Antonio Conte ha avuto ragione, di nuovo

Come ha fatto il tecnico interista a buttare giù il regno della Juventus, come lui stesso ha detto? Facile, a modo suo. Un modo che, dopo anni, si scopre ancora attuale, e soprattutto vincente.

Antonio Conte è lo studente un po’ saccente che si siede al banco davanti, il primo della classe che inevitabilmente finisce per attirare invidie e antipatie. Aspetti che lo hanno accompagnato per gran parte della carriera – una carriera straordinariamente vincente – e circondato di scetticismo anche quando non ce ne sarebbe stato assolutamente bisogno. Succede pure quando vince, con le voci contrarie pronte lì a insediarlo: d’accordo, ma in Europa? D’accordo, ma il bel gioco? D’accordo, ma ancora la difesa a tre?

Questa stagione, conclusa con lo scudetto dell’Inter, non ha fatto eccezione. Conte ha dovuto controbattere per praticamente tutto l’anno alle accuse di un parterre di critici molto affollato. I temi della diatriba sono stati sempre gli stessi: l’Inter gioca male, si esalta solo in contropiede, e poi è ovvio che in Champions va fuori subito. Il partito degli scettici – che vanta una lunga ed eterogenea sfilza di iscritti, da Capello a Sacchi a Cassano, come certe vecchie coalizioni di centrosinistra che tenevano insieme Bertinotti e Mastella – ha continuato a perorare le stesse cause di sempre, non arrendendosi né a certi accorgimenti a stagione in corso decisi dal tecnico nerazzurro, né ai risultati che, uno dopo l’altro, stava impilando.

Più volte, nel corso della stagione, Conte ha rimarcato che quella dell’Inter, a suo dire, è stata ed è tuttora la sfida più difficile in carriera. «Venire qui è stata la scelta più difficile, ma io mi metto sempre in gioco e in discussione. L’Inter è stato il non plus ultra in questo senso: avevo e ho tantissimo da perdere». E dire che non è mai stato uomo da scelte semplici. Nella su visione vincere con l’Inter è stato il successo più complicato da raggiungere nel suo percorso di allenatore, nonostante in passato si sia trovato a restituire gloria a una Juventus fortemente ridimensionata nel periodo post-Calciopoli, oppure a dover strappare la Premier alla concorrenza sopraffina di allenatori come Pep Guardiola, Jurgen Klopp e José Mourinho.

Nelle difficoltà riscontrate da Conte c’è molto di quello che ha poi detto a campionato vinto: «Abbiamo buttato giù il regno della Juve, non c’era nulla di scontato». Adesso, con le difficoltà di gioco e di risultati dei bianconeri, lo scudetto dell’Inter potrebbe apparire quasi come una conseguenza; ma se si pensa soltanto a due anni fa, quando Conte si è seduto per la prima volta sulla panchina dei nerazzurri, l’atmosfera di fine impero in casa Juventus era ben lontana dall’essere percepita. Figurarsi tra gli avversari.

Vincere non è mai facile a tutti i livelli, non lo è nemmeno e costruire un gruppo affiatato, con il giusto equilibrio, inculcare una certa idea di gioco, far sì che i giocatori ne siano convinti, dunque attraversare e superare le difficoltà che ogni anno si vengono a frapporre in una stagione, e spuntarla sulla concorrenza – beh, tutto questo è così complicato che non è neanche lontanamente immaginabile, a parole. All’Inter, la difficoltà era duplice: non solo perché c’era una squadra rivale che vinceva da quasi un decennio, ma soprattutto perché, per lo stesso decennio, l’Inter non aveva vinto nulla di nulla. Non c’era una tradizione vincente, per dirla in altre parole.

Se l’apice emotivo del tifoso interista era Vecino che la riprendeva contro il Tottenham in una altrimenti dimenticabilissima partita di una fase a gironi, o il gol insperato di Nainggolan all’ultima giornata contro un Empoli mezzo retrocesso, in quella che stava già per diventare una delle tante partite-psicodramma – e stiamo parlando di pochissimi anni fa, mica delle mitologiche ere con Mazzarri che addentava bottiglie in panchina o delle affascinanti debacle interne contro il Beer Sheva, con tanto di maglia Sprite –, beh, il lavoro di Antonio Conte, si può ben dire, va oltre la semplice vittoria di uno scudetto: è il risveglio di un orgoglio, sopito da tempo immemore.

Del resto, è questo il suo marchio di fabbrica, a ben vedere. A Bari, quando prese una squadra che lottava per non retrocedere in Serie C, riportandola poi in A a distanza di otto anni; con la Juve, che prima di lui aveva collezionato due umilianti settimi posti consecutivi, inaugurando quel ciclo vincente che lui stesso ha poi terminato; con la Nazionale italiana, risvegliando dal torpore agonistico una squadra timorosa e poco convinta di sé; con il Chelsea, in un ambiente attraversato dalle tensioni più varie, riuscendo, non si sa come, a compattare e a far vincere un gruppo che di lì a poco si sarebbe riscoperto evanescente, costringendo in seguito la società a fare tabula rasa e a ricostruire da capo.

Questa sfilza di trionfi dura ormai da oltre dieci anni, ed è questo che affascina fortemente di Conte: non ha ancora perso il tocco magico, anzi, sembra rinnovarlo di stagione dopo stagione. Ci sono allenatori che dopo una decade non sanno più scendere a patti con se stessi (vedi Mourinho), preferiscono non abbandonare il porto sicuro (Simeone), o devono aggiornare costantemente la propria identità tecnica, in quanto visionari ed esploratori del gioco (Guardiola). Conte non ha dovuto fare nessun enorme aggiornamento di campo, almeno da quando, nel 2011, varò il 3-5-2 che poi gli è rimasto incollato. Quello che, per tornare al discorso iniziale, gli vale una bella dose di critiche.

A un certo punto di questa stagione, pur non derogando dai propri principi tattici, Conte ha cercato di costruire una squadra più offensiva, più varia sul piano tattico, orientata a un maggior possesso: lo ha fatto deponendo Skriniar per consegnare una maglia da titolare a Kolarov, più abile nel palleggio e nella spinta, e creando un trequartista che, in realtà, né Eriksen né Vidal hanno interpretato al meglio. È stato il periodo in cui l’Inter costruiva tantissimo senza però concretizzare al meglio, e finiva pure per concedere più del dovuto. È stato il periodo, anche, in cui le critiche sono cresciute di potenza e intensità, mentre la Champions sfuggiva dalle mani nel modo più deludente e cocente possibile.

Il resto è noto: la decisione di tornare a un impianto di gioco più cauto, il ritorno di Skriniar da titolare, alcune scelte più conservative. Scelte che hanno pagato: se nelle prime 17 partite l’Inter aveva concesso 23 gol, nelle successive le reti subite sono state appena sei. Soprattutto, il girone di ritorno è stato un autentico capolavoro: 41 punti conquistati su 45 disponibili. Ha avuto ragione lui.

I meriti di Conte sono giganteschi, e toccano ogni aspetto che meriterebbe la pena approfondire a turno: dalla capacità di difendere il gruppo dalle difficoltà iniziali e di metà stagione all’inserimento di Eriksen, tardivo ma dall’efficacia eccezionale, fino al modo, unico e altisonante, di valorizzare giocatori e metterli al centro del progetto. Romelu Lukaku è uno dei migliori attaccanti d’Europa, ma lo sapevamo prima che venisse guidato da Antonio Conte? Il discorso vale per tante altre figure, da Barella a Bastoni a Brozovic, passando per giocatori che da ipotetici scarti si sono ritrovati a essere determinanti, come Darmian o Perisic.

Dal 2008/09 a oggi, Antonio Conte ha vissuto nove stagioni per intero in una squadra di club. Sei volte è arrivato primo, otto tra le prime due (compreso il secondo posto con il Siena, che è comunque valso la promozione diretta). Soltanto guardando la visione d’insieme, probabilmente, ci si rende conto dell’incredibile lavoro che questo tecnico è in grado di fare in ogni avventura, qualunque siano le condizioni pregresse e gli obiettivi posti dal club. Quando Marotta sottolineava come il proprio allenatore fosse l’autentico top player della squadra, aveva centrato il punto: sono i top player a farti vincere le partite e i campionati. E uno come Conte lo ha dimostrato in ogni modo possibile.