Lucas Biglia è un indecifrabile. O forse lo era. Nell’estate 2013, quando arrivò a Roma, lo scetticismo naturale che i tifosi della Lazio riservano a qualsiasi nuovo acquisto aveva potuto ingrossarsi facilmente: l’aspetto mite e curato, la sola esperienza europea in un campionato modesto, e un soprannome (El Principito) così pieno di fragilità. Nei primi mesi tutto questo si combinò alla difficile interpretazione del suo posizionamento in campo. Si parlava di un regista, di un vice-Ledesma, ma giocava troppo facile e non azzardava mai la profondità; si diceva fosse un mediano di rottura, anche, ma non dimostrava un carattere gagliardo. Verso la metà di quella prima stagione, così, in molti l’avevano già qualificato come bidone da otto milioni. Il girone di ritorno aveva migliorato le cose, ma otto milioni continuavano a sembrare troppi.
Poi c’è stato il Mondiale in Brasile. Tra girone e ottavi Biglia ha messo insieme pochi minuti, ma la partita dei quarti l’ha giocata da titolare e per intero, e ha giocato anche la semifinale contro l’Olanda fino ai calci di rigore, e addirittura è stato negli undici della finale contro la Germania. Lì, chiunque lo avesse considerato al massimo un giocatore normale, ha impattato contro una prospettiva nuova. Quando è rientrato a Roma, El Principito suonava diverso. Ma soprattutto era diverso l’allenatore della squadra. Se pure l’anno prima, con Petkovic e Reja, aveva giocato parecchio (32 presenze, 2.483 minuti), il nuovo mister Pioli gli ha dato tutta la luce. E i suoi tifosi hanno iniziato a decifrarlo. Biglia nasce nel 1986, a dieci anni dall’inizio della dittatura militare di Videla e a cinque anni dalla sua fine. Nasce in una cittadina della pampa, cento chilometri a ovest di Buenos Aires, una cittadina di cinquantamila abitanti che si chiama Mercedes, la cittadina dov’è nato Videla.
La famiglia è di origini italiane, i nonni arrivarono in Argentina dalla provincia di Firenze. Ha quattro fratelli e un legame strettissimo con il padre, Miguel Ángel “Pego” Biglia. Strettissimo è anche il rapporto con la sua cittadina. Lo chiama «mi lugar», il mio luogo. Una volta spiegò con asciuttezza: «Ho le mie vacanze, e le mie vacanze sono a Mercedes». Ed è proprio lì che va due giorni dopo la finale Mondiale. Riceve l’abbraccio di ventimila persone, come se avesse vinto: si affaccia in felpa dal balcone del palazzo comunale, parla con un microfono che fa le bizze, è una festa semplice. Poteva andare dappertutto ed è andato nel suo luogo.
Comincia nelle giovanili dell’Argentinos Juniors. Sono le giovanili dov’è cresciuto Diego Armando Maradona, ovviamente. Ma anche Fernando Redondo, l’idolo di Biglia da ragazzino, un giocatore al quale Lucas si ispira tanto da finire per essere chiamato El Principito, dove quello era El Principe. C’è anche una storia diversa, falsa e suggestiva, che vorrebbe far derivare quel soprannome da un altro “Piccolo principe”, Franky Vercauteren, leggenda dell’Anderlecht. All’Argentinos Juniors, Biglia raggiunge la prima squadra (2003-2005), esordendo in un trionfante spareggio che promuove il club nella massima serie. Ma nonostante la stima giocherà a singhiozzo, considerato acerbo. Così, nel gennaio 2005, va in prestito all’Independiente de Avellaneda, una squadra più attrezzata e una vetrina migliore. In effetti quell’anno e mezzo ha tutto del trampolino: 49 presenze in Primera División, e una medaglia d’oro ai Mondiali Under20 con la Nazionale albiceleste, dov’è stato convocato insieme a gente come Messi, Zabaleta, Lavezzi.
L’Europa non può che spalancarsi. Ci arriva a vent’anni, nell’estate del 2006, ma la destinazione è tutt’altro che scontata: l’Anderlecht è una squadra che non ha grande tradizione di argentini, una squadra che di solito i giovani se li cresce in casa. L’impatto è sorprendente: un anno dopo, al termine della sua prima stagione europea, Biglia riceverà il premio come miglior giovane del campionato belga. Nel sobborgo di Bruxelles si trova tanto bene che ci resta per sette anni (287 presenze, con 16 gol e 49 assist). Come le radici nella sua Mercedes lo rassicurano piuttosto che soffocarlo, allo stesso modo Biglia non ascolta i corteggiamenti di squadre più luccicanti. È un sedentario fedele, ha bisogno di stringere un rapporto con i luoghi. Con l’Anderlecht vince quattro campionati, una coppa e quattro supercoppe del Belgio. Gli ultimi mesi sono però travagliati: l’inverno resta in Argentina e per un po’ smette di giocare, a causa di una depressione che lui stesso dirà essere legata alla morte del padre. La società gli manda un medico dal Belgio. È il gennaio 2013, “Pego” è morto il 12 luglio 2008, ma si sa che le ferite si riaprono di colpo. Il 13 luglio 2014, un anno e mezzo dopo quella fase depressiva, Biglia sta giocando da titolare la finale dei Mondiali in Brasile. In mezzo c’è stata la guarigione psicologica, l’approdo in Italia e una prima stagione complicata con i biancocelesti di Roma. Biglia è un indecifrabile. Per i lunghi mesi di quella prima stagione, i più cauti fra i tifosi se la sono raccontata così.
Non si prende rischi, spesso neanche va a prendersi la palla per impostare, ma al tempo stesso quella palla non la butta mai. Complessivamente, da quando è alla Lazio, la sua media di passaggi riusciti sfiora il 90%. Freddo e lucido come un regista, quindi, ma forse senza la personalità per tenere le redini. Eppure non è un giocatore tenero, in campo si fa sentire, ha numeri importanti sui contrasti vinti; dopo l’ammonizione che lo squalifica per il derby del turno successivo, si dispera come uno che ci tiene. Chi lo incrocia sul campo d’allenamento dice che ride poco, è ombroso, ma non timido; lui stesso dice che le risate se le tiene «per i momenti importanti». L’ipotesi del mediano di rottura non decolla: sembra sprecato per fare il rubapalloni. Si intuisce quello che il suo allenatore all’Independiente, il mitico Flaco Menotti, diceva di lui: «È tra i calciatori più tecnici che si siano visti negli ultimi anni».
Nella prima metà della stagione, con Petkovic, gioca come unico uomo davanti alla difesa. Reja, che prende la Lazio da gennaio a fine stagione, lo mette al centro affiancandogli Ledesma o lo sposta più avanti a mezzala. Nell’estate che segue, al Mondiale brasiliano, il ct Sabella lo sistema basso, al centro e in coppia con Mascherano. Queste tre partite sono le migliori di Biglia che i tifosi della Lazio abbiano mai visto. Restare figurativamente un passo dietro, la spalla del leader, fargli da scarico e restituirgli poi le chiavi dell’impostazione senza averle usate: ecco il ruolo di Biglia, si sono detti. Non ha la stoffa per condurre la squadra, è un giocatore tecnico ma pur sempre un gregario, è un palleggiatore e un generoso – in quella finale contro la Germania ha percorso più metri di qualunque compagno della Selección (14.682).
Così sembrava risolversi il mistero tattico. Qualcuno si chiedeva se Ledesma, con le dovute proporzioni, potesse essere il Mascherano della Lazio. Devono giocare insieme, Biglia e Ledesma, ribadiva qualcuno più sicuro. Poi è arrivato Stefano Pioli, come nuovo allenatore dei biancocelesti. Ed è arrivato un colpo di scena.
Oggi Biglia è il giocatore tatticamente più importante della squadra. Il 4-3-3 scelto da Pioli, propositivo fino allo sbilanciamento, si regge su di lui. Nei dieci anni di gestione Lotito, dopo una serie di allenatori prudenti, questa è la prima volta che la Lazio gioca sistematicamente con un centravanti, due esterni offensivi, due centrocampisti sempre pronti all’inserimento, due terzini che spingono e la difesa alta. El Principito non ha un cagnaccio che gli guardi le spalle né un costruttore al quale fare da scarico. Soprattutto non ha vicino Ledesma, che Pioli ha accantonato. Vero, c’è sempre una mezzala (di solito Parolo) che si abbassa per alternarsi con lui nell’impostazione. Ma all’improvviso Biglia gioca come il leader che non sembrava potesse essere. Questa nuova posizione così esposta, nel cuore di un centrocampo con il baricentro alto, questa responsabilità che Pioli gli ha consegnato, ha tolto le ombre che gli premevano intorno. Non meraviglia tanto la quantità di palloni che recupera, che smista con precisione, che non butta via. Piuttosto è la sicurezza con cui ha preso a lanciare, i tagli che indovina, la profondità che improvvisamente va cercando. Contro il Torino ha segnato il suo primo gol su punizione in Italia; nessuno si ricordava più di quando, un anno e mezzo prima, presentandosi a Roma dopo la firma del contratto, spiegava essere una specialità cui dedicava anche tre ore di allenamento settimanale. Gli riesce tutto. E mi piace pensare che sorrida di più, anche, perché in questi mesi ha conquistato un altro posto nel mondo.
Dal numero 3 di Undici