In comunione con l’oceano

Un marinaio che insegue ancora la parte mistica del mare. Intervista con Giovanni Soldini, l'uomo che, da un ventennio, è la Vela.

Sono pochi i momenti della storia dello sport che sconfinano dalla disciplina e si fissano nella memoria collettiva come qualcosa di epico, significativo anche per i non appassionati come l’allunaggio dell’Apollo 11 è significativo anche per i non astrofisici. Nella memoria dei miei genitori, per dire, un evento del genere è la vittoria di Abebe Bikila a piedi nudi alla maratona di Roma del 1960. Nella mia è il salvataggio di Isabelle Autissier da parte di Giovanni Soldini, nel febbraio del 1999.

La Autissier aveva fatto naufragio durante la Around Alone, giro del mondo in solitaria in quattro tappe. Soldini, in vantaggio, aveva deviato per soccorrerla perché chiunque altro ci avrebbe messo troppo. Cerco oggi le coordinate su Google, che sarebbe stato inventato sette mesi dopo, ed è tutto blu; per trovare la terra devo portare la mappa al massimo dell’ingrandimento, e vedo che è a metà strada fra Cile e Nuova Zelanda, a 2000 miglia da entrambe, più a sud di Capo Horn. L’ultimo punto-nave della Autissier dava un quadrato di venti chilometri per venti dove trovare lo scafo ribaltato nella tempesta, peggio che un ago nel pagliaio; Soldini ci riesce quasi subito e filma il momento dell’avvistamento in un video che è diventato leggendario. «L’ho beccata, l’ho beccata!», grida fuori campo, con una voce esaltata da ragazzino milanese. In realtà aveva 32 anni, e stava per vincere il suo primo giro del mondo in solitaria su 60 piedi. Col 50 lo aveva già fatto.

«L’ho beccata!»

Quando lo incontro a Milano invece Giovanni Soldini di anni ne ha 49. Ha navigato in solitaria per il grosso della sua vita, vincendo praticamente tutte le regate di lunga percorrenza di rilevanza mondiale. Da tre anni compete sul 70 piedi Maserati con un equipaggio con cui ha già battuto i record mondiali sulle rotte New York-San Francisco e San Francisco-Shanghai.

Un autista doveva portarlo all’appuntamento ma lui arriva in anticipo, a piedi, con in mano un casco bianco malconcio che mi viene da associare a un Transalp anni ‘90 o a un PK da paninaro. La parlata è la stessa del video famoso, spigliata e scattante, il tipo di parlata da cui un milanese si aspetta di sentir dire «bella zio». Ha un modo di fare è semplice e diretto, rigido perché un po’ schivo e non perché è un navigatore di fama planetaria. Ha la gentilezza dei timidi, la maglietta dello sponsor e un paio di jeans. Porta la barba lunga e i capelli un po’ in disordine. Senza che nessuno glielo chieda si giustifica dicendo che a Milano ha un ufficio e stanotte ha dormito lì. L’addetta stampa di Maserati gli ricorda che aveva una stanza all’Excelsior Gallia.

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Non sono un esperto di vela; parlando con Soldini mi rendo conto di avere a che fare con un individuo eccezionale, ma tendo a vedere questa eccezionalità non tanto nei suoi risultati sportivi (che non capisco), quanto nei tratti psicologici che li hanno resi possibili. Ad esempio non riesco a non pensare che Soldini è una delle persone che sono state più sole al mondo: più dei carcerati in isolamento che interagiscono col secondino, più degli astronauti che sono in due o tre. La prima cosa che gli chiedo è se ha mai fatto il conto dei giorni che ha passato senza vedere anima viva, da solo nell’oceano.  No. Però rimedia subito: «Due giri del mondo fanno 300, più le transatlantiche… Boh, in totale fai 500. Massimo 600, dai».

Soldini sembra perplesso, quasi un po’ seccato, all’idea che in questo ci sia qualcosa di strabiliante. «La solitudine è un aspetto molto limitato. Quando prepari un’impresa di questo genere la durata della preparazione è molto maggiore rispetto al tempo in cui si svolge la gara. E lì lavori con un sacco di gente». Il tempo effettivamente trascorso in barca – quattro mesi o poco più – passa in fretta, assorbito dalla concentrazione e reso liscio e omogeneo dal modo particolare di dormire durante la navigazione in solitaria. «Se stai andando in mezzo al mare con una barca che va sparata non ti viene da metterti in branda con la copertina – sei sempre un po’ stressato. Quando togli riposo alla fine naturalmente il corpo decide di dormire tante volte, poco tempo: mai più di 15-20 minuti di seguito. Così riesci a dormire in maniera più efficiente». 

Questo ritmo sonno-veglia è noto come sonno polifasico, e in passato ho intervistato decine di persone in proposito (medici, militari, psicologi) per un reportage che non ho mai completato; concordavano tutti nel parlarne come una prestazione al limite dell’impossibile per l’essere umano. Soldini ne parla come un piccolo fastidio collaterale. «È solo uno stato diverso, il rapporto col tempo è diverso. Sei molto nel presente, il resto è un dettaglio, non c’è. Sei in mezzo al mare come essere in un tunnel». Quando gli chiedo se è stato difficile adattarsi, nella sua prima traversata, lui mi risponde che è stato molto più difficile trovare uno sponsor.

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Si tratta di un argomento ricorrente nei racconti di Soldini, che nel 1991 ha corso una La Baule-Dakar in solitaria con un adesivo enorme sullo scafo che diceva “sponsor wanted”, senza neanche i soldi per iscriversi. «Sono andato all’UNCL, che organizzava la regata, da questa Sylvie che era il capo, le ho detto: senti sono italiano e non ho una lira, l’iscrizione non posso pagarla, cosa vogliamo fare?». Poi si è potuto iscrivere, ha vinto, e lo sposor lo ha trovato. Poi ha disalberato e ne ha dovuto trovare un altro. In un modo che si rivelerà caratteristico, Soldini parla del suo rapporto con gli sponsor in termini estremamente prosaici che però sfociano in una specie di romanticismo spontaneo, come una poesia generata per sillogismo: «La vela non è il calcio», spiega, «dove hai un target molto diffuso e un evento che ha un tempo televisivo. L’impresa non si può concentrare per uno spettatore. Questo significa che non vendi uno spettacolo, ma un sogno. La gente non ti vede quindi deve fantasticare, pensando a te che attraversi l’oceano e fai Capo Horn controvento».

La parola “impresa” ricorre spesso nei discorsi di Soldini e mi rendo conto che è probabilmente l’unica volta nella mia vita in cui sento questo termine usato, in modo adeguato, nel senso in cui si applica a Lancillotto e non alla Marcegaglia. O meglio: ci sono entrambi. La storia di Giovanni Soldini è la storia di una persona che è stata ai vertici assoluti di una disciplina, la vela di lunga percorrenza, nei vent’anni in cui si è trasformata da sfida romantica per avventurieri e aristocratici in un business miliardario altamente tecnologizzato.  Un esempio: la Kodak Stupefacente, il 50 piedi con cui ha vinto due transatlantiche e un giro del mondo, Soldini l’ha costruita con tre amici e un gruppo di ex-tossicodipendenti in una stalla a Latina («di fronte alla centrale nucleare, un posto ameno»), all’interno di una comunità di recupero. Il progetto era «nato da un incontro casuale a una festa di Natale, con un mio amico che non vedevo da dieci anni», combinava l’intento filantropico e la necessità di trovare soldi per costruire una barca dopo un naufragio. Il costo, coperto dalla sottoscrizione di 50 soci che alla vendita della barca avrebbero rivisto i soldi con «più interessi dei bot», era di circa quattrocento milioni di lire. Cinque anni dopo, mi dice, per competere gli è servito quattro volte tanto. Oggi cinquanta.

(L’aumento del giro d’affari non è l’unica trasformazione della disciplina che Soldini ha toccato con mano nel corso della sua carriera. «Io la Autissier l’ho salvata a 55° sud, oggi nel pacifico non si va più di 45°, perché gli iceberg si sciolgono ed è pieno di pezzi di ghiaccio in più».)

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Questa trasformazione è esemplificata perfettamente dalla storia del Vendée Globe, il giro del mondo in solitaria senza scali che Soldini nomina quando gli chiedo qual è il suo più grande progetto irrealizzato.  «In origine se ne doveva tenere una ogni quindici anni. Per questo ho sempre pensato che fosse una delle ultime regate da fare nella carriera, insieme a tutta una generazione di velisti, una sola volta nella vita. Io, per dire, contro Isabelle e Christophe Auguin, quelli che correvano con me». Ma la prima ha avuto tanto successo («una cosa pazzesca, due milioni di persone ad accogliere l’ultimo arrivato. L’ultimo!») che gli organizzatori l’hanno trasformata in una quadriennale. «Ormai è una regata come le altre, se sei francese è praticamente la prima cosa che fai. Il mondo è andato troppo in fretta. Il Vendée Globe che avrei voluto fare non posso farlo, non c’è più».

Questo è l’unico momento della nostra conversazione in cui Soldini esprime qualcosa che si avvicina alla malinconia. Però ci tiene a sottolineare subito che non ha niente a che vedere con una perdita del romanticismo. Sì, dice, negli anni Sessanta Cichester ha fatto il giro del mondo a 4 nodi di media; lui negli anni Novanta a 13; oggi lo fanno a 16. «Ma quando sei in mezzo all’oceano con un’onda da venti metri, alta come quel palazzo lì, ti assicuro che non cambia un tubo! Sei su un oggetto con prestazioni incredibili, ma sei sempre da solo col mare». La Autissier aveva radar e transponder satellitare quando ha fatto naufragio, ma comunque è stata una fortuna pazzesca riuscire a soccorrerla in tempo. «Quando ho iniziato io facevo il punto col sestante, e parlavo via radio con un radioamatore di Ravenna. Poi è arrivato il satellitare che te lo diceva diceva ogni cinque ore, poi il GPS con cui bastava premere un tasto, ora c’è il plotter in cui vedi la barchetta dall’alto e la mappa tutt’intorno. Ma non è che questo toglie all’esperienza la sua parte mistica».

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Una parte di me (una parte snob) si avvicina con qualche esitazione ad alcune espressioni che usa Soldini per parlare di questo – il rapporto di «comunione con l’oceano», la sensazione di essere «minuscoli e dominati dalla natura». Mi verrebbe da ritenerle dei luoghi comuni, cioè delle banalità che si conoscono troppo bene perché siano interessanti. In realtà, ovviamente, è vero il contrario: sono cose che non conosco per niente, ed è per questo che non riesco a parlarne. «Devi andare dall’altra parte dell’oceano o del mondo, e la sola possibilità che hai è fare un patto con la barca, la tua unica compagnia: tu ti occupi di lei, lei ti porta a Auckland. In realtà, è una condizione molto felice».

Dopo l’intervista usciamo in una piazzetta del centro di Milano, di quelle linde e settecentesche, dove Soldini si fa fotografare di fronte allo spazio dello sponsor. Il fotografo gli punta una voluminosa medio formato a pochi centimetri dalla faccia, obliquamente dal basso, come un uppercut. Nella gestualità dolce e contratta di Soldini sono evidenti sia la disponibilità che il suo costo, e mi ricordo di quello che aveva detto sulla più grande difficoltà a inizio carriera. In una pausa dello shooting ripenso alle mie ricerche sul polifasico e gli chiedo se anche lui ha sperimentato una cosa dichiarata da molti di quelli che lo hanno provato, e cioè la sospensione dell’attività onirica notturna, sostituita da un sonno profondo e nero e da brevi episodi di allucinazione durante la veglia. «Ma va», dice lui. «Io sogno tantissimo».

 

Articolo tratto dal numero 6 di Undici. Fotografie di Andy Massaccesi