Erano nello stadio maledetto. Per fortuna lo possono raccontare. Erano all’Heysel: basta pronunciarlo per provare, venticinque anni dopo, lo stesso orrore. Tre racconti diversi, di tarantini che fecero quel viaggio e riuscirono pure a tornare. Trentanove, da quello stadio, non fecero mai ritorno. Trentanove tifosi morti prima di una partita, per una partita. E il ricordo straziante di tre testimoni, come fossero uno solo. Basterebbe aprire le virgolette adesso e non chiuderle più, per ascoltare le loro paure, le storie di una notte che sporcò di sangue il calcio e imbrattò indelebilmente i ricordi intimi di ognuno.
Giuseppe Spera adesso ha 66 anni. Fa l’imprenditore ortofrutticolo e in azienda, a Massafra, ci sono ancora pile di giornali sportivi, che dimostrano la passione: «Partimmo con un volo charter: 650mila lire a testa. Eravamo in centocinquanta a partire da Brindisi, tornammo e mancavano alcuni. Due li avevo memorizzati. Erano di Mesagne, se non ricordo male: erano morti». Era il 29 maggio 1985: «Arrivammo con largo anticipo: la nostra Curva era ancora semivuota, ci sistemammo al centro per non stare troppo vicini al settore degli inglesi. Avvertivamo un po’ il pericolo, ma pensavamo alle bottiglie che avevano tra le mani, che pure arrivarono. In un attimo tutto cambiò, non ci rendevamo più conto di quello che stava accadendo, c’era gente che sveniva, gente che cadeva e gente che scappava. Noi restammo in piedi perché aggrappati a una balaustra che pure si ruppe. Quando cadde la divisione dal terreno di gioco, finii in campo e, da lì, mi fecero uscire attraverso gli spogliatoi. Fuori era uno scenario di guerra, tra sangue e sirene. Io ero senza scarpe: avevo i mocassini e si sfilarono nella ressa. Sono rimasto scalzo fino al rientro a casa». Qualche ferita, il passaggio dall’ospedale: «Vidi parte della gara da lì, telefonai a casa. Anche perché il rientro, che era previsto per la notte, fu spostato alla mattina dopo: aspettavamo che tornassero tutti. Quando vidi che qualcuno mancava capii di essere stato fortunato: non avevo avuto nemmeno il tempo di avere paura». Ora Giuseppe è nonno: «E quando cresceranno i nipotini non avrò timore a raccontare. Ho cercato di dimenticare, ma è impossibile: allora meglio raccontare, perché non accada più. Nell’immediato pensai che non sarei più andato allo stadio. Ma alla prima partita della Juve a Torino ero di nuovo lì. Forse è stato il modo per ripartire».
Gennaro Morelli, invece, non era all’Heysel per una passione sua: «Il tifoso non sono io: era per accompagnare mio figlio, di quindici anni, che andai a Bruxelles». Morelli, tarantino di 69 anni, ora è primario alla Santa Rita: «E furono mio figlio e il gran caldo, forse, la vera fortuna di quel giorno. Perché mentre eravamo in gruppo e andavamo verso lo stadio, il bambino mi chiese una Coca Cola e ci fermammo per acquistarla. Così perdemmo gli altri e arrivammo allo stadio un po’ più tardi. Così loro erano vicino alla rete che divideva gli spalti dal campo, noi più in alto, vicino a un’uscita. Quando scoppiarono gli incidenti la gente cominciò a spingere verso il basso, quindi verso la recinzione, la polizia impediva l’accesso al campo e si creò pressione: io fui spinto verso un muro e mi preoccupai, subito, di difendere il bambino. Quando ebbi la possibilità, lasciai lo stadio avendo vicina la via di fuga». Fuori lo scenario era diverso dalle immagini in tv, all’inizio: «Non capii la situazione: all’interno dello stadio volavano le bottiglie lanciate dagli hooligans, vidi qualche ferito dai lanci, ma uscendo presto trovai calma fuori. Calma apparente e breve: dopo un po’ iniziarono ad arrivare feriti più gravi, probabilmente anche i primi cadaveri. Solo dalla tv riuscii ad avere l’esatta dimensione del dramma». In Italia guardavano la televisione, scoprendo che c’erano morti. E molti erano in ansia: «Un ingegnere di Caserta, che trovai per caso, mi aiutò a mettermi in contatto con i familiari. Andai in un albergo e passai la notte lì: ripartii con un volo di linea, non con il charter. E per poterlo pagare chiesi i soldi a una parente di mia moglie di Bruxelles. Ma l’agenzia, non vedendomi sul charter, chiamò casa dandomi per disperso. Per fortuna mia moglie sapeva. Io, invece, seppi che il figlio di un amico, informatore scientifico, e che all’andata era con me, era morto». Con un figlio al seguito ogni momento diventò più pesante: «Ma lui rimase tranquillo e io, avendo lui, mi sforzai di mantenere la calma. La passione per la Juve però lui l’ha lentamente persa».
Tratto da Mix 24, a cura di Giovanni Minoli.
Pasquale Nuzzo, invece, ha appeso, nel suo studio da commercialista, il gagliardetto celebrativo di quella partita e il biglietto della Tribuna Z, strappato all’ingresso. Sono fissi lì per un motivo: «Perché quella, mi creda, è stata l’ultima partita di calcio che ho visto. Da lì io sono uscito vivo, ma la mia passione è morta: ero stato anche giocatore di Promozione nel Massafra, ero stato anche alla finale della Juve ad Atene, due anni prima, ma poi nemmeno in televisione ho più visto una partita». Si rideva, prima che arrivassero le bottiglie: «Eravamo nello stadio in anticipo, scherzavamo un po’ tra noi anche per mascherare la delusione di uno stadio inappropriato. Iniziarono a volare bottiglie di birra, pietre facilmente ricavabili con un calcio ai gradoni. Ma noi eravamo lì da sportivi, nessuno reagì: ci allontanammo per non essere colpiti e iniziò la calca. Poi gli inglesi invasero il settore e iniziò la fuga generale, la paura. Ricordo che nella ressa avevo un altro tifoso che si aggrappava al mio viso, mi sentivo asfissiato dalla pressione. Quando crollarono le strutture molti caddero quasi nel vuoto, altri trovarono il varco per andare sul campo. Io ero tra questi ultimi: non potevi fermarti perché saresti stato calpestato. E, infatti, ti trovavi quasi a camminare su gente che era caduta». Pasquale, rispetto agli altri due, non lasciò lo stadio: «Perché mi portarono negli spogliatoi per curarmi le escoriazioni. Ero scalzo, ormai. E vedevo i giocatori della Juve nello spogliatoio. In quel momento, e lì dentro, nessuno sapeva esattamente cosa stesse accadendo all’interno. Nessuno sapeva che c’erano morti. Nemmeno io, che fui accompagnato in tribuna poi e trovai alcuni dei miei amici. Seguimmo la partita, tornammo in campo per uscire alla fine e festeggiammo pure con la squadra, non sapendo la gravità della situazione. Alle 2 del mattino, in aeroporto, guardammo la tv e ci rendemmo conto. E capimmo anche perché gli amici che avevano lasciato lo stadio, vedendoci, si misero a piangere: temevano fossimo morti». Nuzzo sente di non esserci andato lontano: «Un amico, giorni dopo, mi disse: “Sei arrivato vicino alla porta del cimitero e non sei entrato”. Aveva ragione: ho avuto paura davvero, adesso provo disgusto. E ho abbandonato il calcio. Mi spiace solo per mio figlio, che non ha avuto la possibilità di appassionarsi. Ma quello che ho visto non lo dimentico più». Sembra un unico racconto, sono tre storie diverse. Di tifosi o papà premurosi che hanno vissuto la paura, che hanno visto morire. Per una partita di calcio che in trentanove non hanno mai potuto raccontare.