Sono stati attimi di terrore. La tensione si percepiva nell’aria da settimane, nonostante le chiamate rassicuranti che provavano a fingere normalità. C’erano gli sguardi impauriti di chi doveva solo attraversare la strada, travolti da una violenza che si pensava distante. È l’atrocità della guerra. Quei momenti che rimangono scolpiti nella mente, schegge eterne. Così la racconta Roberto De Zerbi, attuale allenatore del Marsiglia, che l’ha vissuta sulla sua pelle, durante le terribili settimane del febbraio 2022, quando la Russia ha invaso l’Ucraina ed è iniziato un conflitto che dura ancora oggi. Le stesse immagini si ripetono incessantemente quasi quattro anni dopo, e i civili continuano a perdere la vita quotidianamente. Le città nevralgiche, come Kiev, restano obiettivi da piegare, come leggiamo ogni giorno, nella disumanità sotto le bombe. «Quando noi dell’Europa occidentale parliamo della guerra, parliamo di qualcosa di cui non siamo realmente consapevoli», ha detto De Zerbi al Telegraph.
In qualche modo, abbandonare una terra in guerra è una condanna. Portare in salvo la propria vita significa lasciare indietro un popolo intero dilaniato dal terrore, e la fuga si trascina dietro il peso di una sofferenza implacabile. L’angoscia non è solo paura, ma è la logorante attesa della fine di un orrore che eri abituato a condividere. Questo nodo al petto lo ha descritto anche Paolo Bianco, ex assistente di De Zerbi in Ucraina e oggi allenatore del Monza. «Nella mia mente resta il senso di angoscia quando sono salito sul treno per raggiungere Leopoli: non volevo lasciare quella terra», ha raccontato recentemente alla Gazzetta dello Sport. Quella partenza da Donetsk, la casa dello Shakhtar, ma anche la prima terra ufficialmente invasa dalla Russia in Ucraina, ha lasciato una ferita aperta. «Ci devo tornare per completare un pezzo della mia vita», ha continuato Bianco. Per De Zerbi, quello Shakhtar, pieno di talenti e di gioventù, «era la squadra dei sogni». Sogni spazzati via dalle bombe, ma un legame che la guerra non è riuscita a spezzare.
Adesso, a distanza di anni, la sensazione rimane la stessa. Quel dolore, già leggibile sui volti durante il ritorno in Italia, è la testimonianza di quanto l’esperienza ucraina abbia segnato profondamente De Zerbi e il suo staff. La sensazione non svanisce, anche perché la situazione non è migliorata. Quei giorni trascorsi nel bunker di un hotel, blindati mentre sopra di loro il conflitto esplodeva a cielo aperto, non possono essere dimenticati. Per quanto abbiano potuto agevolare la fuga dei loro giocatori brasiliani, hanno dovuto comunque lasciare dietro tutti gli ucraini: giocatori, amici, conoscenti e tifosi. «Sono stato piuttosto male quando sono tornato in Italia», ha confessato De Zerbi al Telegraph. «Mi sentivo come se non stessi facendo la cosa giusta, soprattutto perché cerco sempre di stare dalla parte delle persone più vulnerabili e più deboli». Nonostante la consapevolezza di non poter cambiare il mondo da solo, si è mostrato estremamente duro con sé stesso: «Moralmente parlando, la mia coscienza non era pulita».
Così, senza rendersene conto, De Zerbi e il suo staff hanno fuso l’eredità di quel trauma nella loro sensibilità emotiva, nella loro anima. Non è solo il ricordo delle bombe, ma la consapevolezza spiazzante di aver toccato il confine sottile che separa la normalità dal terrore assoluto. Tornare in panchina, in un mondo dove il dramma più grande è perdere una partita, deve essere sembrato, per lo meno all’inizio, un atto di profonda irriverenza. Ma è proprio in campo che sta avvenendo la rielaborazione dell’esperienza in Ucraina, trasformando la vittoria non in un’ossessione, bensì in una responsabilità, un modo per onorare i propri privilegi.