La fatica e l’acqua

Dagli inizi pionieristici a oggi, il nuoto professionistico è da sempre uno degli sport più duri per la mente e per i muscoli.

In principio fu un tuffo. In acque placide, senza un filo di vento, sotto cieli uggiosi e con addosso la nobile voglia di non faticare troppo. Perché nuotare era natura, era fisico, era corpo e solo a volte sudore nascosto nell’acqua. Poi cambiò tutto. In principio fu lo stile a rana degli universitari britannici che sfidavano il mondo con eleganza e si trovarono accanto un giovane uomo venuto da un altro mondo. Come i violinisti sul Titanic, decisero di proseguire alla loro maniera mentre lui sbracciava e sbracciava e vinceva. Testardi andarono tutti a fondo. Elegantemente sconfitti. Nobilmente umiliati. Regalmente annientati da quel ragazzo con la pelle scura ma non troppo e i capelli lunghi ma non troppo. Si chiamava Duke Kahanamoku.

In principio furono il sole delle Hawaii e le onde alte poco fuori scuola. Duke si tuffava in mare. Non era mai da solo. Con lui, inseparabile, c’era lei: papa nui. Una lunga e sgraziata tavola di legno leggero, modellata dal mare e dalle sue mani. Duke aveva inventato il surf. Intanto, batteva tutti nei 100, nuotando a velocità doppia con la naturalezza slanciata di chi cerca l’onda giusta. Non lo sapeva nessuno, ma il neonato mondo del nuoto agonistico aveva appena scoperto la sua America: il nuoto era diventato veloce. Era nato il front crawl: lo stile libero. Erano nati i forzati della fatica.

In principio fu un tuffo, poi arrivò quell’urlo. Lungo, straziante, spaventoso. Duke Kahanamoku vinse due Olimpiadi di fila separate dai milioni di morti della Grande Guerra, mentre il suo stile veniva adottato da tutti. Fu re incontrastato della fatica fin quando a Parigi, nel ’24, non si trovò in vasca un giovane fattorino del Plaza Hotel di Chicago. Duke pensò che il ragazzo fosse troppo giovane e troppo forte. Decise che era meglio smettere di faticare. L’urlo arrivò dopo che l’ex fattorino di Chicago aveva vinto 5 ori in due Olimpiadi, conquistato 67 record mondiali e cambiato definitivamente il nuoto. Da quel momento in poi il nuoto non sarebbe più stato solo talento e leggerezza e sudore nascosto nell’acqua, ma applicazione e tanta tanta fatica. D’ora in poi, però, impegno, applicazione e sofferenza agonistica avrebbero meritato qualcosa in più di medaglie e record: una vita diversa e migliore. Quell’urlo indicò ai forzati della fatica quale sarebbe stato il loro prossimo traguardo, l’isola del tesoro su cui, un giorno, approdare. L’urlo si udì una mattina del 1932, a Hollywood, mentre negli studi della MGM, l’ex fattorino Johnny Weissmuller, praticamente nudo, stava provando il ruolo di Tarzan, l’uomo della giungla.

In principio, da noi, non fu un urlo, fu un Altrimenti ci arrabbiamo, fu un Porgi l’altra guancia, fu Carlo Pedersoli che amava la birra Budweiser e Tracy Spencer e divenne Bud Spencer. In principio fu questo splendido campione, primo italiano a scendere sotto il muro del minuto nei cento stile, 59”5, anno 1950. Bud nostro Duke, nostro Tarzan e nostro primo atleta a saper costruire un ponte tra la fatica nascosta nell’acqua e la meritata celebrità; quasi, quest’ultima, fosse la giusta ricompensa per tanta sofferenza mentale e muscolare. Da allora, più o meno tutti i nostri grandi del nuoto hanno provato a seguirlo. Merito di quei fisici statuari figli delle bracciate e della palestra, merito della loro solitaria abnegazione alla fatica che ne ha temprato la determinazione. Massimiliano Rosolino, ad esempio, che “ballava sotto le stelle” ma prima era stato campione olimpico a Sydney 2000 nei 200 misti.

Per esempio, Filippo Magnini, sulle spiagge a condurre isole dei famosi ma prima, nel 2005 e 2007, due volte campione del mondo consecutivamente nei 100 stile. Oggi ci sta provando Federica Pellegrini: le luci della moda, dei talent, della tv la illuminano senza rivelare mai la fatica nascosta in vent’anni di carriera e sofferenze patite per emergere, fin da ragazzina, quando non aveva 15 anni, e per restare poi a galla, di più, per cavalcare l’onda come Duke e Tarzan fino a oggi che ne ha 31. Ora che l’attendono, lei come gli altri forzati della fatica, i Mondiali coreani di Gwangju, a metà luglio. Federica prima donna italiana a vincere l’oro alle Olimpiadi, Federica bambina nel 2004 che azzanna con forza e rabbia e incoscienza l’argento dei 200 stile ai Giochi di Atene. Federica che torna dalla Grecia e si ritrova ogni mattina, all’alba, su un pulmino che la porta a una fermata della metro di Milano insieme con altri ragazzini come lei, direzione scuola, andata e ritorno, poi di nuovo sul pulmino, in coda sulle tangenziali di Milano, verso le piscine per ore di allenamento, infine chiusa in foresteria a mangiare, studiare, sola, bambina, lontana da casa.

C’è tutto questo dietro i nostri campioni e meno campioni. Novella Calligaris, ad esempio. Lei minuta, uno scricciolo che dovrebbe soccombere davanti alle schiave dei maneggi chimici della Germania Est. Sono i primi ‘70, la DDR fa delle medaglie un modo per tenere unito quel suo pezzo di Germania stuprata dal Muro, eppure Novella, in Europa, batte tutte le rivali e, bambina come Federica, ai Giochi di Monaco ’72 conquista tre medaglie, un argento nei 400 stile e due bronzi nei 400 misti e negli 800 stile. Le prime in assoluto nella storia del nostro nuoto a livello olimpico. Lascerà a neppure 20 anni, troppa la voglia di vivere e fuggire dalla galera dei forzati della fatica.

L’Italia femmina dovrà attendere Federica, oltre 30 anni dopo, per tornare sul podio; 16 anni sarà invece l’attesa dell’Italia maschia, 1988, il bronzo di Stefano Battistelli nei 400 misti a Seul. Per il primo oro donne, ancora Federica, a Pechino, 200 stile; per quello uomini, Domenico Fioravanti, a Sydney 2000, doppietta mai vista al mondo nei 100 e 200 rana. Domenico emblema dei forzati della fatica, costretto, quattro anni dopo, a lasciare per problemi al cuore.

I nuovi forzati si chiamano oggi Gregorio Paltrinieri, campione olimpico e mondiale dei 1500, che da bambino s’ammazzava di allenamento tutto l’anno con un solo obiettivo, «battere papà che in mare, al largo, faceva a gara senza mai farmi vincere». Greg 18 chilometri di nuoto al giorno, Greg prigioniero dell’acqua «che quando non nuoto per un po’ devo fare pace con lei». I nuovi forzati si chiamano Gabriele Detti, campione del mondo negli 800, che grazie alla fatica del nuoto si è ripreso la gamba maciullata su uno scoglio quando aveva 6 anni; si chiamano Simona Quadarella e i suoi tre ori agli Europei 2018 nei 400, 800 e 1500 stile, che ha solo 20 anni e s’ammazza di fatica da dieci e dopo ogni week end di gara, rientrata in classe in un liceo di Roma, «puntualmente veniva interrogata, perché in Italia non c’è comprensione per lo sport», racconta suo padre, rivelando quell’altra grande fatica nascosta nell’acqua e in uno sport importante solo alla vigilia di Giochi e Mondiali.

I nuovi forzati si chiamano Alessandro Miressi, re italiano ed europeo dei 100 stile e Margherita Panziera, regina continentale dei 200 dorso. Non tutti loro diventeranno Tarzan o Bud Spencer, tutti però ci proveranno. Perché la fatica ha modellato i loro corpi e fortificato le convinzioni. E quell’urlo lungo e straziante è nascosto dentro ognuno di loro.

Dal numero 28 di Undici