Doveva essere un martedì. O forse è successo di lunedì. Daniel Osvaldo cammina lento e deciso, oscilla nella sua andatura di bambino cresciuto troppo in fretta. C’è Julio con lui. Qualche ora prima Olarticoechea è andato a prenderlo e si è raccomandato: «Portati una tua maglia dell’Huracán, lui la vuole». Dopo sono saliti in macchina e senza dire troppe cose hanno cercato l’appartamento a Lanús. Lentamente, un isolato alla volta. Il sole d’Argentina illumina sempre tutto, anche le anime di questi due pellegrini del fútbol. Quando arrivano davanti alla porta e suonano il campanello, Maradona è lì che aspetta. Ha il sorriso buono e affettuoso di certi padri che conoscono il segreto della felicità. «Hola Daniel», dice facendoli entrare. Osvaldo ha diciassette anni, la testa rasata, e le braccia non sono ancora una mappa tracciata con segni d’inchiostro. «Hola Daniel. L’altro giorno ho visto la tua partita, sei bravo». I due si guardano. Daniel gli regala la maglia, trema. Poi scoppia in un pianto inconsolabile, e l’abbraccio tra il giocatore più forte del mondo e la giovane promessa dell’Huracán riempie le distanze generazionali. È il 2005, l’infanzia di Osvaldo si ferma lì. Adesso che gioca nel Boca le lancette della sua vita sono tornate indietro di qualche anno. «La mia infanzia interrotta è in Argentina. I miei amici sono lì, quella è casa mia».
L’irrequietezza
Il giorno che atterra a Bergamo, con la valigia di cuoio e il giubbotto imbottito di lana grezza, è il suo compleanno. Vent’anni. A quell’età la vita o tende all’esuberanza oppure hai già mandato l’incoscienza in pensione. Chi ciondola tra questi due estremi vive in un profondo stato di irrequietezza, e Daniel è fatto così. In più Zingonia non è Hollywood, figuriamoci Buenos Aires, e a gennaio è anche peggio. Nevica. La solitudine è troppo silenziosa da ingoiare sognando un orizzonte. «Ho visto per la prima volta la neve. Sentivo freddo. Soprattutto mi sentivo solo, e allora non facevo altro che piangere». Le stanze d’albergo possono diventare galere di lusso, con i letti soffici, le abat-jour da suite francese, i frigobar imbottiti di lattine in miniatura. Quelle di Zingonia, poi, sorgono in mezzo al niente, e a Daniel sembra un’Alcatraz a quattro stelle. «Ho chiamato il mio procuratore: “Dove mi hai portato?”, gli dicevo. Volevo andare via». Invece resta. Chiama Ana, la sua ragazza che è incinta, e le chiede di raggiungerlo. Ma le cose non migliorano: piangono in due.
Zeman lo nota durante una partita di Primavera, un derby, Brescia-Atalanta, e lo vuole con sé a Lecce per l’anno che sta arrivando. Ma in Serie B ci sono anche la Juventus e il Napoli, troppo forti per azzardare una promozione in A. Così la dirigenza giallorossa decide di mettere insieme un gruppo di giovani ambiziosi. C’è anche Osvaldo. Quell’anno, il 2006, segnerà 8 gol. Poi passa alla Fiorentina. Una stagione e mezza, troppe panchine. D’altra parte davanti a lui ci sono Mutu, Gilardino, Vieri e Pazzini. Una volta manda a quel paese Cesare Prandelli, prende a calci una bottiglietta, urla, sbraita. «Deve imparare a controllare le emozioni», dirà l’allenatore. Ma il punto è che Daniel non sente la fiducia. Dirà: «Forse i tecnici che ho avuto non amavano i ragazzini». Allora se ne va, ci riprova a Bologna: un altro giro. Arriva a gennaio per sette milioni di euro. È uno sproposito per la piazza, la città è in delirio. Durante il ritiro estivo Osvaldo fa a cazzotti con Mingazzini. Un diverbio finito male, niente di che. Ma l’armonia si spezza. Osvaldo si scusa. Offre una cena per riparare al danno, ma serve a poco: quando Daniel rompe, rompe e basta.
Novembre 2011. Osvaldo è già diventato un attaccante dell’Italia, e dopo aver incontrato Pochettino e aver fatto benissimo all’Espanyol lo ha preso la Roma. Durante la partita contro l’Udinese un altro argentino, Lamela, non gli passa un pallone. Quando scendono negli spogliatoi i due regolano i conti. Osvaldo vuole sapere perché diavolo non gli ha passato quello stramaledetto pallone. Lamela tace. «Io sono più grande di te e questo non è il River, rispondimi quando ti parlo», gli urla Osvaldo. Allora Lamela lo guarda con l’aria da smorfioso: «Chiudi la bocca e falla finita, non sei mica Maradona». Un’altra cena, un altro addio. Il finale lo scrive in un tweet la sera della sconfitta in Coppa Italia contro la Lazio quando si scaglia contro Andreazzoli che lo aveva lasciato in panchina per tutto il primo tempo e per un po’ del secondo. «Facevi più bella figura se ammettevi di essere un incapace. Vai a festeggiare con quelli della Lazio, va’…». Prandelli, che è diventato ct della Nazionale, lo lascia a casa dalla Confederation Cup. Pochi giorni, e Osvaldo se ne va dalla capitale per tentare un’altra avventura, questa volta al Southampton.
Nel libro dello scrittore argentino José Pablo Feinmann, L’esercito di cenere, a un certo punto il colonnello Andrade fa chiamare il cercatore di tracce Baigorria. Gli uomini si sono accampati per la notte, sfiniti, dopo aver percorso a cavallo il deserto senza aver incontrato nemmeno l’ombra di un nemico. Baigorria accende un sigaro e dice: «Non mi tolga la fiducia, colonnello. Abbiamo seguito la pista». «Perché ne è così sicuro? Ce n’erano altre». «Non portavano al nemico». «Nemmeno la nostra», dice il colonnello. Allora Baigorria alza gli occhi e risponde: «La nostra sì. Ma il nemico si trova sempre dove la pista finisce, colonnello. Mai prima». Tutte le volte che Osvaldo è arrivato alla fine di una strada ha trovato dei nemici. Mingazzini, gli allenatori, Lamela. Se stesso. All’Inter i nemici si chiamano Icardi e Mancini. Un altro passaggio chiesto e non ricevuto, un’altra panchina di troppo, e quella tensione emotiva scoppia come una pentola a pressione. «Significa che non sento più il rispetto della mia persona, e allora mi passa la voglia di stare lì». L’ultimo volo lo ha preso per l’Argentina, per andare a giocare nel Boca.
Dentro la musica
Dandy, superbo, chic, quello che si chiama un signor eccentrico, dalla stirpe dei sudamericani belli e maledetti Osvaldo fa la sua maestosa apparizione in campo. I capelli racchiusi in uno chignon o in una fascetta blanda, i tatuaggi, la barba selvaggia. Un renegade urbano, uno macho metropolitano. Ma la vera irriverenza la mette a nudo lontano dagli spogliatoi, e piace. Una volta ha detto: «Il calcio è la mia sosta. Io corro, fuggo non so dove. Vorrei essere un pirata, avere altre isole, ho bisogno di fantasticare». Novanta minuti di pausa, ecco cos’è il calcio per Osvaldo. Il resto è espressione, ricerca del sé e dei perché, immersione nell’irreale. Daniel scrive poesie e canzoni. Suona la chitarra. Ai tempi di Firenze frequentava i locali più in, l’Otel, l’Yab. Quando era a Milano andava a Bologna a trovare il suo amico Franco Zuculini, argentino come lui, che in due anni ha imparato a suonare il pianoforte perché era infortunato e non aveva di meglio da fare. Passavano le serate ad ascoltare i pezzi rock e quelli jazz, a interrogarsi sull’esistenza, a chiedersi se la politica è rivoluzione o soltanto volgare spettacolarizzazione del potere. Furbizia, magari.
Ammira il cantautore spagnolo Joaquín Sabina, il musicista cubano Silvio Rodríguez, e asseconda quel richiamo nostalgico, l’eco lontana dalla terra natia. «Ci sono giorni in cui mi sento triste, vorrei essere un’altra persona, perdermi nel mondo. Ho nostalgia dell’Argentina, di Baires, di Lanús. Quando sto con i bimbi però il mondo non esiste. Imparo a essere padre, loro mi aiutano. Chissà se un giorno riuscirò a unire tutta la famiglia. Mi mancano, a me manca sempre qualcosa. Anche il mio paese». Quando ancora non era nessuno si metteva la chitarra in spalla e andava giù a Plaça de Catalunya, a Barcellona, con un amico che faceva ritratti. Quello disegnava, lui strimpellava. «È affascinante la semplicità», ha detto una volta. Ed è forse questa la più grande contraddizione di Osvaldo. «La coscienza domina, ma non governa», diceva Paul Valéry. E allora che cos’è che governa Osvaldo?
Nel calcio, forse, quel senso di pienezza malinconica. Una volta, a inizio carriera, accarezzò un rigore con il cucchiaio. Era una delle prime partite con la maglia del Lecce. Zeman, apparso dal fumo di un’altra Marlboro, gli disse: «Osvaldo. Prossima volta che c’è rigore voglio vederti a cinquanta metri». Hanno sempre cercato di ingabbiarlo in ciò che definiamo normale. Chi bonariamente, chi con la frusta. Ed è strano come il più bel gol della sua carriera sia rimasto un’ombra di reale. Annullato per fuorigioco, paccottiglia per moviolisti. Succede all’Olimpico. La partita è Roma-Lecce. A un quarto d’ora dalla fine Gago alza la testa e fucila un cross per Osvaldo, il resto ce lo ricordiamo tutti. Come un pezzo dei Pink Floyd o degli Stones. «Quando posso, rovescio». È il suo riff. Tutto è musica, in Osvaldo. Vibrante, trascinante, bellissima «Le gioie durano poco» ha detto, «ma esiste la possibilità della rivincita. Se perdi cinque partite continui a giocare, se scrivi alcuni brutti dischi finisci per suonare nel garage di casa tua».
L’amore dura tre anni
E se cambi dieci maglie? Perché continui a giocare? Fino a quando continui a provarci lontano dal campetto di casa? «Sono lunatico: un giorno mi sento forte, un altro scarso. Lotto, segno, reagisco. Tutto all’eccesso. Sono stato costretto a crescere, ma c’è una parte di me dentro che rifiuta l’idea. Ho un carattere di merda». Da piccolo guardava il mondo da un finestrino. Due ore di autobus per andare al campo e due per tornare a casa. Le monete gliele dava il padre, che faceva l’operaio e i sacrifici. I due litigarono. Papà voleva che continuasse a studiare, perché se studi dopo puoi scegliere chi diventare davvero. Ma Osvaldo aveva altri progetti, altre curiosità. «Trovare qualcuno che capisca inclinazioni e curiosità è complicato. La scuola non ha tempo, né mezzi. Non differenzia gli allenamenti». Quella del calcio è stata per lungo tempo una chance, una strada, da fare correndo.
Quando gli hanno detto che lo volevano al Boca, Osvaldo si è fermato: deve aver visto una possibilità di rinascita. Ha detto sì dopo una lunga chiacchierata con Tévez. «Sono contento e nervoso», spiegò divincolandosi tra la folla che lo stava aspettando all’aeroporto di Buenos Aires. «Se va tutto bene realizzo il sogno più grande della mia vita». E alla prima conferenza stampa: «Indossare la maglia del Boca per la prima volta è incredibile. Ancora non ci credo. Mia moglie mi prende in giro, dice che sembro un bambino…». Da quelle parti sono abituati a valutare due tipi di giocatori: i ragazzini pieni di talento, e quelli che il talento sta per invecchiare. Osvaldo, a 29 anni, è qualcosa di diverso. Un prodotto maturo, né acerbo né marcio. E in lui gli argentini devono aver visto il figliol prodigo tornato a casa dopo nove, lunghi anni e un lento peregrinare per l’Europa. I gol in Libertadores hanno fatto il resto. Così, questa storia potrebbe finire qui, adesso, con Osvaldo gloria d’Argentina, con il godimento della Bombonera stracolma di gente, i coriandoli che volano, il sole che abbraccia sempre tutti, e Daniel fiero di quella stabilità che per tanto tempo aveva inseguito. Ma non sarebbe il finale perfetto. Perché d’altronde, come ha scritto Beigbeder, uno dei suoi narratori preferiti, l’amore dura solo tre anni.
Nell’immagine in evidenza, Osvaldo esulta dopo aver segnato con la Roma, nel 2013. Paolo Bruno/Getty Images