Gli allenatori del tennis sono diventati delle vere e proprie superstar

I coach non sono mai stati così riconoscibili e così influenti, sia dentro che fuori dal campo. E così oggi i giocatori non hanno più soltanto dei mentori, ma si accompagnano a dei personaggi in grado di incidere sull’esperienza del gioco.
di Federico Ferrero 15 Novembre 2025 alle 04:34

etimologia di coach è piuttosto evocativa: carrozza. Il carro trainato dai cavalli ha preso il nome dal villaggio ungherese in cui, nel Medioevo, un gruppo di artigiani si era specializzato nella produzione di quel mezzo di trasporto, e coach, nell’Ottocento, era la figura individuata nelle università britanniche, deputata alla cura e all’instradamento degli studenti che si potevano permettere un tutore privato. Nel tennis, che i giocatori si avvalgano dei servizi di un cocchiere non è certo una novità: da Harry Hopman, grande coach degli australiani nell’era d’oro, all’algido Lennart Bergelin, guida tecnica – e parafulmine – di Björn Borg, la figura dell’allenatore del campione era già conosciuta. Tuttavia, esisteva come elemento più che altro funzionale, necessario al gesto tecnico, indispensabile per sviluppare la strategia in campo e, sì, magari anche condividere le solitudini della vita da giramondo dei tennisti, ma era sostanzialmente non riconosciuta, invisibile ai più.

Nelle fotografie di repertorio lo si scorge appena, un’ombra ai margini, spesso in tuta e con lo sguardo assorto. Nessuno, tra il pubblico, avrebbe saputo dire chi seguisse i giocatori italiani di alto livello; e solo i più appassionati, avvicinandoci ai tempi nostri, ricordavano il nome di Ronnie Leitgeb, ex giornalista austriaco poi coach del numero uno del mondo Thomas Muster e di Andrea Gaudenzi, oggi presidente ATP. L’allenatore era l’uomo della panchina, non della ribalta. Semmai, una qualche visibilità era garantita al capitano di Coppa Davis: in Italia, la figura di Adriano Panatta è associata alle imprese nei match per l’insalatiera al pari dei drittoni di Camporese e dei tuffi di Canè. Oggi, al contrario, il coach è una figura centrale, lautamente riconosciuta, raccontata, scrutata, spiata, seguita sui social.

Capostipite di questa trasformazione, pur in tempi analogici, fu Nick Bollettieri, ex marine americano di origini italiane, sguardo tagliente e pelle perennemente abbronzata, più simile a un personaggio di Hollywood che a un tecnico sportivo. La sua accademia in Florida, poi acquisita dal colosso IMG, fu la prima vera fabbrica del tennis moderno: oltre agli atleti, Bollettieri produceva immagine, appartenenza, epica. Attorno a lui ruotavano Agassi, Courier, Seles, Sharapova: una costellazione che faceva del coach una star collaterale, degna di comparire nelle pubblicità degli sponsor dei suoi campioni. Nell’era dei social e della comunicazione istantanea, Patrick Mouratoglou ne è probabilmente la versione aggiornata, quasi postmoderna. Alla sua accademia di Sophia Antipolis anche i tovaglioli recano il logo personale, con le iniziali P e M. Mouratoglou è l’allenatore-imprenditore, il coach-produttore, l’uomo che allena, commenta, organizza tornei (l’esibizione stile videogame UTS) e pubblica video motivazionali, didattici, tecnici, editoriali. Tutta promozione. Una figura che tiene insieme performance e narrazione, l’allenamento sui campi – magari non proprio tutto il giorno – e il brand. Non allena soltanto i giocatori, allena anche l’idea stessa di sé come personaggio e star del tennis. Il fenomeno, com’era prevedibile, è deflagrato anche in Italia, amplificato dall’effetto-Sinner.

Oggi Simone Vagnozzi, che pure ha il profilo discreto di chi preferisce il lavoro ai riflettori, e che da coach di Stefano Travaglia e Marco Cecchinato era noto solo alla conventicola dei lavoratori del mondo tennistico per le sue qualità tecniche, conta – nonostante un atteggiamento pressoché opposto a quello di Mouratoglou, un inglese non troppo fluente e un carattere schivo – oltre 100mila follower su Instagram. Più di molti parlamentari italiani, più di certi sindaci di metropoli europee. Dopo l’ultimo US Open ha dovuto pure agire contro le fake news a lui dedicate e smentire dichiarazioni sul conto di Sinner mai rilasciate, inventate da un’eco digitale che non conosce gerarchie di attendibilità.

Un tempo nessuno avrebbe avuto interesse a falsificare le parole di un coach; oggi, il suo lessico è materia pubblica. È insomma accaduto qualcosa di simile a ciò che, nel calcio, è già avvenuto con gli allenatori-star: le parole di Guardiola o Mourinho vengono analizzate come testi letterari, con tanto di esegeti pronti a scandagliare pause e sopracciglia, non detti e frecciate. Nel tennis, sport per definizione individuale, la figura del coach è diventata un secondo protagonista, un contrappunto scenico. Basta un gesto nel box, un’espressione di tensione, un applauso ritardato: ogni movimento viene registrato, tradotto, interpretato. Il coach contemporaneo non può più limitarsi alla tecnica, pare. Deve saper leggere la complessità, gestire la comunicazione, decifrare i dati del sentiment digitale che ruota intorno al suo giocatore.

Il tennis è diventato anche un problema di statistica, e dunque di linguaggio: chi allena deve sapere come raccontare la percentuale di prime, la mappa dei colpi, il margine psicologico. È un mestiere che oscilla tra il laboratorio e lo spettacolo, e non stupisce, allora, che molti allenatori siano diventati figure pubbliche, obbligate a padroneggiare la retorica del visibile. Eppure, il rischio di tutto questo è la perdita della dimensione autentica, quell’elemento che faceva di certi coach figure pittoresche e irregolari. Il leggendario Pato Álvarez, per esempio, se ne stava nel box con tute anonime, disinteressato a telecamere e sponsor, interessato solo a visionare il prodotto del suo lavoro durante la performance. Oggi i coach, in larga maggioranza, indossano la stessa divisa del giocatore, marchiata, studiata. Persino le posture sembrano coordinate. Scattano in piedi ad applaudire il punto, mostrano il pugno, tanti si girano a favore di camera e microfono: orpelli ormai fissi nelle tribune dedicate ai coach.

Accanto al coach “di campo”, si è da tempo affermata la figura del supercoach: l’ex campione che torna come guida simbolica, consigliere tecnico e depositario di un sapere carismatico. Lendl con Murray, Becker con Djokovic, Edberg con Federer e così via, fino ai tempi nostri in cui quasi ogni stella ha un consulente dal curriculum sportivo eminente. È una genealogia costruita per filiazione, una maniera per ribadire che il tennis, pur nella solitudine del singolo, ha bisogno di una linea di sangue per trasmettere la conoscenza e i trucchi per abbattere le barriere più robuste: i tornei dello Slam. I padri-allenatori, per contro, un tempo onnipresenti, stanno scomparendo. Rimangono casi come quello di Apostolos Tsitsipas o di Zverev padre, ma sono eccezioni. Il tennis maschile contemporaneo tende a separare affetti e professione. Il coach è un consulente, non un parente; un professionista dotato di competenze trasversali, capace di leggere i dati come un analista e di mediare come un diplomatico.

In un certo modo, l’aver saltato la seconda fila per la prima ha anche cambiato le dinamiche del gioco, o parte di esse. Dal primo gennaio di quest’anno è in vigore la norma ITF che rende il coaching possibile ovunque. Dopo anni di gesti più o meno velati e in codice, ora non c’è più bisogno di nascondersi e, anzi, la presenza di occhi fissi sulla tribuna dei giocatori ha titillato l’ego dei più presenzialisti, cosicché sembra quasi che alcuni tennisti, prima sostanzialmente indipendenti, ora abbiano continuo bisogno di una parola o un gesto (o entrambi) alla fine di ciascun punto, nessuno escluso. Ormai siamo abituati a vedere i due grandi del tennis, Alcaraz e Sinner, rivolgersi dopo ciascun quindici ai loro coach, o per comunicare qualcosa – che sia pur solo un pugnetto alzato al cielo – e ci pare cosa normale; così Djokovic, da ragazzo quasi mai così comunicativo col suo angolo. Ci pare normale ma, per una vita, nel tennis non lo è stato. Anche per chi, come me, fa telecronache, il contributo vocale o gestuale di un coach è passato dall’essere pressoché nullo, fino ai primi anni Duemila, a prendersi progressivamente spazio e tempo anche del racconto della partita: Tartarini (coach di Musetti) ha detto questo e Lorenzo ha risposto altro, Vagnozzi ha consigliato così, papà Cobolli ha spiegato al figlio di rispondere cosà, Colangelo ha ricordato a Sonego la posizione sulla seconda di servizio.

È così e basta, che piaccia o meno. A chi scrive non piace, anche se l’ipocrisia del no coaching era evidente nella sua inapplicabilità, ma tra i grandi giocatori solo Taylor Fritz, per sua scelta, ama per lo più il silenzio tra sé e coach Russell, perché convinto di doversela sbrigare da solo. Per tutti gli altri, fiumi di parole e di gesti. Oggi un coach deve saper gestire, o imparare alla svelta a farlo, la sua dimensione pubblica, perché non si può più nascondere, né forse desiderarlo, perché non è più parte della sua discrezionalità. Quando Federer vinse il suo primo titolo ATP, a Milano, nel 2001, il suo allenatore era Peter Lundgren. Era stato un ottimo professionista a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Poteva attraversare piazza Duomo senza che nessuno lo riconoscesse; oggi, se Vagnozzi si facesse una passeggiata dalla Madonnina alle Colonne di San Lorenzo, ancor più con la tenuta da lavoro, rischierebbe di essere fermato a più riprese per domande estemporanee e richieste di selfie.

La conseguenza è anche un controllo più stretto delle esternazioni: se, un tempo, un coach poteva esprimersi liberamente, slegato dal contesto del giocatore, oggi anche la comunicazione è il precipitato di un’unica fonte, e un allenatore di un big potrebbe trovarsi in ambasce se dovesse commentare aspetti della programmazione o delle prestazioni del suo giocatore non preventivamen te concordati. Del resto, quando la bua al gomito di Sinner a Wimbledon mobilitò la stampa italiana alla ricerca di notizie, finì che il fortino del campione si chiuse a ogni ingerenza e gli unici leaks arrivarono da una mossa non preventivata: il vecchio saggio Darren Cahill, serafico e profondo pensatore del tennis, che disse – o si lasciò sfuggire – qualcosa in diretta sul canale televisivo del quale è collaboratore. Il prossimo passo? Chi lo sa. Nel calcio, che sotto questo aspetto è avanti di qualche decennio, oggi gli allenatori pubblicizzano birre, assicurazioni, carte SIM e connessioni Internet. Sono aziende, talora loghi, filosofie di vita, meme: un approdo probabilmente inevitabile.

Da Undici n° 65
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