Pitbull

Edgar Davids ha 42 anni. Un ritratto a più tinte della carriera di uno dei centrocampisti più iconici, dal bianco e nero di Torino all’arancione della nazionale olandese. La storia del talento coltivato nelle vie di Amsterdam.

Se è vero, come scriveva Pascal nei suoi Pensieri, che tutta l’infelicità degli uomini proviene dal non saper restare tranquilli in una stanza, allora la felicità è stata anche sedere davanti a una Tv nei primi anni Duemila, in stato di assuefazione per una squadra con maglie a righe bianche e nere che macina punti e vittorie in Italia ed Europa – col senno di poi, una testimonianza di Zeitgeist calcistici oggi dimenticati. Quando gioca in casa, allo stadio delle Alpi di Torino, quell’undici è sempre accompagnato da uno striscione tra i tanti, un vessillo che col tempo mi trovo a considerare il patrono silenzioso che veglia sulle sue imprese: raffigura due occhi scuri e vigili, dall’aria inflessibile e autoritaria. Su quel due aste habitué della curva di Torino ci sono solo quelli, attorniati da consuete, inconfondibili lenti arancioni. Sono gli occhi di Edgar Davids, nato a Paramaribo, capitale del Suriname, il 13 marzo del 1973, per qualcuno uno dei centrocampisti più talentuosi dell’ultimo ventennio, per Pelé tra i 125 giocatori più forti del mondo nel 2004, nel centenario FIFA. Per me, e chissà quanti altri, innanzitutto uno sguardo greve che ha infuso tranquillità, una palla giocata dopo l’altra.

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Edgar Davids nel 1993, con la maglia dell'Ajax. Shaun Botterill/Getty Images
Edgar Davids nel 1993, con la maglia dell’Ajax. Shaun Botterill/Getty Images

Quando Edgar ha due anni, la sua famiglia – il padre è scaricatore di porto, la madre addetta alle pulizie – si trasferisce ad Amsterdam, nel quartiere settentrionale e working class di Nieuwendam, tra casette in legno e più di un problema con la criminalità. Inizia a giocare a pallone per strada, lungo le vie della capitale, onorando lo Straatvoetbal, il genius loci olandese che rende i suoi migliori interpreti funamboli con un penchant per il dribbling e il palleggio. A forza di tre-contro-tre sull’asfalto si guadagna il soprannome di «Sindaco della strada». Nella zona abita anche un altro olandese-surinamese destinato ai più alti palcoscenici: Patrick Kluivert. Entrambi, diventati amici nel giro di poco, vengono arruolati dall’Ajax Academy, la più efficiente scuola calcio dei Paesi Bassi. Quando gli chiedono – come ha fatto FourFourTwo in un’intervista del 2010 – come mai il Suriname ha dato tanti campioni agli Oranje (oltre a lui e allo stesso Kluivert, Ruud Gullit e Clarence Seedorf), Davids risponde facendo riferimento a «una specie di cetriolo amaro cucinato al vapore». «Ti dà forza», sostiene.

Il centrale Davids inizia come tornante Davids. Le giovanili dell’Ajax gli permettono di fare strada. D’altronde quel ragazzo non soltanto ha piedi raffinati, ma rincorre gli avversari, li spinge, scivola, ci mette la gamba, pressa, si spinge in avanti e torna subito indietro. Sa fare tutto, ma a pensarci bene il punto non è nemmeno questo: lo fa con un’aggressività mai vista, uno spirito dionisiaco talmente inusuale da verificare quella massima di George Bernard Shaw per cui il calcio diventa «l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti». Esordisce in Eredivisie il 6 settembre 1991, a diciotto anni, coi Lancieri di Louis van Gaal. È lo stesso van Gaal che vede in lui il Pitbull che morde alle caviglie degli avversari, sempre, per 90 minuti ogni partita, e lo rinomina a dovere, dandogli l’appellativo con cui diventerà famoso in tutto il mondo. Ed è sempre lui che lo sposta dalla sinistra al centro del gioco, perché è lì che tutte quelle capacità possono dare il meglio al total voetbal insegnato dall’Ajax.

Con la squadra della sua città Davids vince tutto: dopo la conquista della Coppa UEFA del 1992, nella stagione 1994/1995 I Lancieri vincono il campionato per la venticinquesima volta senza perdere una singola partita e segnando 106 goal, e trionfano anche in Europa, aggiudicandosi la Coppa dei Campioni in finale contro il Milan di Capello. Il 24 maggio 1995 a decidere la partita di Vienna nel finale è Patrick Kluivert, l’amico del quartiere, soltanto uno dei talenti che vengono dallo stellare vivaio di pochi anni prima: oltre a Davids c’è Clarence Seedorf, c’è Marc Overmars, ci sono i gemelli Ronald e Frank de Boer, Michael Reiziger, Kiki Musampa. Ragazzi poco più che ventenni sul tetto d’Europa, dove poi passeranno gran parte delle loro carriere. «Quando abbiamo vinto è stato come se l’Olanda intera fosse uscita a festeggiare», ha ricordato il Pitbull. Lui, con la coppa in mano, sul palco della premiazione quella sera ha cantato in surinaams, la lingua del suo paese natio.

Ridefinisce il concetto di “giocatore completo”, perché qualunque cosa venga chiesta a un calciatore, Edgar Davids la sa fare meglio degli altri.

Il ragazzo sa che farà strada. In Olanda da anni gira una voce che riguarda proprio i suoi primi anni all’Ajax. Pare che, incontrato l’ex campione olandese di tennis Richard Krajicek prima di una seduta di fisioterapia, Davids si sia presentato con un: «Ciao, il mio nome è Edgar Davids. Presto sentirai parlare di me». E come dargli torto? In campo non è soltanto il mastino capace di interrompere l’azione degli avversari, ma anche un dispensatore di tocchi di fino, esterni al volo, cambi di gioco improvvisi e geniali. Quando parte palla al piede muove quelle sue gambe – piccole, se paragonate alla potenza di cui si dimostrano capaci – con la velocità e frenesia di un improbabile insegnante di ballo. Ridefinisce il concetto di “giocatore completo”, perché qualunque cosa venga chiesta a un calciatore, Edgar Davids la sa fare meglio degli altri.

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Nel 1995 la Corte di giustizia europea si pronuncia sul caso sollevato dal belga Jean-Marc Bosman: tutti i calciatori professionisti di cittadinanza europea possono, se in scadenza di contratto col loro club, accasarsi gratuitamente a un’altra squadra comunitaria. Il Milan di Oscar Tabarez ne approfitta per mettere le mani sui gioielli di Amsterdam, portando a San Siro Davids e Reiziger a parametro zero nell’estate del 1996. A Milano, però, com’è noto per il Pitbull va male, malissimo. Le prestazioni opache, come se al posto del talento di Amsterdam fosse rimasto un giocatore qualunque, le incomprensioni tecniche, l’infortunio a tibia e perone, le 15 presenze totali in campionato nella stagione 1996/1997, la frustrazione, Costacurta che lo definisce poco profeticamente e con scarsa eleganza «una mela marcia». A dicembre dell’anno seguente Adriano Galliani commette quello che poi definirà sempre uno dei più grandi errori della sua carriera da dirigente: vende Davids alla Juventus di Marcello Lippi per 9 miliardi di lire.

Edgar Davids in seguito ha sempre sostenuto che la Juve gli ha «insegnato a vincere», ma di certo è vero anche viceversa. Il primo olandese della storia dei bianconeri entra subito negli schemi di Lippi e ci mette poco a tornare a ringhiare come ai tempi d’oro. La prima volta che aveva incontrato la Signora era stato il 22 maggio del 1996 a Roma, in una finale di Coppa Campioni tra il suo Ajax e i bianconeri, vinta da questi ultimi ai rigori anche dopo un suo errore dal dischetto davanti ad Angelo Peruzzi. La coppa con le orecchie poi per lui, nonostante la valanga di successi, rimarrà una chimera. O forse un piacevole ricordo di giovinezza.

Dichiara di aver sempre seguito la Juventus, e considerando che a Torino si è fermato per otto anni gli si può credere. Ha vinto tre scudetti (l’ultimo nel 2002-2003) e giocato da titolare due finali amare, quella del 1998 col Real Madrid non ancora galactico, proprio nella cara vecchia Amsterdam, e quella del 2003 di Manchester col Milan, che non finì nemmeno a causa di un infortunio nel secondo tempo. Nei confronti dei rossoneri Davids ha provato sempre un senso di rivalsa peculiare dei migliori che si vedono scartati. A farne le spese nell’estate del 2002 è Cosmin Contra, il terzino destro milanista che al Nereo Rocco di Trieste, in occasione del Trofeo TIM, si trova coinvolto in una pirotecnica rissa con l’olandese, definito poi «un violento con tanto rancore».

Nell’estate del 1999 al Pitbull viene diagnosticata una malattia grave all’occhio destro, il glaucoma. Dopo essersi operato a Nantes si vede costretto a giocare con gli occhiali protettivi speciali (ci è voluto un po’ per metterli a punto, tra l’altro, dato che all’inizio per stessa ammissione di Davids «si appannavano») che da allora diventeranno il suo biglietto da visita in campo e in tanti fortunati spot Nike, il segno distintivo di un campione serioso e schivo, quello che alla nascita del proprio primogenito non dice nulla ai compagni di squadra, generando in loro dichiarate e ossimoriche ansie riguardanti l’opportunità di congratularsi con lui. Di Davids, non a caso, è rimasto un profluvio di aneddoti e boutade: nel 2002 rimarcava: «non vado al bar a prendere un caffè con Moggi, e mai ci andrò». Una volta Paolo Montero ha ricordato quel pre-partita di uno Juventus-Piacenza in cui il Pitbull gli si era avvicinato guardingo e gli aveva chiesto a bassa voce «scusa, sai mica contro chi giochiamo oggi?». «Poi fu il migliore in campo», ha precisato il difensore uruguaiano. E le gare di freestyle con Zinedine Zidane, che proseguivano per ore dopo ogni sessione d’allenamento, quando non per le strade di Torino, dove – parole dello stesso Zizou – Davids «quando vedeva qualcuno giocare in un parcheggio si fermava per aggregarsi»?

L’idillio tra Juventus e Davids finisce in un rapporto difficile tra due personalità ingombranti come quelle di Marcello Lippi e il campione olandese, messo in ombra da nuovi arrivati e obiettivamente difficile da gestire. Nella seconda parte della stagione 2003/2004 va in prestito al Barcellona di Guardiola, esperienza che definirà «indimenticabile» e gli permette di riunirsi al vecchio amico Kluivert. Gioca bene, ma a fine anno torna a Milano sponda Inter. Sarà un’intrinseca idiosincrasia per la città, ma anche qui il Pitbull è l’ombra di se stesso: appena 14 presenze, nessun goal e tante aspettative tradite. Nel 2005 arriva a titolo gratuito al Tottenham, dove però a volte gioca a sinistra, e spesso non viene nemmeno impiegato. Il coach degli Spurs Martin Jol nel gennaio del 2007 si schermisce: «Ho fatto molte litigate con lui, in Olanda è una leggenda e vuole giocare». Alla fine torna ad Amsterdam, con indosso la maglia che l’ha lanciato nel calcio che conta, e ritrova la sua incidenza da fuoriclasse, arrivando a un soffio dal far vincere il campionato ai Lancieri. La stagione 2007/2008 si apre con un brutto infortunio alla gamba che lo tiene fuori per tre mesi, pregiudicando le sue prestazioni e portandolo infine ad annunciare il suo primo ritiro. Dopo un accordo saltato con il Leicester alla fine del 2009, nel 2010 Davids decide di provare la formula pay-as-you-play con il Crystal Palace, ma il sodalizio dura poco più di due mesi.

Nel 1996, agli Europei, venne rispedito a casa dopo aver dichiarato che l’allenatore Hiddink «should stop sticking his head up other players’ arses».

Con l’Olanda Edgar Davids ha vinto tutto ciò che c’era da vincere, anche se non sono mancate pagine meno felici. Nel 1996, agli Europei inglesi, il Pitbull viene rispedito a casa dopo aver dichiarato alla stampa che l’allenatore della nazionale, Guus Hiddink, «should stop sticking his head up other players’ arses». È anche uno dei leader di una delle due fazioni in cui in quei giorni lo spogliatoio Oranje era diviso, la kabel, ovvero il gruppo dei più giovani atleti di origine africana (i già citati Kluivert, Seedorf, Reiziger, Bogarde) che avevano iniziato a lamentare presunti trattamenti di favore dei compagni più esperti – e bianchi. Una foto iconica e discussa di un pranzo della squadra vede i due gruppi nettamente divisi persino nei posti a sedere a tavola.

Non un ottimo spot antirazzista

Nel 1998 Hiddink continua comunque a dargli fiducia – difficile ignorarne i progressi, d’altronde – e il centrocampista lo ripaga giocando un Mondiale semi-perfetto, infrantosi solo sul Brasile in semifinale, ed entrando tanto nell’undici migliore del torneo quanto nella memoria dei tifosi, con quella corsa ad abbracciare Van der Sar dopo la vittoria ai quarti con l’Argentina. Dopo aver abbandonato la Nazionale nel 2009, il Pitbull ha giocato tre partite con il Suriname, quasi a volersi ricongiungere con le sue origini in un imprevedibile cammino di ricerca esistenziale.

In tempi più recenti Davids è tornato a vestirsi di arancione giocando con la maglia del Barnet FC, squadra di Conference Premier, la quinta serie inglese, di cui è diventato allenatore-giocatore nell’ottobre del 2012. Poco più di un anno dopo ha lasciato ufficialmente e definitivamente il calcio, lamentando di essere «preso di mira» dagli arbitri del campionato, che gli avevano sventolato un cartellino rosso davanti al viso per tre volte in otto partite. Oggi, a 42 anni, è ambasciatore del brand Juventus nel mondo, ha una sua linea di moda, Monta Heritage, e dice di essere ancora affezionato all’Italia. Su Twitter fino a poco tempo fa la sua bio recitava il più perfetto compendio filosofico di una vita da Edgar Davids: «I was and now I am». Una volta alla solita, canonica domanda su quale fosse il giocatore più forte che avesse mai incontrato, rispose – immagino con la solita insofferenza latente per le interviste, senza dispensare sorrisi finti o gesti affabili – nella maniera più sincera possibile: «Me stesso».

 

Nell’immagine di testata, Davids agli Europei del 2000, in un match contro la Francia (girone D). Graham Chadwick /Allsport