gaming, la musica, i servizi finanziari: un’esperienza che mi ha fatto conoscere tanti altri aspetti. E che mi ha fatto capire come gli sport, ormai, siano in competizione con i videogiochi, con le piattaforme, con lo spettacolo. Insomma, sono diventati un prodotto di intrattenimento. E allora bisogna innovare».
E come si può innovare, oggi, nel tennis?
Intanto bisogna partire dalle cose che funzionano: chi ha inventato il tennis più di 100 anni fa è stato un genio, la battaglia uno contro uno, ad armi pari e in un grande campo, è un’esperienza di intrattenimento incredibile. E quindi il prodotto che abbiamo in mano è forte, ma dobbiamo trovare un modo migliore di governarlo, di commercializzarlo e di gestirlo. Al momento c’è troppa frammentazione.
In questo senso, il progetto One Vision è un tentativo che state portando avanti in modo convinto.
Sì, la prima fase si poneva l’obiettivo di mettere a posto le cose, io la definivo getting our house in order, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. La fase due sarà più complessa, perché presuppone l’allineamento di tutte le governance: senza una linea unica tra ATP, WTA e i tornei dello Slam, è difficile pensare a dei cambiamenti trasversali. Gli esempi della NBA e della Formula Uno, che hanno un controllo totale del loro prodotto, dimostrano che quella è la strada giusta per crescere. In campo e fuori.
Dal punto di vista pratico, ma anche commerciale, la riforma e l’allungamento dei Masters 1000 hanno avuto un impatto?
I numeri ci dicono che l’impatto c’è stato ed è stato positivo. Abbiamo registrato una crescita significativa delle sponsorizzazioni, dei biglietti venduti, dei ricavi della parte broadcast: il numero degli spettatori, quelli che vedono il tennis dal vivo o in televisione, è sempre la cosa più importante da misurare. Poi è chiaro, si tratta di un cambiamento e quindi c’è bisogno di sistemare delle cose, alcuni giocatori hanno vissuto e commentato questa trasformazione senza grosso entusiasmo. In effetti gli abbiamo richiesto qualcosa di diverso: dare priorità ai tornei 1000 insieme a quelli del Grande Slam. Ma io credo che le loro titubanze siano legate a ciò che rende unico il tennis: la necessità di ragionare su tanti calendari diversi.
In che senso?
Il tennis ha una matematica spietata: a differenza di tutti gli altri sport, praticamente, la metà degli iscritti a un torneo gioca una sola partita in quello stesso torneo. Il 75% degli iscritti ne gioca solo due. E quindi i top player, che arrivano quasi sempre in semifinale o in finale, si ritrovano ad avere un calendario molto diverso rispetto a chi occupa il settimo o l’ottavo posto del Ranking. A loro volta, i giocatori sotto la 25esima posizione hanno un calendario tutto loro, e così via scorrendo la classifica. Da qui nasce la complessità: sì, forse ci sono davvero tanti tornei in calendario, ma è vero pure che molti giocatori hanno la necessità di giocare di più. Allo stesso tempo, i top player possono scegliere e quindi gestire i loro impegni.
In effetti nessun altro sport funziona in questo modo…
L’unica analogia che mi viene in mente è quella con il golf: anche i golfisti, come i tennisti, sono dei veri e propri independent contractors. Lo sono stato per 13 anni, so che ci sono dei vantaggi e degli svantaggi. Ma credo che stiamo lavorando nell’interesse del gioco e dei giocatori.
Pure per quelli che hanno un ranking più basso e quindi faticano a guadagnare cifre importanti?
Certo. Noi ci siamo posti l’obiettivo di essere trasparenti su tutto. Intanto, sulle aspettative: secondo noi i giocatori professionisti sono intorno ai 250-300, ovvero quelli iscritti alle qualificazioni di un torneo Slam. Ed è a partire da questo numero che, da quando sono arrivato, abbiamo ritenuto che il Prize Money dovesse essere alzato: nel 2020 era di 12 milioni, ora è quasi triplicato. Un altro aspetto su cui siamo stati trasparenti, e che quindi ha generato fiducia nei tennisti, riguarda i profitti: per 35 anni il business è stato in mano solo ai tornei, nessuno conosceva i reali guadagni. Ora invece le cifre sono pubbliche, siamo in un’era di profit sharing vero e proprio tra i tornei e i giocatori.
Anche nel tennis, come in molti altri sport, si diventa professionisti sempre prima, sempre più spesso da adolescenti. L’ATP come intende salvaguardare i giocatori più giovani?
Ovviamente l’ATP subentra solo dopo, l’inizio della carriera è in mano alle Federazioni, ai tornei juniores. Come presidente, e in base alla mia esperienza, mi sono riproposto di aiutare i giocatori in modo che continuino a formarsi, a istruirsi, parallelamente alla loro carriera sul campo. Consigliandogli e offrendogli piani di università online, programmi di mentorship, inserimento al lavoro. Le carriere nel tennis sono stupende ma brevi, è necessario preparare anche quello che succederà dopo.
Ecco, Sinner e Alcaraz sono stati due wonderkid, e adesso sono i padroni incontrastati del tennis mondiale. Da presidente dell’ATP, come vede il loro attuale dominio? La loro rivalità ad altezza siderale è una buona cosa oppure c’è il rischio che il pubblico finisca per annoiarsi?
Sono d’accordo che una rivalità a quattro potrebbe essere meglio di una rivalità a due, garantirebbe più varietà. Però devo dire che, per il pubblico, sarebbe disorientante anche avere un numero uno diverso ogni anno, vincitori diversi per tutti gli Slam o per i Masters 1000. Al momento le cose vanno così e noi possiamo controllarle fino a un certo punto. Poi magari succede come ai tempi di Federer e Nadal, che vennero appaiati da Djokovic e in quel circolo si inserirono anche Murray e Wawrinka: penso a un Fonseca che tra uno o due anni, per fare un esempio, viene a spezzare la monotonia. Ben vengano i cambiamenti e ben vengano i giovani che ci portano nel futuro.
Come sarà il tennis del futuro? O meglio: come se lo immagina Andrea Gaudenzi?
Per noi è fondamentale che i tennisti più forti al mondo si affrontino tra loro nei migliori eventi, nelle città più attraenti e nelle infrastrutture più belle e accoglienti. Ed è per questo che la nostra idea è quella di dare priorità ai Masters 1000, quindi a una decina di tornei più i quattro Slam e le Finals. Poi naturalmente ci saranno gli altri tornei a cui iscriversi per i giocatori che hanno bisogno di andare in campo, i 500, i 250, ma l’obiettivo resta quello di creare un prodotto capace di andare sul mercato in modo chiaro e definito. Ora non è così, ci sono l’ATP, la WTA, gli Slam, anche l’ITF con la Davis: tutti vanno sul mercato separatamente. Gli spettatori che vogliono guardare il tennis sono costretti a chiedersi: cosa faccio ora? Quanti abbonamenti devo sottoscrivere? Dove devo andare? Quale tennis devo guardare? Si ritorna su, alla necessità di una governance unitaria. Nel futuro, quindi, l’ambizione è quella di convincere tutti questi attori, anche gli Slam, a lavorare tutti insieme.
E come sarà il tennis del futuro a livello di contenuti e di intrattenimento?
Dobbiamo ragionare in modo diverso rispetto al passato, i bambini e i ragazzi di oggi hanno tante alternative a cui appassionarsi, oltre lo sport. E allora dobbiamo pensare a delle cose che vadano al di là di ciò che succede live, formati brevi come gli highlights, oppure contenuti che raccontino le storie dei giocatori. Bisogna cercare di fare cultura, di entrare nella vita delle persone. Siamo anche fortunati perché i tennisti toccano tutto il mondo.
Ecco, appunto: quali sono i mercati in cui state pensando di espandervi?
In questo momento siamo molto forti in Europa e negli Stati Uniti, dove magari il tennis non è lo sport più popolare ma è comunque in Top 5 di quelli più seguiti. L’Asia è il mercato in cui ci sono più margini di crescita, e infatti è stato annunciato un nuovo Masters 1000 in Arabia Saudita. Anche l’Africa ha delle potenzialità ma ci sono da superare ostacoli molto significativi.
E l’Italia? In fondo Andrea Gaudenzi resta pur sempre un italiano, anche se è il presidente dell’ATP…
L’Italia ha fatto un percorso straordinario: un campione come Sinner non si può né costruire né tantomeno programmare a livello industriale, ma avere cinque-dieci giocatori nei primi 100 è frutto di un grande lavoro. Devo congratularmi con Binaghi, ha creato un sistema decentralizzato fatto di tanti tornei, con molti allenatori e maestri forti: un ecosistema perfetto per allevare talenti. E in cui giocare un grande tennis.
Come quello che si vede alle ATP Finals.
Il fatto è che l’Italia ha dimostrato di poter organizzare grandi eventi e portare risultati. Va detto che con le Finals siamo arrivati a Torino nel 2020: io non ero ancora presidente ATP, ma ricordo che venivamo dalla bellissima esperienza di Londra e che c’erano dei dubbi. E invece la città, la regione Piemonte e tutto il Paese risposero in maniera magnifica. E continuano a farlo ancora oggi, tutti sono contentissimi di andare in Italia. Certo, poi c’è stata l’esplosione di Sinner e quindi siamo stati anche fortunati, ma il pubblico ha sempre fatto la sua parte, anche prima dell’arrivo di Jannik. Questo dimostra che ci sono anche altri fattori determinanti, quando si vuole entrare in un’età dell’oro per il tennis: il lavoro, la dedizione, la passione per questo sport.
Gaudenzi come ha alimentato la sua passione per il tennis? Chi erano o chi sono i tennisti che ha amato di più?
Come tutti i grandi appassionati, ho vissuto diverse fasi: da bambino adoravo Borg, poi mi sono innamorato di Lendl, in seguito sono diventato giocatore e i migliori volevo batterli. A livello di stile, devo riconoscerlo, l’avversario che mi affascinava di più ai miei tempi era André Agassi.
E della carriera di Gaudenzi, invece? Cosa è rimasto?
Non dovrei dirlo, ma la finale di Coppa Davis del 1998 è la cosa che mi ha emozionato di più, insieme alla semifinale giocata a Monte Carlo 1995 contro Muster.
E da dirigente?
La cosa che mi ha dato più soddisfazione e che credo rimarrà è l’aver convinto i tornei a dare trasparenza sui ricavi. Se unisci gli interessi di tutti, hai una speranza di crescere nel futuro.