Immagina di tifare Sampdoria. Sampdoria: così, per dire. Probabilmente ti stai già immaginando di essere un genovese. Il tifo, nella nostra coscienza collettiva, è ancora legato al campanilismo. E fin qui, tutto ok. Ma perché tifi Samp, e non Genoa? Continuando l’esercizio, probabilmente ti immagini di provenire da una famiglia di doriani, di aver avuto un padre doriano, di aver visto le partite con lui da piccolo, o di averle sentite alla radio. Forse ti ha anche portato allo stadio, una volta, quando avevi sette, otto anni. Probabilmente ti ha regalato una maglia blucerchiata da piccolo, e da quel momento sei diventato tifoso di quella squadra. Funziona sempre così. È difficile immaginare di essere tifosi di una squadra diversa da quella di nostro padre. E non sto parlando dei cinesi che tifano Manchester United, o degli indiani che sui forum dicono di tifare Arsenal, Everton e Leeds. Parlo di calcio in italia, di calcio italiano, di città italiane. Di un tifo che è ancora, in qualche modo (escludendo, forse, quello juventino) legato alla città dalla quale veniamo. In questi casi, c’entra sempre il Padre.
È difficile immaginare di essere tifosi di una squadra diversa da quella di nostro padre.
O meglio: c’entrano quasi sempre i nostri padri. In un modo o nell’altro: ricordo di un amico d’infanzia, milanese, molto abbiente, che proveniva da una famiglia interista, e che cambiò squadra, passando al Parma, perché la sua tata era colombiana e quelli erano gli anni di Faustino Asprilla. Suo padre aveva abbandonato la moglie e i due figli quando il mio amico aveva forse cinque anni. Ricordo un altro amico di famiglia, il figlio di un amico di mio padre, un vero interista che trasudava Inter da tutti i pori, un uomo che si era ritrovato sconsolato: gli era nato un figlio milanista. Figlio che portava le bandiere del Milan in casa durante il derby, e le sventolava in salotto. Non riesco a immaginarmi un atto di sfida più forte di questo, per un bambino di otto anni. Sventolava la bandiera dei rivali di suo padre, in salotto, davanti alla televisione. Quale maniera più forte di imporre la propria indipendenza intellettuale ed emotiva, di ergersi a persona fatta e finita, che questa?
Io non ricordo un periodo della mia vita in cui non ero milanista. Mi ricordo una vecchia maglia bianca, maglia che mi immaginavo essere quella “di Rijkaard”, che era il mio preferito dei tre olandesi, perché era quello meno ovvio da tifare, quello con il profilo più defilato. Volevo distinguermi, non volevo tifare per quello che tifavano tutti gli altri, anche a quell’età. Guardavo le partite con mio padre, milanista convinto, di quei milanisti che faticano ad ammettere che perfino Ronaldo, ai tempi dell’Inter, fosse forte. Milanista da quando è sbarcato in Italia, da una nave che partiva da Alessandria d’Egitto e attraccava a Napoli, a quindici anni d’età. La prima memoria milanista che ho è una memoria di andare a San Siro con mio padre, a vedere Milan-Bologna, una partita che finì 6 a 0, con mi pare, 3 gol di Van Basten. «Francamente, non ricordo», mi ha detto mio padre. «Quando eri piccolo ti ho portato tre, quattro volte allo stadio, a vedere quel Milan, sarà stato quando avevi otto anni, sarà stato il ‘90, o il ‘91. Il Milan di Gullit, Rijkaard, Van Basten, Tassotti, Baresi, Costacurta, Ancelotti, quella gente lì. Io ti portavo solo a vedere le partite dove non c’era troppo tifo “forte” contro di noi, è per questo che ti ricordi di Milan-Bologna e non di un derby».
Ricordo anche le domeniche pomeriggio passate davanti alla Tv, sonnecchiando, mio padre seduto sulla poltrona che impreca contro l’arbitro. «Da piccolo-piccolo guardavi le partite con me, sì, ma comunque non ti interessava. Si vedeva. Ti addormentavi. O meglio, ti interessava perché ero milanista e volevi stare con me, e poi tu giocavi a calcio a scuola. Ma hai iniziato a seguirlo veramente a nove anni, dieci, forse». Mi chiedo se gli avrebbe dato fastidio, se io fossi nato interista. «Ma no, alla fine, mi sarebbe dispiaciuto, però, cosa vuoi farci? Non lo puoi forzare. Per te è iniziato come interesse, perché lo seguivo io, poi piano piano, con gli amici, e giocando a calcio, sei diventato milanista davvero, poi a dieci e undici anni volevi sempre andare allo stadio. A un certo punto era diventato un argomento fisso tra noi due, per stare un po’ insieme, per parlare, che ne so, di mercato, o di quell’attaccante lì, o quell’altro. Era una scusa per passare del tempo tra di noi».
Stare assieme, mi ha detto mio padre. È forse per questo che iniziamo a seguire il calcio? Ovviamente il fattore “collante sociale” del calcio, oggi, del calcio seguito dagli adulti, è importante. Come è importante il concetto tribale che sta alla base dello sport contemporaneo. Ma a cinque, sei anni, non siamo ancora così socializzati da ragionare in questo modo: i bambini non hanno bisogno del calcio per parlare con i loro amici. Ma ne hanno bisogno per parlare con i loro padri, figure che a quell’età sono praticamente mitologiche, dei giganti, nel mondo della nostra mente. Ne ho parlato con un amico, A.G., napoletano che non tifa per il Napoli. A.G. tifa Juventus, come suo padre. In un caso del genere, mi pare che il rapporto padre-figlio sia alla base della scelta di una squadra. «Il fatto che io venga da una famiglia di napoletani juventini è fondamentale, anche se la Juventus è comunque la seconda squadra della città», mi ha raccontato. «Ma mio padre stesso ha una storia complicata con la Juventus. Lui era abbonato del Napoli negli anni ‘60, e vide il Napoli di Sivori e Altafini che arrivò al secondo posto. Poi è stato folgorato da Platini, e da lì in poi ha seguito solo la Juve, e poi sono nato io, dal ‘78 in poi, e siamo stati juventini assieme. In casa, gli faceva piacere se io stavo accanto a lui a vedere la partita. Era un momento di condivisione. Ancora oggi, è così. Cerco sempre di vedere le partite con lui. È uno dei pochissimi momenti di condivisione che ci è rimasto. Fino a un certo punto, volevo essere un buon figlio». Ma non dev’essere facile essere tifoso della Juventus a Napoli. A.G. me lo conferma. «Prendo insulti quasi tutti i giorni. Ti dico un episodio. Un elettricista, una volta, in casa mia, per attaccar bottone, per ingannare il tempo, iniziò a parlare di calcio. Mi chiese se tifavo Napoli. Io gli dissi di no. E lui rispose, “Non me lo dica, anche io ho un fratello che ha lo stesso problema”. Nel resto della conversazione non abbiamo mai nominato la Juventus. È solo aleggiata lì, sopra le nostre teste. È questo essere napoletani e juventini».
«Tutte le persone che amo, che mi vogliono bene, mi chiedono, come fai a tifare Juve? Altri mi dicono, saresti un perfetto amico, ma purtroppo sei uno juventino», mi confessa I.V., un altro juventino napoletano. A differenza di A.G., non è juventino di famiglia. «Mio padre ci scherza su, è ironico. Dice che anche da piccolo non ero uno da ciuccio. Fu mio zio, quand’ero piccolo, quando non capivo niente, a mettermi al collo una sciarpa della Juventus. Ma poi si diventa davvero tifoso a tredici, quattordici anni. Sono sempre stato juventino, andavo anche allo stadio a vedere la Juventus contro il Napoli! Mi successe di tutto. Quante botte! Almeno una dozzina di volte, al San Paolo, con mio fratello, che era anche lui juventino, le ho prese». Quando chiedo a I.V. perché rendersi la vita così difficile, perché non è mai passato a tifare Napoli, anche da piccolo, mi risponde a modo. «Io non ho bisogno di tifare Napoli per essere un vero napoletano. E poi è davvero ottocentesco il concetto di sangue e terra. L’altra risposta che mi do è che la squadra te la devi cucire addosso. E io, essendo arrogante, ho sempre pensato di essere un vincente, e mi trovavo bene con lo spirito della Juventus, quello di entrare in campo sempre e solo per vincere. Mi sono sempre ritrovato con quell’idea, anche da piccolo».
Se il rapporto tra Napoli e Juventus nella città di Napoli è complesso e particolare, non assume comunque i toni che assume la più grande rivalità cittadina d’Italia: quella tra Roma e Lazio, nella capitale. Conosco persone della Roma, per dire, che non frequentano laziali. E ne conosco uno che è tifoso della Roma sebbene il padre fosse biancoceleste. Ho chiesto a S.M. quando fosse diventato romanista. «Non ricordo quando», mi ha risposto. «Ma ricordo perché. Avevo uno zio, molto piu giovane di mio padre e di mia madre, diciamo che mia madre l’aveva cresciuto come se fosse stato il suo primo figlio. Hanno 15 anni di differenza. Insomma, lui era pazzo della Roma. Mio padre non m’ha mai portato allo stadio, ma mio zio sì. A vedere Roma-Cesena, quella in cui forse Di Bartolomei era capitano del Cesena. Per quello sono diventato romanista, anche se mi sembra di esserlo sempre stato». Ed ecco che riemerge questo concetto. Un discorso che facciamo spesso tra di noi, in cui evitiamo di dare responsabilità alla decisione della squadra. Esser sempre stato romanista implica che non ci sia mai stata scelta. «Ma mi ricordo quando mi regalarono la seconda maglia della Roma, quella bianca, a maniche lunghe. La prima maglia è un momento fondamentale». Chiedo a S.M. se non gli manca vedere una partita con suo padre, se non gli mancano quei momenti che io ricordo così nettamente, quelle domeniche passate con mio padre, da piccolo, in cui un po’ mi sentivo già grande. «Mi manca, sì. Credo che sia una bella cosa. Ho un caro amico con cui ogni tanto gioco la domenica mattina, ha tutta la famiglia romanista, è abbonato con il padre, e si vede le trasferte con il padre. Io ho avuto un patrigno, il secondo marito di mia madre, con cui ho visto alcune partite della Roma. C’è stata una situazione con questa specie di padre adottivo, ma non credo sia la stessa cosa. Però invece di guardare le partite, con mio padre andavo al cinema. Mi manca quella cosa, ma l’abbiamo sostituita con il cinema. Certo, andare allo stadio con mio padre sarebbe stato bellissimo. In un mondo parallelo sarei potuto andare a vedere la Roma in Champions con lui, invece che andare da solo».
Padri, oppure zii. Comunque: è una linea ereditaria, che passa da un membro maschile di una famiglia a un membro della generazione successiva.
Padri, oppure zii. Comunque: è una linea ereditaria, che passa da un membro maschile di una famiglia a un membro della generazione successiva. Eppure, ci sono anche persone che prendono decisioni ancora più estreme. Decisioni dove il tifo non viene ereditato per niente. È il caso di M.G., romano, padre romanista, che tifa… Inter. Senza alcun altro tifoso dell’Inter in famiglia. È inspiegabilmente interista. «All’Olimpico con mio padre ci sono stato soltanto una volta. Era il 7 maggio 1995 e dalla Curva Sud abbiamo visto Roma-Fiorentina. Di quel pomeriggio ricordo Cervone imbattuto; una semirovesciata a centrocampo di Jonas Thern; il signore in piedi davanti a noi, con un cappellino col lupetto, che durante i festeggiamenti per il secondo gol della Roma mi travolge; e che quella stessa esultanza mi aveva messo a disagio. Dopo quella domenica ho chiesto a mio padre il permesso di tifare una squadra che non fosse la Roma. Mi piaceva l’Inter di Ince, Zamorano, Djorkaeff e soprattutto mi piaceva tifare e pensare di essere l’unico sostenitore di quella squadra». E questo ha mai causato problemi con tuo padre, gli chiedo. «No, è sempre stato sereno, almeno fino a quando la Roma e l’Inter sono state due squadre mediocri che non si ostacolavano a vicenda; poi, dal 2008 fino alla primavera del 2010, è stato orribile», confessa. «Le due “squadre di casa”, a pochissimi punti di distanza, si giocavano lo scudetto a ogni sconfitta. Io e mio padre, a tavola, avevamo smesso di parlare di qualunque cosa per non parlare di calcio. Mia madre si vergognava di noi. Il 25 aprile 2010, io e papà abbiamo visto Pazzini segnare la doppietta alla Roma, sul divano, davanti la Tv. All’Olimpico ci sono tornato altre volte, a vedere l’Inter, in Curva Nord. Seguire la mia squadra dalla parte dei laziali è una degenerazione della voglia di sentirsi una minoranza nella “minoranza della capitale”. Anche se, ogni tanto, penso che se non avessi voluto così bene a mio padre, sarei diventato più semplicemente della Lazio». In fondo, vogliamo tutti essere dei buoni figli. In un modo o nell’altro.
Dal numero 3 di Undici