Il grande gioco dei procuratori

Affaristi e sentimentali: intervista ai creatori de Il Grande Gioco, la serie in onda su Sky.

Dice Fabio Resinaro, regista de Il Grande Gioco con Nico Marzano, che il calcio, in questa serie, è solo un pretesto: «I personaggi si muovono in un ambiente particolare, pieno di estremi e contraddizioni; e il calcio, così, può essere un grande motivatore. Per qualcuno è una passione vera, genuina, legata a un sentimento; per qualcun altro, invece, è una questione d’affari». Corso Manni, il personaggio interpretato da Francesco Montanari, è una via di mezzo tra queste due cose. È un procuratore, sì, e più volte dimostra di avere la stessa fame di uno squalo; ma è anche uomo, e la sua umanità viene fuori in ogni momento, come un tic nervoso e incontrollabile. Per Resinaro, si è trattato di trovare il giusto equilibrio: «Lavorare con Nico è stata una grande fortuna. Lui è un grande appassionato di calcio. Il Grande Gioco è incentrato su una storia archetipica; era fondamentale riuscire a raggiungere chiunque. Il calcio, ed è inutile negarlo, ci tocca molto. Come europei e, soprattutto, italiani. Fa parte del nostro immaginario, anche se non tifiamo per una squadra particolare».

La serie tv di Sky, in onda questo venerdì con gli ultimi episodi e disponibile in streaming su NOW, è divisa. Da una parte mette in scena il mondo logorroico delle contrattazioni; e dall’altro, abilmente, quello più opaco che mischia sport e denaro. «I calciatori possono essere veri e propri simboli, e viene quasi spontaneo utilizzarli per parlare di noi, di quello che siamo», dice Resinaro. «Può essere un’ottima metafora per affrontare le vittorie, le sconfitte e per dare una forma alla voglia di rialzarsi».

Ci sono alcune parole chiave ne Il Grande Gioco. Prima di tutto: epica. Nella drammaticità del racconto, spiega il regista, è stato necessario creare uno spazio per l’epica. «Abbiamo tenuto in grande considerazione quello che è il tono della storia e il realismo, di fondo, della trama. Io e Nico ci siamo divisi gli episodi, sintetizzando una visione d’insieme». La televisione, continua Resinaro, è l’ideale per sperimentare. Ma per il calcio ci sono sempre stati dei problemi. Legati, suggerisce, al linguaggio: la seconda parola chiave de Il Grande Gioco. «Avere un approccio più classico non è l’atteggiamento migliore», dice. «Perché viene difficile, poi, trovare la propria dimensione. Noi abbiamo provato a prendere un’altra direzione. Il campo non può essere violato, e le camere non possono superare i confini delle linee bianche: il racconto cinematografico va costruito su questa base di regole».

Anche per Giacomo Durzi, capo-sceneggiatore della serie targata Sky Studios ed Èliseo Entertainment, il linguaggio è stato fondamentale. «Volevamo raccontare tre generazioni: quella del grande maestro, quella dell’uomo di mezzo che ha vissuto la liberalizzazione delle procure, e quella del ragazzo che ha appena cominciato. Ecco, tutte e tre queste generazioni hanno caratteristiche uniche, che vengono fuori non solo dal loro modo di lavorare, ma pure dal loro modo di esprimersi. In un certo senso, sono come degli attori. E poi sono degli psicologi».

Prima di scrivere Il Grande Gioco, Durzi stava sviluppando un altro progetto. «Una serie su Calciopoli. Dopo poco, però, ci siamo fermati». A quel punto, ricorda, ha saputo dell’idea di Alessandro Roia. «È venuto da me e Nils Hartmann (Executive VP di Sky Studios Italia e Germania, ndr), e ci ha parlato della sua serie sul calciomercato. Prima abbiamo provato a usare la commedia come chiave; successivamente, però, ci siamo concentrati sul dramma». La sfida è stata quella di riuscire ad accompagnare le immagini, e quindi le singole scene, con una scrittura piena, fitta e mai strabordante: «C’è una densità di racconto piuttosto evidente in questa serie. Avevamo bisogno di essere sempre comprensibili. Non solo per i tifosi o per quelli abituati a parlare di calcio. Abbiamo scelto un ritmo breve e sincopato proprio per questo motivo. Un’operazione di calciomercato deve essere cristallina in tutti i suoi passaggi».

Il sentimentalismo romantico è stato uno degli ingredienti principali per la sceneggiatura: proprio per trovare un ulteriore punto di contatto con i profani del pallone. «È stato un lavoro particolarmente intenso, soprattutto di lettura», ammette Durzi. «Alcuni autori, come Pippo Russo, sono stati indispensabili. Ci siamo anche accorti dell’importanza di capire a fondo, intimamente, questi personaggi». I procuratori, ne Il Grande Gioco, sono figure sospese, a metà. «Sono machiavellici, pensano unicamente alla strategia. E fingere e bluffare fanno parte del loro stile. A volte devono fare i conti con le società sportive; altre con i loro clienti e gli sponsor». In due mesi, e non solo nella finzione televisiva, «rischiano le loro carriere».

Il trailer della serie

Sulla carta, i procuratori sono i protagonisti ideali per una serie tv. Specialmente per la loro doppiezza e il loro grigiore. Ma quello a cui appartengono, sottolinea Durzi, è «un sistema chiuso, estremamente difficile da scardinare». E allora «vogliono rimanere nell’ombra. Finiscono sui giornali quando si parla di soldi o quando vengono dipinti come i cattivi che vogliono cambiare il calcio. E il piccolo schermo, per questo tipo di racconto, è perfetto: perché ti dà il modo e il tempo per approfondire ogni aspetto; il cinema, al contrario, è ancora molto rigido sui suoi modelli».

L’idea originale de Il Grande Gioco è venuta ad Alessandro Roia. «Ho deciso di parlarne con Sky perché ci unisce un rapporto di rispetto e, mi permetto, amicizia. Con Riccardo Grandi, avevamo sviluppato un progetto preciso, pieno di dettagli. Siamo andati a “pitcharlo”, come si dice, ma a un certo punto ho preferito cederlo per intero. Quello che avevo in mente io, più che una commedia, era un dramedy. E già durante le prime chiacchierate con gli sceneggiatori ci siamo spostati sui toni del dramma. La mia idea nasceva dalla voglia di invertire i soliti paradigmi; io volevo usare quello che, in questi anni, ho sentito e visto. Quello che mi è stato confessato. Ed è la parte più nascosta».

Per raccontare lo sport, dice Roia, si possono seguire diverse strade. «Puoi fare Jerry Maguire, il film con Tom Cruise, oppure puoi fare Ballers, la serie con The Rock. In questo caso, abbiamo un vero e proprio antieroe. E in effetti c’è questa percezione, piuttosto diffusa, dei procuratori come personaggi pieni di ombre». Alla fine tutto si riduce al calcio. Anche se Il Grande Gioco lo mostra pochissimo, e si concentra sul dietro le quinte del mercato. «Il calcio ispira le persone», spiega Roia. «Nelle sue infinite sfaccettature, crea cose strane: un amore profondo e viscerale, che può cambiare costantemente e passare dalla passione più profonda alla rabbia più travolgente. Il calcio fa parte di noi, delle nostre vite. È una costante. Non c’entra niente l’aspetto economico. A volte, basta il brivido della strategia, della scommessa, di riuscire a fare l’impossibile contro tutti i pronostici, per sentirsi vivi».