Un nuovo tipo di difensore

Milenkovic, Walker, Maksimovic: chi sta cambiando il concetto di "difendere".

Perché Stefano Pioli, allenatore della Fiorentina, schiera un centrale difensivo come Nikola Milenkovic nella posizione di terzino destro? La domanda sorge spontanea in proporzione alla assoluta convinzione con cui il tecnico viola ha provato il serbo classe ’97 nella zona laterale della difesa, lo scorso anno, per poi non cambiargli più posizione. È un paradosso: hai in rosa uno dei migliori giovani centrali difensivi al mondo, ma lo utilizzi in un’altra posizione. Lo adatti, quindi lo limiti. Perché Milenkovic ha tutto ciò che viene richiesto ad un centrale: è infatti 195 centimetri, è prestante fisicamente, ha un’ottima lettura degli anticipi, è preciso negli interventi (intercetta 1,3 palloni a partita, tanti quanti Chiellini e Koulibaly) e nei colpi di testa (vince 2,2 duelli aerei a partita).

Eppure, gioca terzino. Sempre. Alla domanda di cui sopra, Pioli probabilmente risponderebbe con un’altra domanda: perché no? Nel calcio hanno ragione tutti e nessuno, dipende dal punto di osservazione. In questo caso, il centrale serbo gioca largo in fascia perché lì può comunque esprimere le sue qualità, anzi, di più: perché queste qualità, estrapolate da un contesto tradizionale e per certi versi “scontato” e inserite in uno diverso e per certi versi unico, diventano determinanti. Escono dai cataloghi, si trasformano in novità che disordinano le pedine sulla lavagnetta tattica degli allenatori e aiutano la Fiorentina ad essere, in alcune fasi del gioco, diversa, inconsueta, innovativa.

Biraghi non partecipa all’incipit della manovra mentre Milenkovic equilibra il sistema garantendo il terzo appoggio: ad esempio contro la Spal schierata con due punte, era sempre libero e obbligava all’uscita una mezzala avversaria

È indicativo il fatto che la società viola in estate abbia rinunciato a investire sul terzino destro, nonostante fosse apparentemente scoperta nel ruolo e avesse la disponibilità economica per acquistare un titolare. Ha preferito promuovere Vitor Hugo al centro della difesa al fianco di Pezzella, e proteggersi acquistando Ceccherini. Di fatto ha comprato un centrale di riserva anziché un terzino titolare, quale non è Laurini, riscattato dall’Empoli e finora in campo solo nove minuti. Perché ha fin da subito considerato Milenkovic il proprietario di quella posizione. Non è quindi una soluzione di emergenza ma una scelta ponderata. Pioli non ha mai considerato il serbo fuori posizione, anzi, lo ha reso in questo modo l’ingranaggio fondamentale della squadra. Ecco il cambio di prospettiva: Milenkovic fuori ruolo diventa paradossalmente il perno attorno al quale ruota la Fiorentina. L’ago della bilancia, anche se non è al centro del campo ma è geograficamente perimetrale. Lo è perché è primaria la sua rilevanza: grazie alle sue caratteristiche da centrale si muove al contrario di un terzino tradizionale, cioè convergendo verso il centro anziché proponendosi in avanti in verticale, e lo fa con la naturalezza che invece un interprete classico del ruolo non può avere.

Una soluzione di emergenza è quindi diventata permanente, perché se da un lato toglie l’opportunità di ottenere il meglio da Milenkovic, dall’altro permette di ottenere il meglio dall’intera squadra. Primo perché, come anticipato, dà a Pioli la possibilità di utilizzare un sistema liquido; secondo perché grazie alla sua abilità tecnica aggiunge un appoggio all’uscita del pallone che il terzino di medio livello a cui la Fiorentina avrebbe potuto ambire sul mercato non garantirebbe; e terzo perché con i suoi 195 centimetri alza la statura complessiva di una squadra che altrimenti dovrebbe fare i conti con un difetto strutturale visto che dalla metà campo in su schiera soltanto giocatori brevilinei.

Così Milenkovic è diventato un giocatore quasi unico nel genere: non un fuori-ruolo ma un nuovo prototipo del ruolo. È un cambio di gerarchia indotto dal calcio contemporaneo, per cui i principi valgono più dei moduli e hanno modellato in particolare le caratteristiche dei difensori: se un tempo erano gli interpreti più specializzati, con caratteristiche prestampate e adeguate all’unico compito davvero richiesto, cioè marcare gli attaccanti avversari, ora sono i giocatori con più sfaccettature. Hanno mantenuto – o meglio, dovrebbero mantenere – l’abilità in marcatura a cui hanno via via sommato la visione del gioco di un regista, la capacità tecnica di un trequartista, la velocità di pensiero di un attaccante. E, infine, la comprensione del gioco di un allenatore. I difensori, infatti, sono calciatori sempre più “intelligenti”.

Pensatori, dunque. Necessariamente. Perché se un centrale come Milenkovic viene dirottato in fascia ma non ne capisce il motivo è inevitabile che interpreti il ruolo come un ripiego, non come una soluzione definitiva, e dunque le sue prestazioni non siano convincenti. Che, in quel caso, costituisca davvero un difetto della squadra anziché un pregio. L’intelligenza fa parte della poliedricità di un difensore contemporaneo e ne misura il valore. È emblematico che la Fiorentina consideri Milenkovic un giocatore da 45 milioni di euro, cioè la cifra di un top nel ruolo, nonostante non abbia ancora giocato in Europa e la sua esperienza internazionale sia limitata a otto partite con la Nazionale serba.

Ma Milenkovic è solo uno dei tanti difensori sottoposti a un processo di modellazione, utilizzati per assolvere compiti all’apparenza fuori dalle loro competenze. Un esempio simile fu l’utilizzo di Rüdiger da parte di Spalletti, due anni e mezzo fa nella Roma: il centrale tedesco, a destra nella difesa a tre, era in grado di allargarsi fino a coprire la casella del terzino ed esentare così l’esterno Florenzi dai compiti difensivi. Lo stesso Spalletti è solito riproporre l’idea con D’Ambrosio nell’Inter. Contro il Torino, lo scorso 26 agosto, ha preferito quest’ultimo a Miranda nella difesa a tre assieme a De Vrij e Skriniar, presupponendo che la sua capacità tecnica nei passaggi fosse superiore a quella del centrale brasiliano, per sfruttare lo spazio che i granata, con il 3-5-2, inevitabilmente avrebbero concesso ai fianchi dei due centravanti, cioè in corrispondenza dei “terzi” di difesa. Sono soluzioni temporanee, queste, ma l’idea di fondo è sempre la stessa.

L’esempio più recente è Maksimovic: Ancelotti lo ha utilizzato come terzino “ombra”, a metà tra la fascia e il centro, nelle partite del Napoli con Liverpool e Psg in Champions, così da esentare sull’altro versante Mario Rui dai compiti di marcatura sugli avversari più temibili, Salah e Mbappé. Così ha sgomberato lo spazio alla sinistra di Koulibaly, che senza terzino di fianco ha avuto campo per guadagnare velocità e chiudere gli sprint degli avversari di turno, mentre Maksimovic, scalando, garantiva supporto ad Albiol che a sua volta copriva il partner senegalese. E poi si è garantito il solito terzo appoggio in fase di uscita di palla, per evadere al pressing delle rivali. Così quella che, alla lettura delle formazioni, pareva un’ammissione di inferiorità, una mossa conservativa, grazie alla duttilità di Maksimovic si è così rivelata invece lo scacco matto delle partite.

Vale anche il percorso inverso, cioè il terzino che vira verso il centro, diventando un centrale. Guardiola iniziò due anni fa a sperimentare Kolarov nella difesa a tre del suo primo City, poi ha riproposto lo stesso percorso a Walker. L’inglese è quanto di più fedele all’idea classica del terzino di spinta, abile ad allungare la squadra grazie alla sua facilità di corsa, al punto da renderlo apparentemente adatto solo a quel compito. Non per Guardiola. Pep ci ha visto altro, qualcosa di nascosto, e forse proprio per questo più interessante ai suoi occhi. Ha visto in Walker una qualità tecnica nella giocata sopra la media tale per cui valeva la pena bloccarlo sulla linea difensiva, come terzo centrale in fase di costruzione, che altrimenti sarebbe stata prevedibile, perché affidata ai soli due centrali più il mediano. Ha mantenuto l’efficacia della sua velocità di corsa, ma alle volte ne ha inverte il senso: non in avanti ma indietro, per coprire la profondità spesso concessa dai centrali di ruolo, Stones e Otamendi (o Kompany). E, in più, permette a Mendy (o Delph) di aggiungersi ai centrocampisti sul lato sinistro del campo. Insomma, quando rinuncia alla sua spinta, guadagna qualcosa altrove. È un’ulteriore prova per cui modellare i difensori in ruoli all’apparenza impropri non è un vezzo fine a se stesso ma un lavoro che regala nuove prospettive. È un passo indietro necessario per poterne fare, successivamente, due in avanti.

 

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