Il nuovo calcio popolare

Reportage da Milano, quartiere Gorla, dove No League usa il calcio per costruire una comunità. Con il supporto di C.P. Company.

Una maglia dell’Inter troppo larga e una del Bologna giusta giusta, i calzettoni tirati su fino al ginocchio, i fantasmini che spuntano appena dagli scarpini fluo. I bambini che arrivano al campo in anticipo per l’allenamento sembrano sempre agitati e felici, si riuniscono, fanno capannello e scherzano, sembra che non ce la facciano più, ad aspettare. Gorla e San Siro sono distanti una decina di chilometri, bisogna tagliare tutta Milano per arrivare dal quartiere periferico di Nord-Est allo stadio Meazza. Da Gorla, area che affaccia su viale Monza e pare dieci passi in ritardo sulla crescita veloce della città, il calcio dei professionisti è molto lontano. Ma in un pomeriggio qualsiasi di fine estate nel campetto tra i palazzi in via Giulio Bechi si può trovare un Sandro Tonali, anzi almeno due, anche un paio di Nicolò Barella, qualcuno che con le mani fa come Ronaldinho e qualcun altro che esulta saltando e gridando come CR7, quello potente e sorridente del Portogallo, non quello orgoglioso e triste dello United.

Negli allenamenti e nelle partite della No League Gorla non c’è spazio per la competitività a ogni costo, quella che porta a screditare l’avversario o magari a usare ogni mezzo possibile, anche scorretto, per superarlo. L’importante è stare in campo, anche oltre il valore decoubertiniano. No League – di cui la divisione di Gorla si può considerare uno spin-off o un campione rappresentativo dell’insieme – è soprattutto un percorso educativo che si cura di garantire l’accesso allo sport a tutti, anche a chi non potrebbe permetterselo. «La domanda di attività sportiva in certe fasce della popolazione è altissima, ma troppo spesso non incontra un’offerta adeguata, soprattutto a livello economico», ci dice David Vezzoni, ideatore e fondatore del progetto No League. «Abbiamo iniziato nel 2008 con i Centri di aggregazione giovanile, i cosiddetti Cag, abbiamo creato una comunità di 450 atleti che si allenavano e facevano campionati di calcio e pallavolo, divisi per fasce d’età. Il nostro lavoro a Gorla è una frazione dell’impegno che diffondiamo in tutta Milano, soprattutto nelle periferie».

Un impegno e un esempio di cui Milano ha bisogno, un lavoro che si consuma sul territorio per il territorio, non un’operazione di marketing che dà una mano di lucido al quartiere per poter dire che la gentrificazione è arrivata fin qui. È l’accesso allo sport che diventa motore di sviluppo urbano e sociale e umano, dedicato a chi alla scuola calcio privata del quartiere non si avvicina nemmeno, e spesso diventa un modo per superare una barriera culturale o linguistica. No League Gorla accoglie ragazzi dai 5 ai 21 anni, anche per aiutarli nell’integrazione: tra loro ci sono immigrati, italiani di seconda generazione, rifugiati, «siamo già 110 quest’anno, ma a occhio e croce dovremmo arrivare sui 180», dice Vezzoni. Poi in tutto questo un tunnel in partitella vale comunque un brusio di «ooooh» come su tutti gli altri campi, che sia in centro, in periferia o allo stadio.

La differenza che si nota anche da fuori è che nella No League c’è uno spirito diverso: chi l’ha detto che i conetti non possano essere anche dei cappellini o dei paraorecchie o dei megafoni. Gli unici ad averlo capito sono i bambini del 2017, i più piccoli che partecipano. Per loro l’allenamento è condivisione degli spazi, del tempo, un momento di formazione e ovviamente una lezione per imparare a girare la caviglia per fare un controllo con il piatto e un passaggio al compagno, con l’obiettivo di raddrizzare quella traiettoria un po’ sbilenca o rimbalzina. Nell’attesa di entrare in campo, i ragazzi un po’ più grandi, sui 13 o 14 anni, decidono chi è più forte tra Lewandowski e Suárez e che la Serie A è meglio della Premier. Ma la vedi la Serie A, fanno solo passaggi corti inutili, meglio l’Inghilterra. Semmai la Liga, ma in Premier le difese si aprono come il burro mentre in Italia per fare un gol devi sudare. Poi in campo ci vanno e sanno giocare, l’hanno imparato soprattutto qui, grazie a educatori e allenatori che condividono con loro i pomeriggi: già fanno le triangolazioni e tutte quelle geometrie che sono indispensabili anche nel calcio professionistico. Un ragazzo con la maglia del Milan segna e allarga le braccia come Ibra, gli rispondono con una pernacchia, ha appena messo dentro un rigore poco angolato.

Il campo e il campetto, entrambi in sintetico e piuttosto nuovi, sono affollati a tutte le ore, non c’è tempo da perdere. È anche un modo per valorizzare l’impegno di chi come David Vezzoni si è speso per avere in gestione questi spazi preziosi. «Abbiamo preso la concessione di quei campi fino al 2035 entrando nel direttivo dell’Asd Gorlese calcio e pagando i debiti della vecchia associazione. Abbiamo fatto interventi cruciali per svolgere l’attività sportiva: dalla messa in sicurezza dell’impianto elettrico e degli spazi all’aperto, fino all’illuminazione del campo». Uno dei ragazzi che allena mi dice che si suda e si lavora, però è bello stare lì, far parte della squadra. Un altro dei “mister” ha «settanta e rotti» anni, è il più duro con i ragazzi, l’unico che li costringe a ripetere i gesti tecnici per affinarli, ma un giorno a settimana lo trova sempre per provare a trasmettere qualcosa dalle sue esperienze di allenatore. «Qui siamo tutti volontari, siamo una trentina e ci dividiamo su 7 squadre, di cui una ha già una squadra A e una squadra B», dice Cristiano, il direttore sportivo di No League. Cristiano è del quartiere Precotto, che in teoria avrebbe una storica rivalità con Gorla, ma non fa niente. Mi racconta che in primavera No League Gorla ha accolto 12 ragazzini ucraini, scappati in Italia dopo l’invasione russa del 24 febbraio. «I più piccoli avevano 5 anni, il più grande ne aveva 13. Alcuni di loro ci hanno raggiunto con i servizi sociali, altri li hanno porta ti i genitori: hanno giocato tutti con noi, hanno fatto un percorso breve ma utile per integrarsi meglio in città, o anche solo per distrarsi un po’».

No League apre le porte a tutti. È importante dopo due anni difficili di pandemia, tra paura, distanziamento e misure di sicurezza che erano sempre troppo o mai abbastanza. «È diventato quasi una necessità portare i bambini in campo e farli giocare assieme», dice Cristiano. «Gli ultimi due anni per le società dilettantistiche sono stati durissimi: dover seguire il protocollo Covid a volte sembrava impossibile, abbiamo evitato le partite, rispettato il distanziamento durante gli allenamenti. Per questo per noi è importante aver ritrovato questi spazi, questa socialità. Siamo ripartiti alla grande e abbiamo rafforzato il concetto di fare squadra, fare gruppo», dice Cristiano. È stato un periodaccio per chi vorrebbe fare della comunità la propria parola d’ordine.

La palazzina che dà l’accesso al campo è piccina, si distingue dagli edifici residenziali più grandi che la circondano. Ora c’è un po’ di polvere, aria di cantiere, lavori in corso: stanno ristrutturando una parte degli spogliatoi e altri spazi all’interno, tra cui il bar che è stato messo a nuovo grazie all’investimento di C.P. Company, il brand di moda Made in Italy che da oltre cinquant’anni disegna e aggiorna lo sportswear maschile. «C.P. Company ha sempre avuto un legame con il calcio, non perché lo indossano gli ultras allo stadio ma perché intendiamo il calcio come momento di aggregazione: siamo partiti dal bar, luogo di incontro e condivisione per eccellenza che esalta i valori di solidarietà del terzo tempo tipico del rugby», dice Enrico Grigoletti, marketing manager di C.P. Company. «La nostra idea», aggiunge «è che anche dopo il bar possa proseguire la relazione con No League, star loro vicino durante l’anno e non chiudere tutto appena finisce il primo progetto. Vogliamo costruire una community organica, che vuol dire non aumentare il seguito sui social ma essere parte della comunità, fare qualcosa per la comunità, proprio come fa No League».

Dal numero 46 di Undici
Foto di Giorgio de Vecchi