L’ultima battaglia di Lionel Messi

In Qatar il giocatore più forte del pianeta ha l’ultima chance di prendersi l’unica coppa che gli manca, e per cancellare anche gli ultimi fastidiosi paragoni. Tutto il resto è stato fatto, anche se in modo completamente suo, lontano dal modello-Maradona.

Nulla è più terrificante di un labirinto senza centro. Il centro è il luogo dell’angoscia e del futuro illimitato, dove sentirsi perduti significa avere nuovi inizi davanti. È un utero materno con sviluppi sconfinati. È lo smarrimento profondo nel quale ogni possibilità è prevista. È il calcio di punizione che sta passando sopra la barriera. Può diventare tutto. Un gol, un palo, un pallone in curva. È un destino sospeso. Non si è ancora privato di nulla. È curioso che all’età di trentacinque anni, al suo quinto Mondiale e dopo alcune migliaia di barriere scavalcate, Leo Messi sia ancora fermo là, nel punto dove ha percorso molti passi e dove lo spazio delle ipotesi resta infinito, come la conoscenza. Ci tiene compagnia e ci diverte all’incirca da novecento partite. In tutto questo periodo, siamo stati a lungo abituati a pensarlo uguale all’orizzonte dei western, piatto, senza profondità, immaginando che non avesse un doppio. Di tanto in tanto abbiamo scoperto che invece era una matrioska: un Messi che ne conteneva un altro, e un altro, e un altro ancora. A pensarci bene, gli abbiamo spesso fatto il torto di definirlo per sottrazione, in un continuo confronto, ora con un altro corpo, ora con un altro spirito. Il corpo del suo rivale di un quindicennio, Cristiano, quello più alto, più potente, più bello, più venduto. Lo spirito della sua stessa misura, Diego, un’ombra, un peso, un fantasma, il d10s – lui che invece non si è mai fatto chiamare né LM10 né Messi[a]. Ha forse definitivamente vinto il duello contro le cronache rimpicciolite di Ronaldo. Gli resta un ultimo colpo per battere la Storia.

Quando gli chiedono che cos’abbia Messi meno di Maradona, Jorge Valdano risponde che gli è mancato solo un cavallo bianco, di quelli che si vedevano apparire – appunto – lungo gli orizzonti piatti dei western di una volta, quando il destino è storto e il bravo regista alimenta l’attesa per l’arrivo di un salvatore senza macchia. Ecco cosa gli è mancato, un bel cavallo bianco in sella al quale presentarsi sulla scena a riscattare un popolo dopo la guerra perduta alle Malvinas, meglio ancora se i popoli sono stati due, i napoletani che si sentono nell’afflizione fratelli agli argentini. La prospettiva di Jorge Valdano è forse la più esatta per leggere la storia dell’inseguimento a cui abbiamo costretto Messi. Valdano fu il primo a correre verso Diego e abbracciarlo dopo il gol segnato con la mano agli inglesi nel 1986. Non se lo perdona. Aveva ripetuto più e più volte, alla vigilia, che quel pomeriggio all’Azteca sarebbe stato il giorno ideale per gli imbecilli disposti a confondere il calcio con la politica. Oggi dice: l’imbecille ero io. Un amico gli ha messo in cornice il giornale con quella sua dichiarazione. Ce l’ha in ufficio, la camera di un albergo a Madrid, per non dimenticare a quali inganni ci sottopone il calcio.

Ingannevole fu Leo più di ogni cosa quando pareva remissivo e chiuso in mezzo ai giganti di Barcellona, il leader silenzioso lo chiamavamo, per non dover sopportare l’idea che in campo si possa essere un fenomeno, restando invece del tutto indifferenti alle dinamiche del comando dentro uno spogliatoio. Era il Messi della Fase Uno. L’Erede. Il Predestinato. Il genio, l’asso, la fantasia. Era la Pulce andata oltre i suoi centimetri, un mago che con un gioco di prestigio aveva vinto addirittura la natura, così dispettosa da volerlo adulto senza essere cresciuto. Era l’ingegno superiore, era l’estro che si è fatto carne, un fenomeno che sarebbe piaciuto a Barnum. Era un neologismo con cui aggiornare i dizionari. La Real Academia Española per la lingua prescrisse che uno stile unico di giocare a calcio si chiamasse InMessionante. Leo era il linguaggio, un essere vivente in evoluzione, era un’unità di misura. Così, di uno scrittore, per fargli un complimento si prese a dire che era il Messi della letteratura.
Lo dicevano più spesso in Catalogna che in Argentina. Da laggiù gli vedevano vincere quattro volte la Champions in Europa, tra 2006 e 2015, mentre nello stesso periodo passavano senza gioia e senza gloria tre Mondiali e tre Coppe América. A loro toccava al massimo celebrare un Oscar al cinema, Juan José Campanella, premiato per El secreto de sus ojos, anno 2010, quello della Grande Illusione nel calcio, Diego ct in panchina e la maglia con il 10 sulle spalle di Leo. Il cinema era stato di buon auspicio per il Mundial un’altra volta. Il primo Oscar argentino era arrivato con La historia oficial di Luis Puenzo nel marzo ‘86, preludio di pochi mesi al titolo della Selección in Messico. Aveva battuto in cinquina lo jugoslavo Papà… è in viaggio d’affari, regia di Emir Kusturica, futuro biografo di Maradona. Poteva ricapitare. Diego più Leo più l’Oscar pareva la somma per l’allineamento dei pianeti.

La storia perfetta è rimasta un poema senza Omero. Messi era nato l’anno dopo l’arrivo della prima statuetta di Hollywood nel Paese. Il film raccontava la storia privata di una violenza sessuale dentro il grande dramma della dittatura. Quando mamma Celia María Cuccittini fa nascere il piccolissimo Leo a Rosario, il Paese è al suo quarto anno di democrazia, ma la tragedia dei generali e dei desaparecidos la sta assediando. Il governo di Alfonsín ha fatto approvare da pochi giorni la legge sulla Obediencia Debida. Stabilisce che i militari dal grado di colonnello in giù non sono più punibili per i loro reati in divisa. Il principio è che li commisero da subordinati, per obbligo. Nessuna prova legale contraria sarà più ammessa. È il secondo dei provvedimenti de impunidad, dopo la Ley de Punto Final votata un anno prima, lo stop ai processi in corso contro gli autori delle torture e degli assassini durante la Guerra Sucia, la guerra sporca del regime di Videla, il generale che aveva coperto le grida dei centri di detenzione illegale con i boati della folla ai gol di Kempes, l’ubriacatura del Mundial del ‘78.

Il Mondiale 2014 è stato il momento in cui Messi va più vicino a rompere la maledizione di un’Argentina senza titoli dal 1993. Segna quattro gol nelle tre partite del girone, contro Bosnia, Iran e Nigeria, poi si ferma sotto l’aspetto realizzativo ma è comunque il cuore pulsante di un’Albiceleste che arriva in finale. La Nazionale che interrompe il sogno argentino? Ancora la Germania, ovviamente: anche nel 2006 e nel 2010 la Selección ha perso contro la Mannschaft ai Mondiali (Matthias Hangst/Getty Images)

Da questa Argentina in bilico tra memoria e desiderio, sarebbero partiti i Messi verso Barcellona, strappando con la propria terra e spingendo il Leo calciatore nella terra gelida dell’incomprensione e della diffidenza. Più vince in Catalogna, più perde con l’Argentina, più l’Argentina si domanda quanto quella pulce ancora gli appartenga. Lo scrittore Martín Caparrós ha detto che per il mondo il suo popolo è sempre stato riassunto in un giocatore di pallone. Una identificazione totale, prima con un tipo bassino e vizioso, un picaro sempre al limite, poi con un espatriato nel quale il Paese non si riconosceva. «Lionel Messi», sono le parole di Caparrós, «è argentino come una pasta frolla: sai che lo è ma niente ti mostra che lo sia». Nulla di nuovo sotto il cielo di un Paese che le sue icone se le vede portar via, per ritrovarle stampate sulle magliette. Che Guevara lo è diventato a Cuba, Evita tra Broadway e Hollywood. Caparrós si faceva il portavoce del sentimento popolare secondo il quale Maradona da bambino voleva essere grande, mentre Messi da bambino voleva diventare Maradona.

Questa impossibile storia d’amore tra un fenomeno e la maglia della sua Nazionale aveva avuto come presagio il giorno del debutto. Il Ct José Pekerman manda Messi diciottenne in campo contro l’Ungheria al minuto 64 e quello si fa buttare fuori dopo 40 secondi, espulso dall’arbitro tedesco Merk per una gomitata al difensore Vilmos Vanczák. Ai Mondiali di Germania così gloriosi per l’Italia, avrebbe messo insieme alcuni spezzoni di partita, segnando uno dei sei gol contro la Serbia. Nemmeno una rete invece in Sudafrica, dove la perfidia del Caso gli mette dinanzi la Corea e la Germania battute dal Diego ‘86, la Nigeria e la Grecia avversarie dell’annata ‘94. Quattro anni dopo, in Brasile comincia segnando sempre, in ogni partita del girone, ma si ferma quando si fa sul serio, nell’eliminazione diretta contro Svizzera, Belgio, Olanda e Germania. Gli hanno dato la fascia da capitano, ma scopre che non è uno scudo. Ce l’ha al braccio quando a Santiago finisce male ai rigori la finale di Copa América con il Cile, ce l’ha al braccio l’estate dopo a East Rutherford, altra finale col Cile, altra sconfitta ai rigori. Esce e dice basta, me voy, via dalla Nazionale, perché la folla gli grida che non è un campione, vergognati Leo, vergognati della tua bellezza che hai portato altrove e a noi riservi i fallimenti. Tu che non sai cantare l’inno, tu che non sei l’idolo né della Bombonera né del Monumental, tu che sei uno straccio perfetto da calpestare nei giorni di disgrazia. Per giunta c’è el señor del cavallo bianco che non si tiene. Lo chiama svedese, gli dice che tiene il pecho frío, un cuore freddo, senz’anima. Prima era l’Erede, ora è un Usurpatore. Come Carlos Reutemann al quale rimproveravano di non essere Fangio, come Juan Del Potro che non era Vilas.

È più o meno a questo punto che si apre la matrioska e spunta il Messi della Fase Due. L’uomo maturo che decide di recitare da ribelle. La sintesi: fa Maradona. La prima volta succede quando nel cuore del Clásico, in una sera d’aprile del 2017, dopo un gol si toglie la maglia in un angolo del Bernabéu nemico e la mostra alla gente. Fa vedere il 10 e il nome suo. È il gesto con cui straccia milioni di righe che lo hanno narrato come monotono e senza spigoli. Un capopopolo. Un Messi-aniello. Inverte il segno di una fabula. Di lui si comincia a dire che decide i convocati in Nazionale, in pandemia che fa il sindacalista con il club per non cedere sul taglio degli stipendi, fino al braccio di ferro definitivo per andarsene, fino al giorno in cui spedisce il burofax e dice – di nuovo – me voy. Stavolta non a bassa voce, ferito, con gli occhi bassi. Stavolta comanda lui. Sono trascorsi 21 giorni dal 2-8 con il Bayern e Messi pare aver capito che si può essere un dio senza essere un santo. Si è finanche preso 4 giornate di squalifica per un’intemperanza in Nazionale: ma non era quello che si piegava in due sul campo, quello che lasciava tra l’erba il vomito? Il Messi della Fase Tre è questo in corso. Il Messi degli ultimi tango a Parigi. Il Messi che si potrebbe rintracciare in qualche frase di Mafalda, la bimba disincantata di Quino che dice: «Fermate il mondo, voglio scendere», o meglio ancora: «Chiudi gli occhi e il mondo scompare».

A Messi è sempre stato imputato di non aver vinto nulla con la Nazionale, a parte l’oro olimpico del 2008. In effetti è sempre stato un fardello, per lui: in alcuni frangenti della sua carriera, la differenza di prestazioni tra Barça e Selección era davvero enorme. Il sortilegio, però, si è interrotto nel modo più dolce possibile: un anno e mezzo fa, l’Argentina di Scaloni ha dominato e vinto la Copa América giocata in Brasile, battendo la Seleçao nella finale del Maracanã. Messi non ha segnato nell’ultimo atto, ma si è laureato capocannoniere del torneo con quattro gol. E ha alzato la coppa, cancellando le tante delusioni del passato (Carl De Souza/AFP via Getty Images)

Leo sembra aver chiuso gli occhi su tutto ciò che lo distrae dai due obiettivi individuati negli ultimi fuochi. Uno: la Coppa dei Campioni. Per vincerla di nuovo senza Guardiola, mentre Guardiola non l’ha mai vinta senza di lui. Due: il Mondiale. Con un’Argentina che si è finalmente liberata di pesi e maledizioni, quando ha vinto la Copa América nell’estate del 2021 al Maracanã. La squadra che ha segnato almeno tre gol in cinque delle sue ultime sei partite. Ha messo Lautaro dove prima s’affannavano Higuaín e Agüero. Ha aggiunto De Paul, Papu Gómez, i Correa, s’appoggia agli ultimi scatti di Di María. L’Argentina che vuole provare a spingersi oltre l’accettazione letteraria della sconfitta, «una determinazione irriducibile», ha scritto Idelber Avelar, «perché in una società civile che doveva affrontarne di demoralizzanti, la letteratura aveva il compito di garantire che verità e ragione fossero dalla nostra parte». Perdere significava non sedersi dalla parte del torto.

L’epica della sconfitta è stata dagli anni ‘70 in avanti come la riaffermazione di un pezzo di storia negata. Grandi vincenti come Velasco e Valdano hanno una relazione quasi mistica con il concetto di sconfitta. Papa Bergoglio ha fatto un anno fa il suo elogio de la derrota, dopo un bacio di Guardiola alla medaglia dei battuti in finale di Champions. I romanzi argentini sono pieni di eroi del fallimento, con un desiderio di libertà totale che comprende pure la libertà dalla vittoria. Perdere e sentirsi sconfitti, per dirla alla Roberto Fontanarrosa, è indagare dentro l’improvvisa necessità di piangere, per poi sedersi su una sedia di vimini, farsi un caffè e scoprire di non stare poi tanto male. Si sta tanto male, Leo, senza un Mundial? Nulla è più terrificante di un labirinto senza centro. È la verità su cui ha ragionato per molto tempo Jorge Luis Borges, pure lui argentino, pure lui grandissimo. Pure a lui hanno sempre detto che però non ha mai vinto un Nobel.

Da Undici n° 47