Tutto cambia, anche l’Athletic Bilbao

Spesso considerato simbolo di integralismo e conservatorismo, il club è invece una realtà in costante evoluzione. La Coppa del Re è la prova che la via basca alla vittoria esiste. E funziona.

L’Athletic Club di Bilbao è forse la squadra più famosa al mondo tra quelle che non vincono mai, o quasi mai. Perché ha una storia, una tradizione e una quotidianità diverse da quelle di tutte le altre, conosciuta in tutto il mondo per la sua politica – che forse è una filosofia – fortemente radicata sul territorio. A Bilbao tutto ha i tratti dell’unicità, lo abbiamo visto anche durante i festeggiamenti per la vittoria della Copa del Rey. Niente autobus con il tetto scoperto, nessun raduno allo stadio, la cerimonia è stata una sfilata a bordo di una chiatta, la Gabarra, sul fiume che attraversa la città, il Nervión, con a bordo i giocatori vestiti di biancorosso; alle loro spalle una piccola flotta di barche e barchette dei tifosi, le curve del Guggenheim di Frank Gehry sullo sfondo e un clima di euforia che si è stappato dopo quarant’anni di attesa. Il caos ordinato di quelle immagini dà un’idea di cosa sia lo spirito Athleticzale che si vive in città, la fusione romantica tra squadra e popolo, tra i Leones e il nazionalismo abertzale, l’anima basca molto indipendentista e lontana dal potere centrale.

A vedere quei festeggiamenti sembra di parlare di una società abituata alle vittorie e alle grandi cerimonie in città, invece la Copa vinta il 6 aprile ha spezzato una specie di maledizione che durava dal 1984. Per tutto questo tempo l’Athletic è sempre stato competitivo, con molte presenze anche nei tornei internazionali e finali perse, nonostante una politica societaria autarchica e anacronistica rispetto alle trasformazioni del calcio. La tradizione che porta a tesserare solo baschi di nascita e di formazione costringe il club a un esercizio di equilibrismo unico al mondo, una tensione doppia che deve tenere in vita una filosofia antica e allo stesso tempo garantire la competitività alla squadra nel breve e nel lungo periodo. Un modello unico e apparentemente non negoziabile. Nel 2018 un giornalista chiese all’allora presidente José Julian Lertxundi se un giorno l’Athletic avrebbe accettato di adeguarsi alla modernità abbandonando la sua politica, quindi la sua identità. Lertxundi rispose: «Ci sono modi più dolci per suicidarsi».

La capacità di rinnovare la competitività sul lungo periodo, mantenendo l’identità territoriale, è quello che rende davvero speciale l’Athletic. Perché di squadre con statuti singolari, tradizioni strampalate e altre storie bizzarre ce n’è in tutto il mondo. Solo che i Rojiblancos sono uno dei soli tre club spagnoli a non essere mai retrocessi dalla Liga, cioè uno dei campionati più difficili al mondo, al pari di Real Madrid e Barcellona. Il Real Madrid è il club del potere centrale, schiavo delle sue ambizioni e costretto dalla sua stessa grandezza a reclutare campioni e fenomeni, sputando via chi non rientra in una di queste categorie, un titano spregiudicato simile a Saturno che divora i suoi figli. Il Barcellona si vanta di essere més que un club perché rappresenta l’identità di un popolo che si sente nazione, ma da tempo l’essenza catalana si mescola agli interessi e alle dinamiche di una multinazionale globale e frenetica. Il legame dei blaugrana con la Catalogna ha delle similitudini con quello che l’Athletic conserva con i Paesi Baschi. Ma qui tutto rimane su una scala più piccola, local, quasi familiare.

Questo non vuol dire che l’Athletic si senta condannato a vivere nel passato, a non diventare una società sportiva contemporanea. Nel 2008 è stato fatto il passo più difficile aggiungendo per la prima volta uno sponsor alla maglia in una partita di Liga. E nel 2013 ha inaugurato uno stadio nuovo, più grande e più moderno della storica Catedral di San Mamés. In realtà la stessa politica societaria che limita il calciomercato si è dimostrata particolarmente resistente rispetto alle crisi che può subire un sistema economico capitalistico come quello del calcio. Quando è arrivata la pandemia, nel 2020, tutti i club hanno subito perdite enormi e hanno fatto sacrifici. L’Athletic non ha fatto eccezione, ma senza misure drastiche – tagliando solo una porzione degli stipendi della prima squadra –, perché aveva un saldo positivo di 188 milioni di euro a bilancio.

L’Athletic non è poi molto diverso da altre società se si guarda agli aspetti economici. Lo si vede anche dalle scelte dei massimi quadri dirigenziali: a giugno 2022 il club aveva bisogno di iniziare la sua transizione verso un’economia post-pandemica, così ha eletto presidente Jon Uriarte, imprenditore con un passato in Merrill Lynch e in Morgan Stanley, poi fondatore nel 2009 di Ticketbis – piattaforma online di compravendita di biglietti per eventi. La razionalizzazione delle spese, a partire dagli stipendi – per razionalizzare le spese e rendere più efficienti tutte le operazioni dell’azienda.

La parte più difficile è sempre quella che guarda al campo, agli aspetti calcistici, a partire la composizione della rosa per la prima squadra. Il parco giocatori è un enorme patrimonio – al momento secondo Trasnfermarkt vale più di 260 milioni di euro – ma ha bisogno di rinnovamento costante e con una politica di trasferimenti così limitata non è facile. Parliamo di una squadra che fa mercato quasi solo in uscita e raramente ha prodotto talenti di primissimo livello. Negli ultimi dieci anni solo tre giocatori hanno portato incassi enormi: Kepa al Chelsea per 80 milioni di euro, Aymeric Laporte al Manchester City per 65 milioni, Ander Herrera al Manchester United per 36 milioni. Poi ci sono cessioni minori che pareggiano le poche operazioni in entrata (per due anni consecutivi, tra il 2015 e il 2017, l’Atheltic Club non ha fatto acquisti). Una condizione che non sarebbe possibile se il settore giovanile non fosse uno dei migliori al mondo, permettendo al club di essere autosufficiente.

A Lezama, un piccolissimo centro a meno di 15 chilometri da Bilbao, c’è un impianto di quasi 150 mila metri quadrati, con otto campi, un palazzetto dello sport, un residence in grado di ospitare fino a 58 giocatori, poi uffici e altre strutture (palestre, centro medico, area relax). Quello è il laboratorio che permette alla società di rinnovarsi stagione dopo stagione, ed è per questo che circa il 10% delle finanze del club vengono destinate a questo settore, alle strutture ma anche al coaching staff. Molti degli allenatori del club sono passati dal settore giovanile alla prima squadra, garantendo connessioni continue tra tutti i livelli. Ma l’Academy va ben oltre Lezama. L’Atlethic controlla in maniera diretta o indiretta – o comunque mantiene rapporti privilegiati – con oltre 166 club giovanili regionali affiliati in tutti i Paesi Baschi. Ci sono linee guida di allenamento dettagliate da seguire e un monitoraggio costante dello sviluppo dei giocatori, dal livello di base a quello professionale. Non c’è nemmeno una ricetta segreta, come per la Coca-Cola. In fondo è quello che fanno molti club che investono sullo sviluppo dei giovani del territorio. Solo più in grande, e meglio.

Sul campo della Cartuja di Siviglia, al momento di alzare la Copa del Rey, il capitano Iker Muniain ha cercato tra i compagni di squadra Oscar De Marcos, lo ha indicato, «tú, conmigo», poi hanno alzato il trofeo insieme. Sono gli ultimi reduci dalla finale di Europa League del 2012, i simboli di una generazione brillante arrivata più volte a un passo dal giro sulla Gabarra – quattro volte in finale di coppa, sempre sconfitti, compreso il derby con la Real Sociedad – per poi veder sfumare il sogno all’ultimo atto. Era una specie di ultima occasione, per loro. È stata una liberazione. Era la prima vittoria anche per i fratelli Iñaki e Nico Williams, che dopo il rigore decisivo si sono concessi un abbraccio tra le lacrime. Nel passaggio di testimone tra Muniain-De Marcos e i due Williams, tra i millennial e la Gen Z dello spogliatoio, c’è l’evoluzione costante dell’Athletic, la conservazione delle radici e l’apertura alla novità.

L’Athletic non vinceva la Copa del Rey da quarant’anni, ma resta comunque la seconda squadra più titolata del torneo: lo ha conquistato 24 volte, sette in meno rispetto al Barcellona (Jaime Reina/AFP via Getty Images)

Negli anni la definizione di chi è “basco”, e quindi può giocare in biancorosso, è cambiata più volte. Perché la politica societaria non è un monolite statico ma una specie di sacra scrittura da interpretare, spesso secondo le necessità del periodo storico.  «Fin dall’inizio la filosofia del club è sempre stata interpretata», aveva detto Juan Elejalde, due volte membro del consiglio dell’Athletic tra il 1990 e il 2001. «All’inizio non è mai stato scritto perché nessuno voleva farlo. Tutti i consigli di amministrazione nel corso della storia ne hanno interpretato la filosofia». C’è sempre qualcuno che solleva l’argomento con nuove proposte: un gruppo di soci del club ha ottenuto per gennaio 2025 un referendum per ridiscutere questa filosofia. Ma finora, non ci sono mai state rivoluzioni e forse anche questa è solo una proposta velleitaria.

In un primo momento il club ammetteva solo i giocatori nati e cresciuti nei Paesi Baschi e solo negli anni ’70 c’è stata l’apertura all’acquisto giocatori baschi affermatisi fuori regione. Successivamente l’identità basca è sfumata nel concetto della formazione calcistica – come ad esempio l’attuale ct della Nazionale Luis de la Fuente, arrivato a Bilbao a 15 anni. Poi si è aperta la possibilità di tesserare gli stranieri figli di baschi, come il venezuelano Fernando Amorebieta (2005), poi i baschi figli di stranieri, come l’angolano Jonás Ramalho, e infine i nipoti di baschi, come l’aquitano Aymeric Laporte.

L’allargamento graduale dei cordoni rende la politica autarchica molto meno integralista e rigida di quanto non possa sembrare dall’esterno. In questo modo negli anni la filosofia societaria dell’Athletic Club ha smesso di essere solo una politica conservatrice, la devozione disperata verso una presunzione identitaria che pian piano avrebbe dislocato la squadra alla periferia del calcio. La tradizione che rende unico l’Athletic non è un tentativo reazionario di resistere all’inevitabile, ma un’attività di curatela che protegge un patrimonio calcistico, economico, culturale, umano. Come tutte le culture è in costante trasformazione, in aggiornamento perpetuo. Non sfida il tempo ma lo attraversa come tutte le cose umane. E nel tempo cambia e si evolve.