Se l’Italia arranca, come Nazionale e come massimo campionato, si deve anche alla penuria di giovani. O meglio: al trattamento che il nostro sistema calcistico riserva loro. I problemi sono il verticismo sin dalle giovanili, il poco spazio dato all’estro, o alla tutela dei talenti, e lo scarso coraggio nel lanciarli al momento giusto ad alti livelli. La panoramica più aggiornata arriva dall’ultimo rapporto pubblicato dal CIES Football Observatory. Ed è piuttosto impietosa: su scala mondiale, la Serie vanta il secondo dato più basso per utilizzo di calciatori Under 21 in termini di minuti disputati nell’anno solare 2025. Appena l’1,9% del totale. A livello globale, solo la lega degli Emirati Arabi Uniti fa peggio di quella italiana. E dobbiamo sentirci responsabili dell’ennesimo fiasco generazionale, in termini di gestione a monte.
Ben inteso: la correlazione fra spazio ai giovani, risultati sportivi e prestigio internazionale dei rispettivi campionati non è così ben delineata. Basti pensare che a guidare la speciale classifica troviamo l’A-League australiana (17,7%), seguita dalla Super Liga serba (15,8) e da quella danese (11,7). Tra le tradizionali top-5 europee si registra invece il discreto 17esimo posto della Ligue 1, con il 7,8%. Ma le buone notizie per i più promettenti calciatori Under 21 sul vecchio continente sono finite qui. «La Serie A italiana vanta il secondo dato più basso», ha scritto Giovanni Armanini nella sua newsletter Futbolitix. «Ma basso è anche il tasso della Premier League inglese (2,4%). E non vanno meglio la Liga spagnola (4%) e la Bundesliga (3.4%). Li trovate tutti tra i peggiori in classifica, perché i grandi campionati d’investimento non hanno né la vocazione e né tantomeno il compito di sviluppare giovani talenti per le Nazionali».
Il problema allora è che la Serie A versa in un limbo paralizzante: non rappresenta più un punto di arrivo in termini di carriera – siamo pur sempre soggetti dalle migliori offerte dall’Inghilterra, da Madrid, da Barcellona, da Parigi e da Monaco di Baviera – ma non ha nemmeno saputo reinventarsi in un sano ambiente di transizione, dove poter vendere un prodotto di livello e al contempo essere il contesto ideale per la crescita dei migliori prospetti. Una strutturale crisi d’identità che continuiamo a pagare a caro prezzo, Nazionale alla mano. E non solo. Ma soprattutto la pagheranno i calciatori di domani, se le cose non dovessero cambiare presto.