Un ex calciatore non ha sempre ragione

Chi ha giocato a calcio rivendica sempre più spesso un "primato" della sua opinione. Anche quando queste opinioni sono tra le più insensate e infondate.

«Mi aspetto di più da uno che ha giocato a calcio», ha detto Pep Guardiola indossando sul volto una delle espressioni più torve e disgustate che gli riescano. Come spesso gli capita quando si arrabbia davvero, si trattava di difendere uno dei suoi giocatori da una critica che Guardiola non considerava solo ingiusta ma anche insensata (e tra ingiustizia e insensatezza chissà cosa lo fa imbestialire di più). È possibile dire di Erling Haaland che non sa giocare a pallone? È accettabile che l’indiscutibilmente più forte centravanti del mondo venga definito «un giocatore da serie C», come fatto da Roy Keane dopo lo 0 a 0 tra Manchester City e Arsenal dello scorso 31 marzo? Le domande sono retoriche e le risposte scontate: no a entrambe. Sono critiche non solo ingiuste ma pure insensate. Ma allora, che a muoverle sia un ex calciatore di professione fa differenza? E se fa differenza, in che modo la fa? Per quale motivo ci aspettiamo – tutti, non soltanto Guardiola – di più da uno che ha giocato a calcio, anche quando il suo mestiere smette di essere quello di giocare a calcio e diventa quello di raccontarlo, spiegarlo, capirlo, il calcio? Un’opinione infondata, sbagliata, assurda diventa meno tale se a sostenerla è un ex capitano del Manchester United che in un derby contro il City quasi frantumò intenzionalmente il ginocchio ad Alf-Inge Haaland, padre di Erling?

Premessa: nessuno nega che aver praticato uno sport ai massimi livelli fornisca un punto di vista, un’esperienza pratica, un’intuizione delle cose che non è possibile acquisire neanche con il più matto e disperatissimo degli studi. Ma è sufficiente questo per fare di un ex giocatore, di un qualsiasi ex giocatore – «mi aspetto di più da uno che ha giocato a calcio» – un commentatore superiore alla media di quelli che ex giocatori non lo sono? È una deriva tecnocratica alla quale anche il calcio italiano si è abbandonato negli ultimi dieci anni, da quando Federico Buffa ha provato a innestare nel discorso calcistico quelle parti del discorso cestistico basate sull’analisi statistica e sull’approfondimento tattico. Non sfugge a nessuno l’ironia che vuole che la deriva tecnocratica del calcio sia cominciata con una persona che a pallone non ci ha mai giocato, ma si sa: i guai li combinano gli epigoni, mica i maestri. La partita tattica, programma di analisi e approfondimento che Buffa ha condotto su Milan Channel dal 2005 al 2011, resta ancora oggi una dimostrazione insuperata (insuperabile, probabilmente) di come parleremmo di calcio se vivessimo nel migliore dei mondi possibili. Non ci viviamo, ovviamente. Il discorso prosegue da questa consapevolezza.

Da quel momento in poi, le aspettative nei confronti del racconto calcistico – e dei suoi professionisti – sono cambiate. S’è avanzata la tecnocrazia, appunto. E chi sono i tecnici del calcio? Gli allenatori, ma quelli sono pochi (rispetto al più ampio bacino degli ex calciatori), fanno un altro mestiere, all’opinionismo si concedono solo per lenire la noia della pensione o per contenere le smanie della disoccupazione. Gli ex calciatori, si è deciso di affidare a loro il discorso: chi meglio di «uno che ha giocato a calcio» per raccontare il gioco a chi non lo hai mai praticato ma pretende ormai di capirlo fino al livello subatomico? Come tutte le pene e dannazioni, anche questa era cominciata come una cosa buona e giusta. Come tutti i figli elitaristi, anche questo è stato partorito da una madre tecnocratica. C’era bisogno di svecchiare, di rinnovare il racconto calcistico italiano, di avvicinarlo al gold standard inglese. In Inghilterra l’ex calciatore che diventa pundit, che in italiano traduciamo imprecisamente in “opinionista”, è una figura talmente rispettata da fare un curriculum spendibile poi anche fuori dagli studi televisivi: Gary Neville non sarebbe mai diventato allenatore del Valencia se prima non si fosse affermato come uno dei più competenti ed eloquenti pundit di Sky Sports (i tifosi del Valencia avrebbero fatto volentieri a meno sia della sua competenza che della sua eloquenza visto com’è andata a finire poi quella storia, ulteriore dimostrazione che raccontare e praticare il calcio sono mestieri assai diversi). Nella sua vita da opinionista – anche lui per Sky Sports – Jamie Carragher ha assunto quella posa professorale che in campo non si era mai potuto permettere. Thierry Henry ha detto che da un po’ di tempo a questa parte i fan lo riconoscono più come attuale pundit di Cbs Sports che come ex fuoriclasse del gioco.

In Italia si è provato a importare questo modello, si è cercato di “elevare” la figura dell’ex calciatore nella cronaca e nel commento, di farla evolvere da corista a vocalist, non più seconda voce ma voce narrante. In questo tentativo di allinearci ai cosiddetti standard europei, un tentativo di per sé comprensibile e desiderabile, si sono però messe di mezzo le cose che sempre si mettono di mezzo tra noi e gli standard europei, nel calcio ma non soltanto nel calcio: la nostra propensione per l’avanspettacolo (Cassano alla Domenica Sportiva alla fine è soltanto un’ennesima variazione sul tema della Corrida), le nostre tentazioni tecnocratiche. Con la foga che solo i Paesi tradizionalisti riescono ad avere nel distruggere tradizioni ormai venute a noia, in Italia ci siamo abbandonati alla novità fino a farcene travolgere, ci siamo affidati alla tecnocrazia facendo finta di non sapere che essa avrebbe partorito come sempre, come previsto, l’elitarismo.

Quello che era cominciato con La partita tattica di Federico Buffa è finito con la BoboTv del quadriumvirato Vieri, Cassano, Adani, Ventola: da un cronista/narratore – tra l’altro una seconda voce, perché la sorte non è mai ironica abbastanza – che ha provato a riportare il commento calcistico a un principio di razionalità/competenza, a un gruppo di descamisados che ha pervertito quello stesso principio a proprio favore: la competenza è esperienza e l’esperienza è degli ex calciatori, e proseguendo lungo questo percorso apparentemente logico si arriva alla conclusione che la competenza appartiene soltanto agli ex calciatori, e la ragione pure. Come nell’elitarismo politico essa appartiene a un gruppo indistinto e indefinibile – l’élite, appunto – in quello calcistico appartiene a un gruppo altrettanto indistinto e indefinibile: gli ex calciatori. Senza distinzione di ruolo (cosa ne sa Keane del mestiere di centravanti nel quale Haaland eccelle?), di epoca (cosa ne sa uno che ha smesso di giocare a pallone quando ancora il Muro di Berlino stava in piedi di come si gioca a pallone oggi?), di rilevanza (cosa ne sa un mestierante del calcio dei fuoriclasse?).

Gli interpreti dell’elitarismo calcistico hanno una loro retorica e un immaginario di riferimento: Cassano può dire che Leao «fa il fenomeno» sostenendo implicitamente che lui, che fenomeno lo è stato nella sostanza (secondo Cassano stesso, si capisce), sa riconoscere uno che lo è soltanto all’apparenza, uno che «ai miei tempi non poteva giocare neanche in squadre in lotta per il settimo posto» (altro filo che tiene assieme tutti gli elitarismi: la nostalgia per i tempi andati che sono sempre belli, l’avversione per una contemporaneità considerata sempre minore così come i suoi interpreti). Tutti gli altri, tutti quelli che sostengono che Leao fenomeno lo è davvero, almeno in potenza, quanto meno a momenti, sono automaticamente espulsi dal dibattito: se non sono ex calciatori, non possono saperne niente; se sono ex calciatori, non possono comunque saperne niente perché nessuno può essere stato davvero fenomeno come quello che ha l’ardire di considerarsi tale nonostante una carriera che dimostra tutt’altro.

È una trappola, questa. Una trappola che sta avvilendo il dibattito calcistico, riducendolo alle opinioni spesso sconclusionate ma sempre giustificabili di ex calciatori che rifiutano il vero principio di competenza: quello che dice che raccontare, spiegare, capire il calcio è un mestiere diverso dal giocarlo, un mestiere che un ex calciatore può fare meglio di chiunque altro a patto che accetti di impararlo come chiunque altro. Altrimenti, in questa trappola rischiano di finire incastrati anche quelli che l’hanno tesa, perché l’elitarismo è una torre infinita in cima alla quale c’è sempre qualcun altro. Quando gli hanno riferito le parole di Keane su Haaland, prima di dire «mi aspetto di più da uno che ha giocato a calcio», Guardiola aveva anche chiesto, retoricamente, indossando sul volto una delle espressioni più torve e disgustate che gli riescano: «Uno potrebbe chiedersi cosa ne sa lui, che è un allenatore da Serie C».