Terza puntata della stagione di Football Manager 2015 raccontata: le prime quattro partite di campionato e l’esordio in Champions League. Le cose che sembrano andare bene e invece precipitano. La paura.
Le prime giornate di campionato sono le più belle, come i primi giorni di tutto o quasi: di primavera, di amore, di ora solare, di libertà, di domenica, di viaggio. Quindi torno a casa dal lavoro e, in mancanza di una primavera, di un viaggio, di un amore e di un’ora solare, in questo novembre ancora però caldo, passo con la bicicletta sulle foglie scivolose davanti all’arena, attraverso con i semafori ancora rossi per passare in via Paolo Sarpi, supero il quartiere cinese e mi alzo sui pedali per la salita del cavalcavia Bussa, guardo la città che sta diventando verticale da queste parti, mi sbottono il cappotto perché sudo, mi infilo a casa, tolgo le cuffie su cui ascolto da giorni 69 Love Songs dei Magnetic Fields, ininterrottamente, ed entro a Trigoria, per continuare il mio lavoro dove l’avevo lasciato, dalla prima partita ufficiale, un pareggio stampato sul palo di un calcio di rigore.
Giocheremo contro il Chievo l’esordio in campionato, e sarebbe superfluo dire che, dopo il pareggio della prima partita, la vittoria è obbligatoria. La squadra aveva giocato bene a Genova, e la lascio più o meno uguale: un 4-2-4 con De Rossi e Romero a fare i mediani, Florenzi e Pjanic sulle fasce (continuo a sperare che si adatti bene), Iturbe e Huntelaar attaccanti. Inizia tutto benissimo, funziona bene soprattutto la difesa. All’undicesimo minuto Huntelaar e Romero giocano la palla sulla fascia sinistra, poi l’argentino la passa a De Rossi, che la controlla e tira rasoterra. Il tiro è deviato, e Puggioni respinge troppo corto con i piedi, giusto sui piedi di Florenzi, che segna il secondo gol in due partite. Addirittura, due minuti prima, Huntelaar aveva colpito la traversa con un colpo di testa potentissimo, su un cross di Pjanic che mi ha fatto sospirare di gioia. È una vittoria facile e netta, con qualcosa che rimane a preoccuparmi: 22 tiri totali, 11 in porta, e soltanto un gol su respinta. Abbiamo vinto, va bene, ma potevamo vincere meglio, come direI’m crazy for you but not that crazy, come cantano ogni giorno nelle mie cuffie nelle mie orecchie sulla mia bicicletta nella mia città i Magnetic Fields.
Ho comprato alcune piante nuove, e un treppiede di legno che suppongo servisse in origine a ospitare sulla sua cima un vaso. Ci metto una pianta, ha le foglie che pendono all’ingiù ed è bella, così sopraelevata come un mezzobusto verde, nel suo vaso bianco, proprio a fianco al grosso libro sui pittori orientalisti francesi. Cucino del palombo in umido, so che devo uscire con Virginia, so che devo leggere qualcosa perché leggo ancora troppo poco, ho comprato due libri di Manuel Puig, due Einaudi degli anni Settanta, Il bacio della donna ragno e Pube angelicale, un brutto titolo che però mi incuriosisce. Ho ancora una manciata di minuti e so che mancano pochi giorni alla partita con l’Olympiakos, in Champions League, quindi non leggo, non pulisco i piatti e mi sento meno in colpa di quanto temevo. Decido che un 4-2-4 in trasferta ad Atene è troppo offensivo, in più i giornalisti mi chiedono se Holebas sarà emozionato nel giocare contro la sua ex squadra, io sono spiazzato perché non ho parlato con Holebas, che oltretutto mi sembra un ragazzo poco aperto a questo genere di confidenze. Rispondo “no comment” a tutti, vorrei dire qualcosa tipo “chiedetelo a lui” oppure “non me ne frega niente”, oppure vorrei dire ancora “perché non mi chiedete mai di me?”, ma invece non lo faccio.
Nel 4-4-2 schiero Romero e Keita mediani, Florenzi centrocampista centrale, Pjanic trequartista e Aduriz e Huntelaar in attacco. Ormai chiamo tutti per cognome tranne Huntelaar, che per me è Hunter. Dai Hunter, forza Hunter, gli dico o gli mormoro tra me e me. Il primo gol è inaspettato: Hunter sulla fascia sinistra, fuori posizione solo apparentemente, attira due difensori su di sé. Scarica palla a Holebas che la gioca centrale fuori area per Romero, il mio pupillo con la faccia da gaucho verticalizza per Pjanic a centro area, Pjanic di prima tira sotto l’incrocio del primo palo. È passato un minuto, sono avanti uno a zero. Il nuovo schema sembra pagare, esulto in salotto con il piatto vuoto davanti, James, il gatto, alza la testa e mi guarda stranito. Il due a zero arriva pochi minuti dopo, ed è sempre Pjanic: colpo di testa, respinta del portiere, destro al volo: tutto confuso, tutto di prima, tutto molto brutto ma molto efficace: nove in pagella, bosniaco schivo, questa volta non ti dirò quanto sei stato bravo perché ho paura che vada come l’altra volta, quando mi rispondesti qualcosa come “mi sembrano esagerati i tuoi complimenti”, allora va bene così, un cenno della testa, una carezza, io esulto ancora di più e mi verso un bicchiere di questo Chianti del 2013 che non è poi così buono. Finisce 2-1 per la Roma, l’Olympiakos segna con Afellay allo scadere, i tiri in porta sono tredici per uno, il possesso palla, come al solito, favorisce gli avversari. Ancora: non va tutto bene, ci sono molte cose da sistemare. Ma dopotutto, va abbastanza bene, e siamo solo all’inizio.
Distratto io, che penso a Virginia, e al lavoro, e alle mie piante e a cosa mangiare domani, e non guardo il calendario e non mi preparo emotivamente: c’è Milan-Roma, la mia squadra del cuore contro la squadra che alleno. Ho paura, il Milan ha rinnovato molto il centrocampo, con Carmona e Gago, e soprattutto Fernando Torres è capocannoniere del campionato, e la mia difesa mi dà troppe preoccupazioni. Il giorno della partita arriva velocemente. Schiero la stessa formazione che ha battuto l’Olympiakos, anche se Fréderic Bompard mi dice che il modulo è ancora poco capito dai giocatori, ma le cose si mettono male subito: Holebas perde palla sulla sua fascia, Poli verticalizza per Torres che, velocissimo, si lancia verso il fondo; poi la fa girare in mezzo, Carmona, De Sciglio e Gago improvvisano un tiqui taca efficace e riescono a ribaltare il fronte su Menez, che dalla sinistra milanista punta l’area, brucia Maicon, brucia De Rossi e tira. Fuori, di poco. Ho paura, e ho paura che la stessa paura venga avvertita dai giocatori. Dovrei spronarli, ma temo di farli innervosire. Me ne sto zitto, e dopo pochi minuti dall’inizio del secondo tempo assisto al calcio d’angolo di Armero, alla girata di Bonaventura, al gol dell’uno a zero del Milan. Le statistiche dei tiri sono impietose, la Roma non riesce a essere pericolosa, il Milan ci schiaccia. Devo vincere o pareggiare, non me ne frega niente di battere il Chievo, voglio battere il Milan. La squadra che mi ha fatto piangere o toccare le massime vette di felicità, che ho seguito per quindici anni in Italia e in Europa. Invece Menez segna il due a zero, ancora su un’azione da calcio piazzato. Riesco a vedere un barlume di gioco soltanto quando, al minuto 80, Maicon arriva sul fondo e crossa per Aduriz che viene fermato da un miracolo di Diego López. Le cose non cambiano e non sarebbero cambiate: è arrivata la prima sconfitta, e abbiamo giocato così male che non sarà l’ultima.
Mi rendo conto che Manolas, Astori, Yanga Mbiwa e Castan non sono quattro difensori con cui si può ambire allo Scudetto. Sono quattro buoni difensori, sono anche ben assortiti (un greco, un italiano, un francese, un brasiliano), ma non mi sembrano in grado di reggere gli attacchi di un Lewandowski, un Reus, un Torres o un Tevez. Le cose peggiorano quando capisco che la prossima partita sarà in casa, ma contro la Juventus. Sono insicuro e ho paura, e sono sicuro di trasmettere questa paura alla squadra. Per questo cambio ancora una volta modulo, schiero un 4-3-3 che devo ammettere mi convince, almeno sulla carta, e mi sembra la soluzione migliore. De Rossi in mediana, Romero e Keita centrocampisti, Totti punta centrale. Il primo gol della Juventus, al minuto 28, è simbolico di quanto la difesa di questa Roma non sia all’altezza dei suoi obiettivi: Tevez dalla trequarti di destra lancia per Asamoah che la stoppa in area, a sinistra. Non lo marca nessuno, né Maicon né un centrale, è assurdo, sembrano essersi sublimati o peggio scappati per la paura, una paura irrazionale e stupida (come si fa a lasciare un buco del genere in area?) che mi fa disperare per trovavi un rimedio, una paura fatta di incomunicabilità come quella di Conrad in Un avamposto del progresso, penso, che ho finito di rileggere poco fa: io che dico a Manolas e Maicon di coprire, loro che scappano come se fossi io Makola e loro i pazzi Kayerts e Carlier, in questa stazione di progresso in mezzo alle tenebre che è la difesa della mia Roma allo stadio Olimpico contro la Juventus. Asamoah la stoppa in area quindi, e tira. Uno a zero.
La partita procede, e dopo venti minuti Lichsteiner crossa un pallone rapido e rasoterra su cui De Sanctis non esce, e Castan si addormenta, facendosi anticipare da Tevez che fa due a zero. Siamo oltre la linea d’ombra, siamo nel cuore di tenebra dell’educazione difensiva. A ogni passo avversario, i miei giocatori perdono il senno, come se non giocassimo contro undici altri giocatori, ma contro una superstizione, una maledizione, spiriti nel buio di una regione di follia. Non ho le redini, non so dove trovarle. Rimando a domani, sperando che le cose si aggiustino da sole, in qualche modo. Di solito non succede.