San Siro ha parlato. Ha detto che una Milano così non è possibile. Una Milano così non è giusta. Pieno lo stadio: 75mila persone. Pieno per una partita che conta solo per se stessa: Milan nono, Inter decima, una classifica mai così brutta per entrambe da moltissimo tempo. Milano, il suo calcio e la sua storia sono un’altra cosa. Che cosa manca adesso a questa città e alle sue due squadre? Da dove si parte e dove si può arrivare? «L’Europa del calcio dovrebbe aiutare Milano», ha detto qualche tempo fa Karl Heinz Rummenigge che a Milano ha vissuto e ha vinto. Perché non può esistere l’Europa del calcio senza questa città. Basta un dato, se volete: negli ultimi trent’anni nessuna città ha vinto più di Milano. Sei Champions League (5 del Milan, una dell’Inter), contro le quattro di Madrid e Barcellona, le due di Monaco di Baviera e di Porto. È vero, le altre città hanno avuto una sola squadra competitiva a libello europeo (l’Atlético lo è da appena due stagioni), ma semmai questo è un valore aggiunto al ragionamento. Qui non stiamo vivendo la crisi di una delle due: ce ne sono stati di periodi negativi per l’una e per l’altra. Ma stavolta Inter e Milan condividono le stesse difficoltà, le stesse amarezze, la stessa idea di esclusione dal calcio che conta. Hanno guai diversi: l’Inter ha cambiato proprietario e sta cambiando mentalità; il Milan sta affrontando la transizione più complicata della sua storia, perché gli ultimi trent’anni sono stati quasi sempre una festa continua, un giocare con le stelle e tra le stelle. Poi è cambiato lo scenario che sta attorno, sono arrivati i ricchi americani, russi, arabi. Hanno comprato ciò che a volte neanche esisteva – calcisticamente parlando – e l’hanno trasformato in un grande club.
Ma non è solo questo. Non può essere e sicuramente non lo è. La crisi è d’identità, oltre che di liquidità. È di mentalità, oltre che di portafoglio. Milano soffre nel calcio nell’esatto momento in cui sembra soffrire meno in tutto il resto. Dinamica, vitale, nuova, centrale: a prescindere dalle polemiche sui lavori completati o meno, Expo che sta per cominciare ha rappresentato e rappresenta uno snodo fondamentale per la costruzione dell’identità di una città che s’è saputa ricostruire più di una volta. C’è tutto, adesso. Tranne il calcio. Il che è un paradosso. «Milano vicina all’Europa», cantava Lucio Dalla senza riferirsi direttamente al calcio, se non per quel passaggio su Milan-Benfica. Ma il calcio è ciò che negli anni ha tenuto Milano più vicino all’Europa di qualunque altra cosa. Di più: dentro l’Europa. Ancora di più, sopra l’Europa. Per quei risultati di cui si parlava prima e per la centralità che Milan e Inter hanno avuto nello sviluppo calcistico europeo, anche quando non vincevano.
I risultati contano, ovvio. Dalla cantava quella canzone tra il 1979 e il 1980: in quei due anni lo scudetto lo vinsero prima il Milan e poi l’Inter. Non erano altri tempi e questa non è nostalgia. Sono numeri. San Siro di ieri ricordava quella Milano vincente, ma invece Milano non rappresenta oggi né se stessa né quel San Siro pieno, carico, caldo, vero, bellissimo. Che cos’era tutta quella gente? Un auspicio? Forse: Milan e Inter non possono essere quelle di quest’anno, a prescindere da questioni societarie. Ci stiamo facendo quelle domande: che cosa manca? Gli stadi di proprietà, un ridisegno delle strutture societarie, la costruzione di management in grado di gestire le due squadre come aziende oltre che come club calcistici. E poi? Da domani partiamo con un’inchiesta a più firme e a più voci su Milano e il calcio, tra presente e futuro. Si comincia da dove siamo oggi, comprendendone le ragioni e analizzando nel profondo le due storie dei club. Poi andremo al futuro: che cosa di può fare? Qual è il punto d’arrivo? Perché c’è un punto d’arrivo, ci dev’essere per forza. C’è per Milano che nel 2016 ospiterà la finale di Champions League. E non lo può fare nelle condizioni in cui è oggi, calcisticamente. Buona lettura.