Haiti si è qualificata ai Mondiali nonostante il suo allenatore non abbia mai messo piede nel Paese

Dilaniato dalla guerra civile dal 2021, il Paese caraibico rivedrà la sua Nazionale al Mondiale dopo 52 anni. Un trionfo di dolore e speranza, firmato da una squadra che per gran parte non ha mai nemmeno visto la terra e il popolo che rappresenterà.
di Redazione Undici 19 Novembre 2025 alle 14:22

Haiti tornerà a disputare un Mondiale dopo 52 anni. Un successo che, tra la follia di queste qualificazioni alla Coppa del Mondo, rischierebbe di sembrare “solo” un’altra impresa – come quelle di Curaçao o Capo Verde. Non è così, quella di Haiti è la storia più incredibile di tutte, quella che meglio intreccia calcio, dolore, speranza e politica. L’immagine simbolo è arrivata ieri sera, dopo la vittoria decisiva contro il Nicaragua: in campo a Curaçao, il rifugio dove la Nazionale di Haiti gioca in un esilio forzato, si piangeva di gioia. A 800 chilometri di distanza, intanto, il popolo haitiano festeggiava la qualificazione scendendo per le strade, ritrovando un attimo di spensieratezza in una terra che vive nel terrore da quando le gang l’hanno inghiottita quattro anni fa. È un amore a distanza, straziante e assurdo, di una squadra che andrà al Mondiale per difendere un Paese in cui molti della squadra, allenatore compreso, non hanno mai messo piede.

«Mi davano le informazioni sui giocatori al telefono, così ho gestito la squadra da remoto», ha confessato il CT Sébastien Migné, nato in Francia e con trascorsi – da calciatore prima, da allenatore poi – in tanti Paesi del mondo, dall’Inghilterra al Kenya, dal Sudafrica all’Oman. Migné è stato assunto nel 2024, e quindi di fatto non ha mai potuto mettere piede nel Paese. E quindi quella che rappresenta Haiti è una Nazionale costruita su voci, chiamate e fiducia, capace di prendersi il Mondiale senza avere nemmeno una casa. D’altronde, non c’era altra strada. A Port-au-Prince, la capitale del Paese, il calcio è stato cancellato dalla guerra civile esplosa nel 2021. Lo stesso stadio nazionale è stato occupato dalle bande criminali che si sono prese tutto: oggi il campo non ospita più partite, ma è diventato un autentico fortino del terrore, base militare e non solo delle gang. È lo specchio di un Paese al collasso, dove la violenza ha costretto alla fuga oltre un milione di persone, spesso finite a schiantarsi contro i muri anti-immigratori alzati dagli Stati Uniti e dalla Repubblica Dominicana – con cui confina Haiti – ed essere respinte. In quella che l’ONU ha definito una «storia dell’orrore senza fine», questa qualificazione è un inno di vita, in un dolore che va avanti da troppo tempo.

Infatti, l’ultima volta che Haiti ha giocato davvero una partita in casa è stata nel luglio 2021, contro il Canada. Ma i segnali della crisi e della violenza erano già evidenti. Pochi mesi prima, a marzo, il pullman della Nazionale del Belize, in visita, era stato circondato da uomini armati: i giocatori, terrorizzati, si erano barricati in hotel, uscendo solo per giocare la gara e poi fuggire immediatamente. Da allora, la situazione è precipitata, fino a chiudere anche i cieli. Nel novembre 2024, alcune gang hanno sparato contro aerei in atterraggio, isolando Haiti dal resto del pianeta. E in questo inferno vive ancora la famiglia di Louicius Don Deedson, l’attaccante che ha firmato il gol decisivo che, invece, ha riavvicinato Haiti al centro del mondo. Lui segnava per la storia, mentre la testa era a casa, a Port-au-Prince. «La gente scappa, tutto è chiuso, la violenza è folle», ha dichiarato implorando la fine di tutto ciò.

Tanto che tra i giocatori haitiani, come ha rivelato ESPN, aleggia l’idea di fare un discorso per la pace, che possa riportare veramente serenità: un sogno ancora più grande di partecipare a un Mondiale. Come aveva fatto Didier Drogba, nel 2005, in Costa d’Avorio. L’ex attaccante del Chelsea prese il microfono e si inginocchiò nello spogliatoio, implorando in diretta TV il cessare il fuoco nel suo Paese. E funzionò: in qualche modo, il calcio fermò, seppur momentaneamente, la guerra civile in Costa d’Avorio. Gli haitiani, dunque, cercano la stessa magia, quel potere che trascende il gioco. Perché, in fondo, la vera essenza del Mondiale è proprio questa: non serve solo ad alzare coppe e far gioire nazioni intere, ma ad accendere un riflettore sugli angoli del mondo inglobati dal buio. Ricordandoci, così, a guardare in faccia anche l’orrore che sta avvenendo a Port-au-Prince, in Haiti.

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