The Bournemouth legacy

Dal fallimento sfiorato alla prima volta in Premier League. Passando per un magnate russo e un allenatore testardo e vincente.

Prima di Eddie Howe, Bournemouth era conosciuta per ospitare le spoglie di Mary Shelley e perché Tolkien ci aveva passato gli ultimi anni della sua vita. Come se fosse un castello a cielo aperto popolato di fantasmi, terribile eppure così affascinante nella sua teatralità, nella sua oscura compostezza che volge lo sguardo alla Manica, e in essa si inabissa. Un luogo in cui certe spinte misteriose impedivano la riuscita di certi accadimenti: una promozione in Premier League, ad esempio, impossibile da pronunciare in 116 anni di storia, con appena cinque stagioni disputate al di sopra della terza divisione (tre fino al 2013).

La vittoria per 3-0 sul Bolton ha consegnato la prima storica promozione in Premier ai Cherries. «I love these fucking boys», ha urlato il presidente del club Jeff Mostyn, evidentemente su di giri a promozione conquistata. Gran parte di quei “fucking boys” è arrivata a Bournemouth pagata profumatamente: per la stella del club, Callum Wilson, sono stati versati al Coventry City 2,3 milioni di sterline. Nella stagione 2012/2013, che ha segnato il ritorno dei Cherries nella seconda serie inglese dopo 13 anni, il club chiuse con un passivo di 15 milioni di sterline, tanto si era impegnato nel costruire una squadra che facesse a pezzi gli avversari.

La vittoria per 1-0 a Stamford Bridge.

A staccare gli assegni per il Bournemouth c’è l’ambizioso magnate russo Maxim Victorovich Demin, un pezzo da novanta attivo nel petrolchimico che acquistò il club nel 2011 e lo salvò da una bancarotta molto vicina. In terza serie non si fece problemi a sborsare 800.000 sterline per un calciatore (Matt Tubbs dal Crawley), stracciando senza pietà il primato di Gavin Peacock, che dal 1989 deteneva il record di acquisto più costoso nella storia della società.

È solo una questione di soldi, allora? No, e qui entra in gioco Eddie Howe. Dopo essere stato giocatore del club dal 1994 al 2002 e poi dal 2004 al 2007 (praticamente tutta la carriera, con sole due brevi parentesi al Portsmouth e allo Swindon Town), da allenatore ha contribuito a togliere quella patina di insuccesso che Bournemouth si era cucita addosso. Nella stagione 2008/2009 Jimmy Quinn aveva lasciato a stagione in corso, e il club cercava disperatamente un sostituto. Ma nessuno accettava: la squadra era a dieci punti dalla salvezza in League Two e la società era sepolta sotto una mole di debiti mai onorati. A inizio campionato, infatti, il Bournemouth era stato sanzionato con 17 punti di penalizzazione per inadempienze amministrative: un suicidio.

A.F.C. Bournemouth v Manchester United - Premier League

Howe, che era un semplice collaboratore tecnico di Quinn, fu promosso temporaneamente in panchina e la squadra perse due partite di fila. Ma erano passati venti giorni dall’addio di Quinn, non si era ancora trovato chi potesse prenderne il posto e la squadra era ormai in caduta libera: la società decise quindi di nominare Howe tecnico della squadra a tutti gli effetti, quasi si fosse arreso all’evidenza di dover retrocedere. A fine anno il Bournemouth si salvò con nove punti di vantaggio sulla zona retrocessione. Allora Howe aveva appena 31 anni ed era l’allenatore più giovane dell’intera Football League: oggi è un tecnico esperto, che nel frattempo ha anche avuto una parentesi sulla panchina del Burnley in Championship nel 2011/2012, e che in molti acclamano addirittura come manager della Nazionale inglese.

Il 3-0 al Bolton della passata stagione, valso la promozione.

Resta, nella promozione del Bournemouth, qualcosa di più della semplice promozione conquistata a suon di milioni. La squadra rossonera, che negli anni Settanta adottò una maglia a strisce verticali per ispirarsi al Milan, era la classica squadra di provincia che non avrebbe mai potuto sognare grandi traguardi e che avrebbe cementato il proprio orgoglio attorno a momenti storici unanimemente condivisi ma ingialliti dal tempo: Harry Redknapp in panchina, l’eliminazione del Manchester United nella Fa Cup del 1984/1985, e così via. Una dimensione ristretta testimoniata da uno stadio da poco più di 11.000 posti (il Dean Court, chiamato Vitality per l’aggiunta dello sponsor: nella storia della Premier League solo l’Oldham ne ha avuto uno più piccolo), diventato per una sera, durante l’ubriacatura collettiva dei tifosi, capitale del calcio inglese.

Oggi, dopo 16 partite in Premier, il Bournemouth ha 16 punti in classifica, distanziandosi dalla zona pericolosa grazie alle ultime quattro partite: due pareggi contro Swansea ed Everton e le due vittorie da sogno su Chelsea e Manchester United. Un filotto di quattro risultati utili arrivato dopo sei partite in cui i Cherries avevano perso cinque volte e pareggiato una. Paradossalmente, la peggior difesa del campionato (31 gol subiti, capace di prendere 5 gol per due giornate di fila) ha ritrovato solidità e lucidità contro Blues e Red Devils (battuti rispettivamente 1-0 e 2-1). Contro il Chelsea, ad esempio, ha avuto dalla sua appena il 37% di possesso palla, pungendo in contropiede. Ma è stato possibile espugnare lo Stamford Bridge proprio grazie ad una tenuta difensiva solida: «Abbiamo resistito benissimo, senza subire la pressione», ha detto Howe dopo la partita. Non a caso, Diego Costa, contro i Cherries, ha toccato appena 20 palloni, solo 6 nell’area di rigore avversaria.

GettyImages-501106458

Ora che anche il Manchester United è stato battuto (a proposito: mentre i Red Devils sollevavano la Champions League, il Bournemouth retrocedeva in quarta divisione), si può pensare che la vittoria contro il Chelsea non sia stato un caso isolato. Ma frutto di una presa di coscienza importante, tra gli uomini di Howe: l’obiettivo salvezza non è un’utopia.