Nemici come prima

L'ennesimo Clásico è l'ennesima sfida tra le stelle del calcio. Una sfida che non è mai esistita nel calcio, così costante, così presente, così palese. I due più forti del mondo, nella stessa era, nello stesso campionato. Anatomia di un duello.

C’è stato un momento in cui Barcellona-Real è diventata Messi contro Ronaldo. È stato a Roma, nella finale di Champions League del 2009 e il Madrid non c’era. Era Barça-Manchester United. Vinse Messi con Cristiano sconfitto e distrutto. Per qualcuno ridimensionato. Stava per passare al Real, però. Come una vendetta non dichiarata. Sono cinque anni che il derby del mondo è una sfida tra due giocatori, una rivalità individuale che s’interseca nella rivalità globale che questa partita rappresenta. Non c’è precedente nella storia del calcio. Se vuoi un’analogia devi andare indietro a Celtics-Lakers, ovvero a Larry Bird-Magic Johnson.

Uno contro uno dentro il tutti contro tutti. Fate sparire gli altri. Non è Castiglia-Catalogna, non è globale contro locale. Non c’entrano le città, non ci sono le filosofie, non c’è la questione dei galácticos contro il culto della cantera. Real Madrid-Barcellona è Messi-Ronaldo. Punto. Il resto è un corollario, il contorno, la scenografia che rende ricco il palcoscenico. Il Camp Nou o il Santiago Bernabeu sono come il ring del Madison Square Garden o i tornanti dello Stelvio, o la pista dei 100 metri o il parquet a scacchiera del Boston Garden, o la curva di Suzuka, o l’erba di Wimbledon. Ciò che lo sport ci ha dato nelle discipline individuali e che raramente regala in quelle di squadra. L’ha fatto nel basket, lo sta facendo nel calcio ora. Un duello: dieci passi in direzione opposta, poi sparate. Vince il migliore oppure no. Perché tanto c’è il tifo che mescola le carte, che mette in dubbio eventuali gerarchie, che relativizza l’oggettività. Ognuno ha il suo preferito, ognuno si appropria del suo campione e lo elegge numero uno. È uno scontro di modi di essere e di modi di giocare. Messi si trascina contro Ronaldo tutta la parte di mondo che lo ha scelto. Uno simbolo degli anni 2000-2010, l’altro simbolo del nuovo decennio. E però non è che Leo sia sparito. È lì, anzi oggi, adesso, alla vigilia di questo Clásico sta anche meglio.

È qui che ricomincia ogni volta Real-Barcellona. Perché mezzo mondo tifa Messi e mezzo mondo tifa Ronaldo. Si può anche non scegliere, si può anche starne fuori, però a un certo punto sono loro che ti vengono a cercare: tu sei del partito di Leo o di quello di Ronie? Nordisti-sudisti, conservatori-progressisti. Siamo sempre lì. Siamo a Coppi e Bartali, a Prost-Senna, siamo a Federer-Nadal. Lo schema è uguale, ogni volta. La semplicità dello sport complicata dalla sovrastruttura che lo rende molto altro. Il calcio è sfuggito sempre, o quasi, a sfide così, abituato a consegnare ciascun decennio della sua storia a uno: i Sessanta di Pelé, i Settanta di Cruyff, gli Ottanta di Maradona, i Novanta di Ronaldo. Il confronto nel pallone è generazionale, non contemporaneo. L’eterno Bar Sport che si divide tra Pelé e Maradona, con la teoria della velocità del gioco, con la retorica del “Pelé ha giocato sempre e solo in Brasile” o l’altra del “Maradona non era completo come Pelé”. Per caso, per fortuna o per suo specifico codice genetico, il calcio ha evitato confronti diretti. L’unica rivalità avvicinabile a quella Messi-Cristiano è stata Platini-Maradona. Nella stessa era, in contemporanea, sono stati il Sudamerica contro l’Europa, sono stati entrambi italiani, tutti e due hanno lottato contro il sistema del pallone, sono stati stranieri, sono stati fenomeni. Hanno vissuto, ognuno a modo suo, la stessa stagione. Uguali nel ruolo, opposti nell’intepretazione. Uguali nella personalità, diversi nel modo di usarla. Uguali nel carisma, differenti nel carattere. Il campo non è mai finito: che fosse Juventus-Napoli o Francia-Argentina loro sono sempre lì, protagonisti di una commedia che usa personaggi veri per essere reale. Si cercano, si annusano, si beccano. La polemica durante il Mondiale del Sudafrica del 2010 è stata l’esempio. Chiesero a Platini un commento su Maradona allenatore: «Diego commissario tecnico? È stato un grande giocatore». La risposta: «Michel è un francese. Sappiamo tutti come sono i francesi: lui crede di essere chissà chi, ma io non gli ho mai dato importanza».

Maradona e Platini nella stagione 1986/87. Via Wikimedia
Maradona e Platini nella stagione 1986/87. Via Wikimedia

Nemici come prima. Perché c’è stima anche se a volte non si vede. Perché c’è timore di colpire l’altro, anche se a volte sembra il contrario. Sono rimasti calciatori. Sono rimasti bambini. Eccoli oggi, come allora. Due dimensioni dello stesso talento: chi sa calciare meglio le punizioni, Maradona o Platini? Saremo ossessionati per altri decenni con domande così. Non si risponde per competenza, ma per passione. Ognuno ha la sua preferenza, senza possibilità di mescolare. Perché Michel e Diego non s’incontrano neanche se cerchi di metterli insieme a ogni costo. Uno era razionale, l’altro istintivo. Uno alto, l’altro basso; uno gambe lunghe, l’altro corte; uno magro, l’altro con la tendenza a ingrassare. Michel è ancora un ironico riflessivo, Diego è uno sprezzante impulsivo. Si sono completati senza neanche saperlo: Maradona avrebbe avuto bisogno di un po’ dell’intelligenza lucida di Michel e Michel avrebbe avuto bisogno dell’incoscienza di Diego. Lo dice la storia, ma non loro. Provate a chiedere a Maradona se gli sarebbe potuto servire qualcosa di Platini. Poi chiedete a Platini se avrebbe desiderato qualcosa di Maradona. Nessuno ha il coraggio di ammettere che insieme sarebbero stati la perfezione.

L’unico caso nella storia del pallone in cui due numeri dieci della stessa era, al netto delle personalità, avrebbero potuto giocare nella stessa squadra. Perché gli universi paralleli stanno nelle loro teste e nei loro piedi. Diego è mancino, Michel destrorso, però non è questo che li rende complementari eppure impossibili da far stare nello stesso stampo: è l’idea di calcio che ognuno dei due ha. Perché Michel era un genio gestito, Diego un genio ingestibile. Perché Platini ha smesso quando era al massimo della carriera, Maradona ha accettato di sprofondare nel reducismo da campionissimo invecchiato male.

Ronaldo-Messi entra in scia, come ha scritto il País Semanal di qualche anno fa. Real-Barcellona è un contenitore che alimenta il confronto. Lo spinge, lo fa crescere, lo esalta. Lo stile personale del calciatore viene associato a quello della squadra d’appartenenza così da rafforzare l’idea di uno scontro che non riguarda solo il pallone. Perché è così ogni volta che c’è un Clásico, figurati adesso che ci sono loro due. Messi diventa l’icona della mentalità Barça: prendo un ragazzino, lo allevo, ci credo, lo butto, lo trasformo in eroe multitasking e multimediale. Ronaldo, invece, è e resta l’emblema dell’imperialismo Real: il giocatore con il cartellino più pagato della storia del calcio con i suoi 97 milioni di euro. Non è vero che il Barcellona non lo avrebbe mai preso. Non è vero e infatti lo voleva. È finito al Real perché quando è stato messo in vendita, il Madrid era la squadra che poteva pagarlo di più. Lo stile, l’approccio, l’ideale calcistico che rappresenta arrivano dopo. Ci sono adesso che il Clásico bussa alla porta.

Ronaldo-Messi è la sfida che s’è presa la coda del vecchio decennio e si prenderà metà di questo. Arrivano via satellite ogni weekend in diretta. Ciò che non avveniva per gli altri, avviene oggi. Sai che ci sono, in Spagna e ovunque. Perché arrivano in contemporanea e sprigionano quello che hanno e quello che è nello stesso istante in tutto il globo. Sono la versione migliorata di qualcosa cha abbiamo già visto a una velocità superiore. Sono atleti, oltre che calciatori. A prescindere dal fisico: quello di Ronaldo ne è la dimostrazione plastica, nello di Leo no. Resta la modernità di un ruolo che tutti vogliono romanticamente riportare in bianco e nero: dicono che sia la purezza del calcio come dovrebbe essere, quindi com’era, del pallone senza freni e senza troppe regole, senza tattica. Il trionfo della fantasia, l’umiliazione della potenza da parte della tecnica. Però Cristiano e Lionel corrono. Corrono perché gli hanno chiesto di farlo, perché senza corsa non sarebbero i più forti del mondo. Messi veloce coi piedi, veloce nella testa. Tutto quello che sembra e che invece non è: dicono sia un marziano in un mondo fuori misura per lui, invece la verità è che è diventato quello che è solo perché è perfetto per il pianeta che abita. È la genialità mai fine a se stessa, ma adagiata su uno schema, su un’idea, su un modo di stare in campo. È il campione di tutti perché non assomiglia a nessuno di quelli che l’hanno preceduto. Non c’entra con Maradona, per esempio. Diego era la squadra, Leo è il più forte di una squadra: non esisterebbe senza gli altri, non sarebbe lui fuori da un contesto. Messi è quello che esce se spremi il Barcellona e tiri fuori il succo: dolce, sensuale, perfetto, raffinato.

Messi e Ronaldo durante la Supercopa del 2012. Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images
Messi e Ronaldo durante la Supercopa del 2012. Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images

Ronaldo è spavaldo, deciso, sicuro: vieni avanti toro, perché non mi fai paura. Corre diversamente da Lionel: più lungo, più forte, più potente, più da velocista. Ronie è uno di quelli che se non avesse fatto il calciatore, avrebbe comunque sfondato nello sport. Messi no. Messi senza palla è come Michelangelo senza scalpello. Cristiano è più uomo. Domina le città attraverso i suoi poster a torso nudo: è l’ultima icona dello sportivo patinato, modello e modellato, costruito fuori dal campo più che sul campo.

Messi lo insegue: chiunque dica che non è interessato sa di mentire. Ha firmato per diventare testimonial di Dolce & Gabbana: posa da neofighetto, si prepara al debutto su Photoshop per apparire più bello di quello che è. È che non vuole lasciare spazio al rivale entrato da tempo nella squadra degli uomini immagine di Giorgio Armani. Il derby non finisce neanche quando lo spogliatoio del Santiago Bernabeu o del Camp Nou è chiuso. C’è. C’è in ogni momento, perché vale milioni e tiene alta la tensione emotiva del pallone. Allora per reggere il gioco bisogna prenderli ed estremizzarli. Basta prendere la superficie, in fondo: Messi così diventa il talento limpido e naturale, da opporre alla forza e alla potenza di Ronaldo. Il confine serve a rafforzare l’appartenenza, come con Senna e Prost no? Ayrton era la classe, Alain era il calcolo. Si stava con uno o con l’altro, per semplicità e per alimentare la rivalità. Andava bene a tutti, come è per le altre grandi sfide tra sportivi. Andava bene anche a chi per tutta la vita ha dovuto fare la figura del meno talentuoso: nel caso della Formula Uno era Prost, nell’atletica è successo a Carl Lewis.

 

Perché prima di scoprire che Ben Johnson fosse dopato, il mondo di quelli giusti l’aveva eletto a suo mito: il canadese che da solo umiliava gli Stati Uniti di quell’altezzoso e altero Lewis, l’America imperialista di Reagan, gli Usa che dominavano le Olimpiadi dal primo all’ultimo giorno. Johnson era la leggenda del povero che metteva in riga i ricchi. I guai di Ben col doping hanno smontato l’impalcatura che gli avevano costruito addosso. Adesso quella costruzione è sulle spalle di Leo Messi: una Pulce che da sola deve smontare la boria del Real e di Ronaldo. A Cristiano resta il ruolo di campione un po’ antipatico. Ronie ci sta, per carattere, per spirito di contraddizione e perché un po’ antipatico lo è davvero. Diverso e simile a Messi. Il derby rimarrà eterno, sarà uno strato di panna montata su una torta che ha un sapore inaspettato. Perché Leo e Cristiano sono così e però sono diversi da quello che appaiono. Si muovono in modo differente, pensano in modo differente, giocano in modo differente, però sono entrambi una magia impostata, tutti e due geni naturali fino a un certo punto. Non c’entrano con la retorica: i nostalgici del pallone degli anni Ottanta li prendono a esempio di come dovrebbe essere il calcio oggi. Un po’ come allora, dicono. Il trequartista piccolo e agile e l’ala veloce e un po’ irascibile. Messi e Ronaldo, invece, sono figli legittimi del loro tempo, oltre che del loro spazio. Chi vince è il migliore, forse. Il più bravo lo decide ognuno di noi, a seconda di diverse variabili: chi è, che cosa vota, che cosa pensa della vita. Messi e Ronaldo sono attori. La sceneggiatura l’ha scritta il calcio: uno qui, uno lì. Uno bianco, l’altro nero; uno tecnico, l’altro potente. Così il clasico è ancora più clasico. La semplicità vale sempre.

 

Una versione più lunga di questo articolo è stata pubblicata su Il Foglio
Nell’immagine in evidenza, due magliette fuori dal Bernabeu prima del Clásico del marzo 2014. Denis Doyle/Getty Images