Per fare uno stadio

Gli stadi di proprietà rappresentano la vera soluzione al problema che attanaglia il nostro calcio? Un'analisi delle possibili evoluzioni future.

Lo stadio dell’As Roma è atteso al vaglio della Regione Lazio. Sui suoi tempi di realizzazione sono più le incognite che le certezze. Il progetto di rimodernamento del San Paolo di Napoli è in stand by: il presidente De Laurentiis aspetta le amministrative della prossima primavera per scoprire con quale sindaco proseguiranno le trattative, mentre il primo cittadino in carica assicura che il Comune può fare i lavori in proprio con il Credito Sportivo. Dei progetti di nuovi impianti di Fiorentina, Lazio o delle due milanesi (per fare qualche esempio) non se ne sente più parlare. Insomma, la tanto auspicata avanzata degli stadi di proprietà in Italia è ferma, come lo è da quando (quasi dieci anni) si vede in questa l’elemento di modernizzazione che tanto manca al nostro calcio. Juventus Stadium di Torino, Dacia Arena di Udine e Mapei Stadium di Reggio Emilia rimangono casi isolati.

«Attenzione. Quello che serve per sbloccare la situazione, però, non è una legge». Simone Tosi, sociologo dei processi urbani dell’Università Milano Bicocca e studioso della questione stadi, non crede che la soluzione al problema passi da un intervento normativo. Secondo il docente la fretta di avere al più presto una legge per gli stadi ha già fatto danni: il risultato si è tradotto «nei commi inseriti nel ddl Stabilità del 2013, che con la pretesa della semplificazione burocratica abbattono i passaggi nelle amministrazioni locali a favore degli investitori». Un assist alle proprietà dei club che, a conti fatti, a due anni dall’approvazione non si è neanche rivelato risolutore.

A man takes a picture before the Italian Serie A football match Udinese Vs Juventus on January 17, 2016 at 'Dacia Stadium' in Udine. / AFP / MARCO BERTORELLO (Photo credit should read MARCO BERTORELLO/AFP/Getty Images)
Uno scatto dal cuore della nuova Dacia Arena di Udine (Marco Bertorello/AFP/Getty Images)

In assenza di scorciatoie giurisprudenziali, c’è bisogno di mettersi d’accordo sul metodo. «E allora va prima di tutto chiarito che sul dibattito sugli stadi in Italia pesa un equivoco» continua il sociologo milanese. «Il confronto si è cristallizzato sulla contrapposizione tra un modello privatistico di gestione, considerato necessario e virtuoso, contro uno pubblico che invece è deteriore. Porre la questione in questi termini è sbagliato. Secondo un’analisi di Calcio e Finanza, il San Siro di Milano, gestito in consorzio da Inter e Milan e di proprietà del Comune, sa reggere il confronto con lo Juventus Stadium. Quindi non è necessariamente vero che un’amministrazione pubblica non sappia fare cassa con un impianto sportivo». La vera differenza tra i due modelli gestionali è nelle tasche di chi andranno i ricavi. «Dal punto di vista del tifoso la priorità è che sia il club a godere del vantaggio economico» riconosce Tosi. «La prospettiva particolare, però non può diventare il cavallo di Troia per operazioni edili e immobiliari che non riguardano il calcio e che non fanno l’interesse della collettività».

L’appunto non è astratto. Il docente dell’università Milano Bicocca ha studiato il caso dello Juventus Stadium, dove «il club di casa Agnelli ha ottenuto in concessione dal Comune una superficie ampia tre volte quella del solo impianto sportivo per costruire residenze di lusso e uffici». Così come nel progetto dell’As Roma, oltre allo stadio da 52mila posti, rientra la costruzione di un “business park”, aggiungo io. «Esatto. In genere si sottovaluta che la novità dello stadio moderno non è solo la gestione privata, ma anche la natura polifunzionale» continua Tosi «con ristoranti, centri commerciali e unità immobiliare. Un bene, perché uno stadio aperto una volta ogni quindici giorni è un vuoto urbano. Ma anche un fattore critico, perché il pretesto dello stadio polifunzionale può essere cavalcato come testa di ponte per altri interessi». Secondo il professore, insomma, i patron della Serie A sarebbero tentati dal fare i furbi. «La questione stadi smuove una parte importante del tifo. In alcuni casi, come a Napoli o a Genova sponda Genoa, dove l’affezione per il Marassi ha creato un sentimento di topophilia, l’adesione dei supporter ai nuovi progetti non è maggioritaria. Ma il più delle volte i sostenitori si schierano dalla parte del club. La stessa fetta di tifo rappresenta una parte dell’elettorato di cui l’amministrazione locale, fisiologicamente senza soldi, non può non tener conto». Le premesse non possono che portare, e ne abbiamo prova ogni giorno, al muro contro muro tra i vari livelli di governo del territorio e i patron delle locali società sportive. «Cerco un altro terreno e porto la squadra a giocare fuori, è la minaccia più banale che i presidenti fanno ai sindaci», ricorda Tosi.

REGGIO NELL'EMILIA, ITALY - APRIL 19: General view of Mapei Stadium before the Serie A match between US Sassuolo Calcio and Torino FC at Mapei Stadium - Città del Tricolore on April 19, 2015 in Reggio nell'Emilia, Italy. (Photo by Giuseppe Bellini/Getty Images)
Sguardo all’interno del Mapei Stadium prima di un match tra Sassuolo e Torino (Giuseppe Bellini/Getty Images)

I magnati del calcio, va detto, non hanno tutte le colpe. Costruirsi uno stadio con l’idea di ricavare profitti dai soli biglietti è un investimento privo di appeal. Stefan Szymanski in Money and Football (Nation Books, 2015) calcola che, nel lasso di tempo in cui un impianto da nuovo diventa obsolescente e meritevole di demolizione, la società che l’ha tirato su e che ha drenato soldi solo dal ticketing è semplicemente rientrata dei costi sostenuti. Finita con la crisi del 2007 la stagione in cui la politica poteva permettersi di sostenere generosamente gli stadi privati, perché la spesa per un impianto serva allo scopo di creare ricchezza per il club c’è bisogno del corredo di ristoranti, cinema, museo, negozi, uffici e quanti più metri cubi di cemento è possibile. «Ma un buon affare per la società» riporta con i piedi per terra Tosi «non è detto sia un buono stadio per la città».

Ed eccoci qua. L’Italia è bloccata in uno stallo alla messicana dove è facile ridurre le parti in causa a luoghi comuni: sindaci vessatori contro presidenti approfittatori. Se non si vuole che gli stadi si costruiscano solo nelle città dove i club riescono a imporsi sulle giunte, la soluzione è nel metodo, si diceva. Dare un occhio all’estero può aiutare, purché sia dato con sapienza. «A volte si ha l’impressione che si parli di “modello inglese” senza sapere davvero in che cosa consista e, soprattutto, in che direzione si stia evolvendo», scherza Tosi. Gli esempi si sprecano. Nello Stivale si lavora a stadi costosi ed esclusivi quando il nord Europa va da tutt’altra parte. «In Germania è previsto che gli impianti mantengano una quota di biglietti a prezzi calmierati, mentre in Inghilterra è forte il movimento che vuole i ritorni alle “terraces”, ai settori popolari d’altri tempi« osserva il sociologo di Milano Bicocca. «Si è pensato di poter estirpare la violenza dal calcio con provvedimenti classisti, nel senso marxiano del termine, facendo leva sul reddito. Ma le firm di hooligan erano piene di avvocati e professionisti». Il controsenso, ora, è che «mentre l’Allianz Arena è un luogo accessibile, a ingresso gratuito, dove si paga solo per i servizi, in Italia ragioniamo ancora su stadi disegnati intorno a chi può spendere 70 euro per un pasto, ma che lasciano fuori chi ha 5 euro per birra e salamella». La questione non si ferma al portafoglio dei tifosi, ma all’esperienza stessa della partita, che«da fenomeno di massa, diventa un’esperienza frazionata e individualista».

MILAN, ITALY - FEBRUARY 10: A view of the inside of Stadio Giuseppe Meazza venue for the UEFA Champions League Final 2016 on February 10, 2016 in Milan, Italy. (Photo by Shaun Botterill/Getty Images)
L’interno del stadio Giuseppe Meazza (Shaun Botterill/Getty Images)

Non tutto è perduto. Dal punto di vista della proposta, secondo Tosi, buone idee se ne sentono. «Soprassedendo sull’aspetto finanziario, il progetto dello stadio del Milan al Portello era buono: piccolo, ben integrato nel sistema del trasposto urbano, incastonato nella città. Uno stadio londinese». Però le resistenze maggiori sono venute proprio dai residenti del quartiere. «Le obiezioni vertevano sui parcheggi e sul rischio violenza, come se dovessimo dare per forza per inteso che i tifosi» ribatte Tosi «siano energumeni che si muovono solo in auto. Invece proprio il modello inglese insegna che ci possono essere stadi nel centro cittadino».

La principale lezione da trarre dall’estero è la concertazione. Se vogliamo evitare che i progetti marcino a forza di strappi e fughe in avanti tra riunioni e aule consiliari, «dobbiamo auspicare tavoli di confronto dove sindaci e presidenti siedono alla pari», conclude. Un’amministrazione locale può trarre utilità da uno stadio polifunzionale privato se riesce a inserirvi elementi di pubblica utilità. «Con la costruzione dell’Amsterdam Arena è stato previsto un auto-silos in un luogo di interscambio del trasporto pubblico che risulta prezioso anche quando non ci sono match in programma; nel progetto dell’Old Trafford è stato inserito uno studentato. Basta che sindaci e patron si parlino».

 

Nell’immagine di testata  ‘Calcio In Erba’ –  Juvenile Football Event all’Olimpico di Roma (Photo by Paolo Bruno/Getty Images)