Il trequartista italiano si è estinto o è solo cambiato?

Rivera, Antognoni, Baggio e poi Totti e Del Piero: la tradizione del numero dieci fatica a trovare gli eredi di un grande passato. Colpa del tatticismo o di un sistema formativo che non funziona più?

Fetonte visse una giovinezza anonima fino a quando non apprese dalla madre Climene di essere il figlio di Apollo, il Dio del Sole. Viaggiò così verso Oriente, fino ad incontrare il padre, seduto su un trono splendente, circondato dalle Stagioni. Febo gli assicurò che sì, lui era suo figlio, ma lo stesso Fetonte pretese una prova: se era davvero il discendente di Apollo sarebbe allora stato in grado di guidare – come il padre – il carro del sole. Ma Fetonte non riuscì a tenere a bada i cavalli, le redini gli sfuggirono di mano, e finì per avvicinarsi troppo alla terra: il suolo divenne cenere, i fiumi si essiccarono, le foreste bruciarono. Solo l’intervento di Zeus permise al pianeta di sopravvivere. Lasciamo da parte i significati freudiani di questo mito, e osserviamo il panorama di una terra devastata, ricoperta di crepe, collassata. Ha un volto familiare: è la nostra Serie A.

Stando a quanto dicono in molti, l’uomo che guidava il carro che ha prosciugato la fantasia del nostro campionato è nato a Fusignano, in provincia di Ravenna, e ha un nome e un cognome: Arrigo Sacchi. È una questione intricata capire quanto e in che modi l’influenza endemica di Sacchi (un allenatore che portava avanti un’idea sì organicistica di calcio, ma anche spettacolare) abbia contribuito all’estinzione del numero dieci – del trequartista classico, quest’idea di un uomo capace di incarnare – tramite il suo talento e il suo ruolo – niente di meno che l’essenza stessa del calcio.

Ognuno avrà la sua idea, come è giusto, ma un fatto è incontrovertibile: il dogma del 4-4-2 ha impoverito la biodiversità del calcio italiano proprio nel momento esatto in cui la Serie A si affermava – proseguendo l’onda lunga degli anni Ottanta – come la miglior lega al mondo, facendo razzia di trofei europei, in un multiverso in cui il Vicenza di Guidolin e Zauli poteva contendere un posto in finale di coppa al Chelsea. Se dovessimo fidarci unicamente della nostra memoria, o dei video su YouTube, indicheremo quel periodo come l’età aurea dei numeri dieci, un fenotipo, aggiungo, tipicamente italiano: Baggio, Zola, Del Piero, Totti. Ma le cose, forse, stanno diversamente. Quella, anzi, fu forse un’era in cui il dieci entrò in una sorta di crisi di coscienza, un’era in cui i fantasisti iniziarono ad avvertire come, per sopravvivere ad alti livelli di competitività, dovevano ripensare al proprio ruolo e alla propria funzione nell’economia della squadra. Dovevano spendere il loro gettone evolutivo per integrarsi a un sistema che tentava di rimuoverli. Ma procediamo con ordine. C’è un momento esatto in cui il calcio italiano inizia ad identificarsi non più con il tatticismo inteso come conservatorismo e ricerca a tutti i costi dell’equilibro ma con l’estro. È il prologo di una storia finita evidentemente male.

Siamo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. In barba all’antropologia primitivista di Brera, il giocatore più significativo di quei tempi fu Gianni Rivera: la matrice, il fiat di tutti i fantasisti italiani. Rivera aveva la visione di gioco che nel calcio moderno siamo soliti associare a Pirlo e Totti, una dolcezza nel primo tocco da paese iberico o sudamericano, il dribbling nello stretto di Verratti (ma molta più fantasia di lui), una capacità di leggere le situazioni un secondo in anticipo rispetto agli avversari. Guardate un po’ di video, e stupitevi del fatto che un calciatore simile sia nato ad Alessandria, quasi un secolo fa, un regista avanzato molto sofisticato, capace di creare spazi con i suoi passaggi e di finalizzare quasi come un centravanti (arrivò persino ad essere capocannoniere nella stagione 72/73: primo centrocampista dai tempi di Valentino Mazzola). Rivera fu il primo italiano a vincere il Pallone d’Oro e il primo a vincere la Champions. Fu capitano del Milan, contribuendo in modo decisivo a tre scudetti. Ma soprattutto fu sinonimo di genio e fantasia, di quella cosa che chiamiamo classe. Il suo rapporto con la stampa tuttavia non fu sempre facile, veniva criticato perché non si applicava nella fase difensiva (il peccato originario agli occhi di un italiano); perché era magrolino, Brera gli diede del «prete mandrogno» e lo chiamò per tutta la carriera «Abatino». In Nazionale non riuscì mai ad affermarsi completamente (altro dato che accomuna tutta i numeri dieci di cui parleremo), nonostante verrà per sempre ricordato per il gol del 4-3 alla Germania ai Mondiali del 1970.

Rivera, dicevamo, e al suo fianco il suo rivale, Mazzola. E subito dopo Antognoni, più dribblomane, e dopo ancora il suo erede, Roberto Baggio, lo zenit del fantasista italiano. Baggio è un giocatore unico, la cui popolarità a livello mondiale tra il ’90 e il ’95 non ha altri esempi per un calciatore italiano. Baggio è un dieci, ma un dieci atipico. Un dieci che, oltre alle caratteristiche che gli sono proprie (tecnica, classe, bellezza, visione di gioco, tiro, rifinitura), ha qualcosa in più: la verticalità. Baggio guarda il portiere avversario anche se è a metà campo, e punta lo spazio che lo separa dalla porta come un piano inclinato. I suoi dribbling hanno qualcosa di rituale, come un cervo da sacrificare. È un giocatore sciamanico, mistico, in questo simile a Maradona. Nonostante ciò, anche nel periodo di luna di miele con la stampa italiana, i media gli rimproverano sempre qualcosa (qualcuno disse che il Pallone d’Oro andava dato a Baresi – un difensore – non a lui). Ha problemi con tutti i maggiori allenatori dell’epoca: Sacchi non lo convoca per gli Europei del ’96 (dopo un rapporto complicato a USA ’94, dove pure Baggio si era caricato la squadra sulle spalle), Lippi (una sorta di nemesi) lo scarica, Capello nel suo ruolo gli preferisce spesso Savićević, Ancelotti blocca il suo passaggio a Parma. Nel ’97, ad appena trent’anni, Baggio abbandona il grande calcio e si rifugia in provincia: prima a Bologna e poi a Brescia (in mezzo la parentesi all’Inter).

Siamo dunque tornati a Sacchi. Per Sacchi Baggio è una punta, un nove a tutti gli effetti, non un dieci. Dice che Baggio per l’Italia è quello che Maradona è per l’Argentina, ma il loro rapporto non decolla. Il sacchismo imperante negli anni ’90 in Italia e il dogma del 4-4-2 crea un equivoco insormontabile per gli allenatori dell’epoca: dove far giocare il dieci? Costringerlo a fare la fascia o trasformarlo in una punta? La carriera di Zola in Italia (prima del suo ritorno a Cagliari) finisce per questo: eredita la 10 di Maradona a Napoli senza farlo rimpiangere (piccolo aneddoto: nell’89, vista l’assenza di Careca, i due partono titolari insolitamente insieme, ma Diego gioca con la 9 e concede a lui la 10), passa al Parma di Nevio Scala dove vince la Coppa Uefa. Nel ’96 arriva Ancelotti (ancora Ancelotti!) che non trova posto per lui. Zola va al Chelsea, diventando un giocatore di culto. Anche gli altri astri nascenti del calcio italiano in quegli anni non giocano da dieci: Del Piero fa la seconda punta con Lippi, Totti l’esterno nel 4-3-3 di Zeman. L’ultimo Mancini gioca da seconda punta alla Lazio. Non c’è più spazio in Italia per il trequartista?

Sembrerebbe di no. Pirlo fatica a giocare dietro le punte all’Inter, gli manca lo spunto, la progressione, la capacità di saltare l’uomo in velocità. Ancelotti, superato il dogmatismo sacchiano, lo reinventa play davanti la difesa, lì può sfruttare sia la sua tecnica nello stretto (mantenere la palla incollata ai piedi come se fosse un’estensione del corpo, evitare le continue pressioni avversarie a cui è sottoposto), che nel lungo. Pirlo di fatto è anche un rifinitore, ma a settanta metri della porta. Cosa sarebbe successo se non avesse cambiato ruolo? Probabilmente sarebbe diventato uno di quei talenti cristallini braccati dal fantasma dell’incompiutezza, capaci di esprimersi in maniera indelebile solo in squadre di nicchia, ammantanti dal fascino di un artista decadente. Il fantasista di provincia è ormai un genere letterario: Zauli, Brienza, Cozza, Morfeo; e ancora oggi: Ciano, Aramu, Verde. Personaggi elegiaci, pervasi da una nostalgia lirica.

Siamo al decennio 00/10. Per certi versi – per il calcio italiano – i primi anni dopo la fine della storia, per altri, gli ultimi prima del declino. Sono gli anni di Cannavaro e Nesta, di Buffon e Materazzi, di un Mondiale vinto senza subire un solo gol su azione. Cannavaro viene premiato con il Pallone d’Oro. Del Piero e Totti contribuiscono alla vittoria in maniera decisiva ma forse marginale a livello emotivo. Cassano potrebbe iscriversi a questa brigata illustre, un fantasista che sopravvive nel calcio moderno come punta associativa, rapida, ipertecnica, ma si brucia subito, forse annoiato alla sola idea di diventare uno dei dieci italiani più influenti di sempre. Dopo il suo redemption-arc si rifugia a Genova, portando la Sampdoria ai preliminari di Champions.

Intanto la Serie A, rigettata l’egemonia sacchiana, si riapre al trequartista. Ma è un trequartista diverso: non un rifinitore ma un incursore, non un giocatore dotato di una tecnica sopraffina, ma di tanta corsa e intelligenza tattica. La Roma di Spalletti, la squadra più interessante degli anni Zero, gioca con Totti punta e con Perrotta alle sue spalle. Allora non lo capivamo, ma era in atto un cambiamento a livello sistemico. Non ci saranno più grandi fantasisti italiani in grado di affermarsi ad alti livelli, ma inizieremo a produrre solo mezzali muscolari e dinamiche (da Marchisio a Tonali e Frattesi: questo è il prototipo del calciatore italiano del XXI secolo. Chiesa? Un’ala molto fisica. Zaniolo? Una mezzala mancata? Un’ala pura, da mettere sulla fascia mancina? Fare l’esterno creativo a piede invertito che rientra e rifinisce – o conclude – in questo momento non sembra essere un lavoro consono alle sue caratteristiche. Ad oggi il nostro capitale di creatività è interamente custodito da Baldanzi).

In provincia o comunque in squadre meno competitive il dieci avrà ancora cittadinanza, radioso come Saponara a Empoli. È sintomatico in questo caso che Sarri, passando proprio dall’Empoli al Napoli, e dopo aver inizialmente spostato Insigne a fare il trequartista nel suo canonico 4-3-1-2, abbia subito virato verso un 4-3-3 in un primo tempo rigido, poi man mano più flessibile. Insigne (l’ultimo dieci italiano? Un giocatore con un talento associativo non comune ma privo di quel senso di onnipotenza che davano a tratti i giocatori di cui si sta parlando) in fase di non possesso faceva spesso l’ala con ripiegamenti anche molto profondi, in fase attiva faceva il regista offensivo cercando la posizione giusta nel mezzo spazio di sinistra. Ecco la novità tattica degli ultimi anni: se il centro del campo (la cameretta del fantasista) è sempre intasato da avversarsi ed è difficile trovare libertà, il posizionamento che i giocatori di rifinitura devono saper occupare è nei cosiddetti half-spaces (quelle zone non troppo laterali non troppo centrali tra linea di centrocampo e di difesa, tra difensore centrale e terzino, tra braccetto e fluidificante di una linea a cinque), ma questo è un compito che ormai non spetta più al trequartista, ma a tanti giocatori (ala e mezzala, ormai anche ai terzini).

Il fantasista si è come disseminato, smembrando le proprie funzioni a più calciatori, in questo simile a Orfeo, fatto a brandelli dalle donne dei Ciconi (secondo Mircea Eliade il mito di Orfeo è in origine un mito della fertilità: lo sparagmòs – letteralmente “corpo fatto a pezzi” – del corpo del cantore è collegato al riapparire della vita sulla terra dopo l’inverno). Tirando le fila: da un lato il calcio moderno si è evoluto seguendo strade (l’intensità, la corsa, il pressing, la fisicità) che penalizzano l’estro individuale ed atipico, messianico, del fantasista, dall’altro pare esserci, almeno in Italia, un’enorme povertà di talento. E qui si apre un’altra questione: ciò è dovuto a inimmaginabili cause endogene, a un disturbo nella trasmissione dell’informazione genetica, o a motivi esogeni? Non nascono più giocatori di classe o semplicemente non sappiamo formarli?

Da Undici n° 49