Chi lo ha visto difendere i pali delle giovanili dell’Atlético Madrid, nel bel mezzo della sua adolescenza, giura di non essere rimasto colpito in maniera particolare dalle sue qualità fisiche e tecniche, quanto piuttosto dalla sua calma. Parava come un veterano, David de Gea, anche quando di anni ne aveva 14, con una sicurezza e una fiducia che viaggiavano in totale contrapposizione con la sua carta di identità. A forza di convivere con l’etichetta di colui che dimostrava, almeno sportivamente, più degli anni che effettivamente aveva, a un certo punto si è trovato a confrontarsi per davvero con il tempo che passava. E così il non ancora vecchio ma certamente esperto De Gea ha detto basta: si è fermato e si è allontanato da sé, ripetendosi quanto fosse importante fare chiarezza pur non avendo in testa la prospettiva di lasciare il calcio.
L’anno sabbatico
Ha preso la rincorsa, come per un rinvio da fondo campo quando il punteggio è di 1-0 e mancano pochi minuti al triplice fischio: una di quelle lente, pensate, maliziose. «Perché per vivere davvero / Bisogna spesso andarsene lontano / E ridere di noi come da un aeroplano», cantava Giorgio Gaber (Ipotesi per una Maria, 1981): e De Gea, per un anno, ha scelto di guardarsi da lontano. Inizialmente ha atteso invano che arrivasse l’offerta di qualche big, quindi si è messo l’anima in pace. «Dopo aver giocato per così tanti anni ad altissimi livelli, volevo soltanto stare un po’ tranquillo: forse è stato il periodo più bello della mia vita», ha detto qualche mese fa in un’intervista rilasciata a Matteo Dovellini di Repubblica, raro esempio di flusso di coscienza da parte di un giocatore in attività che, a differenza di molti altri, pare avere una testa discretamente pensante e non si vergogna nel farlo sapere a chi lo apprezza per quel che fa in campo.
Non è un’eresia inserire De Gea nella Top 3 dei portieri di questa stagione in Serie A, come ha scoperto man mano la Fiorentina, la candidata più credibile, dopo l’anno di stop, apparsa alla corte del guardiano spagnolo. Nei mesi si erano susseguite proposte che sapevano di esilio dorato (Arabia Saudita) e altre da periferie dell’impero calcistico ma comunque vagamente più allettanti sotto il profilo sportivo (Stati Uniti). Sognava la Spagna, ripudiava una nuova proposta inglese: nessun approdo era possibile dopo dodici stagioni trascorse al Manchester United, avendo attraversato tutto l’arco di esperienze umane all’interno dei Red Devils, dai trionfi iniziali con Sir Alex Ferguson all’epopea spesso fin troppo triste di tutti i suoi successori, fermandosi solamente al penultimo in ordine cronologico, Erik ten Hag. Non volendo considerare Ryan Giggs come uno straniero, pur essendo gallese, spetterebbe proprio a De Gea il record per il maggior numero di partite giocate con la maglia dello United da un giocatore estraneo alla terra d’Albione: sono 545, sufficienti comunque per piazzarsi al settimo posto in assoluto.
Dopo essersi allontanato dal calcio, dopo aver trascorso mesi con la famiglia cercando di tenersi comunque in forma, un po’ in Spagna, un po’ sui campi dell’Altrincham, club della non-League inglese con sede lì dove De Gea viveva, dopo qualche vacanza e un bel po’ di partite a padel, dopo tutto questo, insomma, corpo e mente hanno ripreso a lavorare in un’unica direzione: quella del ritorno. Del resto, il ritiro non era stata mai un’opzione davvero sul tavolo. L’obiettivo era prendersi un anno sabbatico: una volta realizzata l’assenza di proposte realmente convincenti, meglio fermarsi per un po’ e ricaricare le batterie. Già da qualche tempo aveva rinunciato ai servigi di Jorge Mendes, il super-procuratore portoghese, affidandosi a una figura dal profilo decisamente più basso, l’avvocato (e amico) José Carlos Bouzas. Forse anche questo potrebbe avergli chiuso delle porte.
Una carriera sull’ottovolante
In pochi, nella storia recente del calcio, hanno vissuto gli alti e bassi di De Gea, passato nel giro di alcuni anni da essere ritenuto tra i migliori portieri del mondo (il migliore, a un certo punto, secondo José Mourinho) a una sorta di sciagura all’interno di quel frullatore di delirio e mestizia che risponde al nome di Manchester United. In un video che fece il giro del mondo, un tifoso inglese si lasciò andare a una definizione lapidaria: «David de Gea could save the fucking Titanic», e non crediamo sia necessaria la traduzione. Eppure, all’improvviso, si era riscoperto fragile, incapace di volare da un palo all’altro come aveva fatto fino a qualche mese prima, diventando la riserva di Dean Henderson e ritagliandosi un ruolo come portiere di coppa.
Il destino aveva in serbo per lui la beffa più grande: nella finale di Europa League del 2021, era stato lui a sbagliare il rigore decisivo contro il Villarreal, consegnando così la coppa agli spagnoli dopo un atroce 11-10 nella serie finale. Un solo errore, il suo. «Il calcio è come la vita: momenti belli, momenti brutti. Tutto sta nell’andare avanti dopo i momenti brutti, nell’avere fiducia nei propri mezzi, nel continuare a lavorare. Di quella finale e di quell’errore dico solo una cosa: mi dà più fastidio il fatto di non aver parato neanche un rigore», ha raccontato in un’intervista a El Pais.
Sono stati proprio dei rigori a farci capire che De Gea non era arrivato in Italia per una vacanza lautamente pagata. Aveva lasciato lo United con orgoglio, non rinnovando il contratto al termine di una stagione in cui aveva vinto per la seconda volta il Golden Glove, il premio che va al portiere con più clean sheet della Premier League: e se nel 2018 lo aveva fatto agli ordini di un allenatore storicamente attentissimo alla fase difensiva come José Mourinho, riuscirci nel 2023, in una squadra arrivata a 14 punti dal City capolista, era stato un mezzo capolavoro. Una volta a Firenze, De Gea si è rimboccato le maniche, anche perché alla Fiorentina erano passati diversi portieri nel corso degli ultimi anni, da Gollini a Christensen, eppure tutti avevano finito per arrendersi alla concorrenza del silenzioso Pietro Terracciano. Nessuno, però, era David de Gea, che in una notte da incubo in casa della Puskas Akademia, con i viola ridotti in nove, ha parato tutto il parabile e anche qualcosa in più, rivelandosi decisivo anche nella serie finale di rigori dopo 120 minuti di agonia e ricordando al mondo l’importanza delle mani, in un calcio che guarda sempre di più a quello che i portieri fanno con i piedi. «Penso si dia troppa importanza a questo particolare. Conta, certo, ma prima di tutto il portiere deve essere bravo con le mani. E mentalmente, il mio vero pregio», ha detto nella già citata intervista a Repubblica,
Firenze come Madrid
Adesso appare chiaro come esista una Fiorentina con De Gea, più sicura, consapevole di avere una sorta di valvola di sicurezza, e una senza De Gea, che perde un leader, un punto di riferimento dai principi solidi, uno che le sconfitte se le porta a casa, ci rimugina, le elabora e ne fa benzina. Uno che ci tiene, che ha superato problemi seri ai legamenti nel corso dello sviluppo da adolescente fino a diventare il portiere della Nazionale spagnola, che ha difeso con orgoglio la porta della squadra per la quale aveva fatto il tifo sin da bambino, la stessa che aveva lasciato non senza qualche dubbio quando era arrivata l’offerta dello United, avendo comunque consegnato alla bacheca colchonera un’Europa League e una Supercoppa Europea: «L’Atlético Madrid ce l’avevo addosso fin da piccolo. A Madrid avevo tutto: la mia famiglia, i miei amici, tutto. Mi costò molto andarmene, sentivo l’amore della gente».
Ora si gode Firenze, la sua gente, l’arte che lo circonda, un’ambizione ritrovata e la volontà di arrivare fino in fondo in Conference League. Non è ancora stufo di vincere, il fatto di essersi fermato per un anno gli ha fatto capire qualcosa in più su di sé e sulla vita di uno sportivo. Di tanto in tanto, guardando la porta, ripensa ancora alle prime volte, alla sindrome dell’impostore che lo aveva colto quando l’Atlético Madrid lo scelse e lui non si sentiva all’altezza. Una sensazione svanita di colpo prendendo posto nei pali del vecchio Calderón, contro il Saragozza: un rigore parato all’esordio nella Liga, non ancora diciannovenne eppure, per tutti, già veterano. David de Gea, da quel giorno, non ha ancora smesso di parare, nel tentativo di inseguire quel ruggito che lo fece sentire davvero a casa anche da solo in mezzo a due pali.
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