Quella contro il Real Madrid del 3 giugno sarà la nona finale di Champions nella storia della Juventus. Gioie, delusioni, trionfi e drammi sportivi hanno segnato le altre otto.
30 maggio 1973, Stadio Stella Rossa di Belgrado, Ajax-Juventus 1-0
Cruijff, Neeskens, Rep. La prima volta della Juve in finale di Coppa dei Campioni porta i nomi di questi tre e degli altri giocatori dell’Ajax, un formidabile collettivo impastato di talento e capelli lunghi che in quegli anni rivoluzionò la scena del pallone con il calcio totale. Gente abituata a quella competizione, avendola vinta nei due anni precedenti. «Quell’Ajax era fortissimo -, ricorda Giampiero Boniperti, allora presidente dei bianconeri -, ma noi gli facilitammo il compito. I giocatori furono letteralmente paralizzati dall’emozione. Per venti minuti la Juve non toccò palla». Strana la partita, strana la vigilia. «Fu interminabile – racconta José Altafini -. Ci misero in ritiro in una specie di castello, mi vengono ancora in mente i sotterranei come in un incubo. Eravamo isolatissimi, non pensavamo ad altro che alla partita e ci allenavamo con il Novi Sad. Una cosa da suore di clausura, un mortorio». I giocatori dell’Ajax, come gli juventini apprendevano sui giornali, erano invece in un albergo di lusso, con mogli e fidanzate. Altro spirito. «Arrivammo allo stadio imbambolati, pure io che quella coppa l’avevo già vinta col Milan, dieci anni prima – continua Altafini -. Della partita non ricordo quasi niente, c’è come una nebbia attorno alle immagini. L’Ajax fece gol subito, la nostra difesa dormì, Zoff scivolò e poi ci nascosero il pallone». Quarto minuto: Johnny Rep salta, colpisce di testa il pallone in maniera sgraziata e fortunosa, pallone che volteggia alle spalle di Zoff. «Quel gol era da annullare», recriminò anni dopo Silvio Longobucco, che venne sovrastato da Rep nell’azione del gol. «Mi impedì di saltare a dovere, mise il braccio sinistro sulle mie spalle e mi tenne giù. Zoff smadonnò: “Guarda questo dove l’ha messa”».
25 maggio 1983, Stadio Olimpico di Atene, Amburgo-Juventus 1-0
Dieci anni dopo, tutto sembra ricalcare la brutta notte contro l’Ajax. Il gol subito in avvio – stavolta dopo otto minuti, con il tiro maligno di Felix Magath -, la squadra in tilt, la reazione che non arriva mai. Però, rispetto a dieci anni prima, quella Juve era favorita eccome: aveva in campo sei giocatori che pochi mesi prima avevano alzato al cielo la Coppa del Mondo (Zoff, Cabrini, Gentile, Scirea, Tardelli, Rossi), più Bettega, Boniek e Platini. I protagonisti della notte di Madrid avevano festeggiato in faccia a due giocatori dell’Amburgo, Kaltz e Hrubesch, che erano scesi in campo per la Germania Ovest. E alla vigilia c’era troppa convinzione, almeno all’esterno, che i bianconeri vincessero, per la differenza di valori tra le due squadre e per lo spettacolare cammino in Coppa della squadra di Trapattoni (che eliminò i campioni in carica dell’Aston Villa). «Dormivamo. Se ripenso a quella partita, nello stadio pieno di tifosi bianconeri, la cosa che mi viene subito in mente è una specie di stanchezza, come quando ti si chiudono gli occhi e provi a rimanere sveglio», ricorda Zoff. Bettega costruì l’occasione migliore per la Juve, un colpo di testa deviato da Stein, in apertura di gara: «Ci ripenso e dico: perché non colpii col piede invece che con la fronte? E poi rivedo il gol di Magath, io sono davanti a lui che finta di tirare e m’inganna, faccio un saltello, il tedesco passa oltre e poi colpisce di sinistro. Palla strana ma Zoff non aveva colpe, assolutamente. Ma che ci facevo, io, al limite della nostra area? Cosa non aveva funzionato, perché dopo otto minuti mi trovassi lì, quasi a difendere? Fu un dramma sportivo. Nella mia carriera ho vissuto altri momenti duri, la malattia ai polmoni, il ginocchio rotto, ma niente in confronto a quella serata di Atene».
29 maggio 1985, Heysel di Bruxelles, Juventus-Liverpool 1-o
Non c’è nulla di normale in questa finale. Non dopo quello che era successo qualche ora prima, su quegli stessi spalti, 39 persone senza esalare più un respiro. Tutta quella partita è un lungo, interminabile, quanto inutile respiro, vissuta in apnea, con un senso di tragedia immane, spettrale. In campo non succede quasi niente, i calciatori – che poi avrebbero confessato di non essersi resi conto delle dimensioni di quello che era avvenuto – provano a vincerla, quella partita, eppure vanno avanti con inerzia, non regalando nessuna vera emozione, come burattini obbligati a muoversi, una forza animatrice estranea, lontana, inspiegabile. Succede che nel secondo tempo Boniek viene atterrato e l’arbitro comanda un calcio di rigore, anche se il fallo sembra avvenire fuori area. Platini realizza, corre, esulta, e tutto sembra così dannatamente fuori luogo, con Pizzul ai microfoni che pronuncia la parola “gol” sommessamente, isolata, sospesa su un confine di sangue e finzione. In Italia erano tutti davanti alla tv, e però la partita non cominciava. E quando il collegamento iniziò, non c’era davvero spazio per un incontro di calcio. A riguardare le immagini, la cronaca di Pizzul e le fasi del match corrono su due binari differenti, paralleli. Sembra che la voce del telecronista sia stata estrapolata da un altro contesto e piazzata su quel filmato, senza nessuna attinenza. Il pallone rotola da una parte all’altra, senza nessun senso apparente, mentre Pizzul va avanti, aggiornando i telespettatori sulle notizie che arrivano, il numero dei morti che sale. In fondo, quando le immagini stanno per sfumare, i giocatori della Juventus sono al centro del campo a festeggiare, e in sovrimpressione compare il numero telefonico del Ministero degli Esteri, perché ormai nessuno è più lì per quella coppa, una coppa che non c’è, non si vede nelle immagini, è sparita, non è mai esistita.
22 maggio 1996, Stadio Olimpico di Roma, Ajax-Juventus 3-5 dopo i calci di rigore
La Juventus torna a giocare la Coppa dei Campioni a distanza di ben nove anni: un’eternità, però un dolce ritorno. Dopo aver eliminato Real Madrid e Nantes, la squadra di Lippi trova nell’epilogo di Roma l’Ajax, che aveva trionfato contro il Milan dodici mesi prima. La partita è tesa e spezzettata, con entrambi i gol nel primo tempo: Ravanelli, abile ad approfittare di un’incertezza degli avversari e a insaccare da posizione defilata, e Litmanen, che risolve una mischia nell’area di rigore bianconera. Supplementari, quindi rigori. «Al termine dei 120 minuti, Lippi ci ha guardato negli occhi per capire chi se la sentisse di calciare i rigori – ricorda Gianluca Vialli, che della Juve era il capitano -. Io sono stato il primo a cui si rivolse: “Luca, vuoi tirarlo?”. Risposi: “Marcello, se trovi cinque pazzi che vogliono andare sul dischetto, li guardo volentieri da fuori. Altrimenti, sono a disposizione”. Se avessi sbagliato quel rigore, alla luce della finale persa quattro anni prima con la Sampdoria, avrei avuto un forte contraccolpo psicologico». Lippi riuscì a trovare cinque “pazzi”: Ferrara, Pessotto, Padovano, Jugovic e Del Piero (che non tirò il rigore, visto che quello di Jugovic fu quello decisivo). Anzi, fu molto facile: «Come successe poi a Berlino nel Mondiale del 2006, prima dei rigori tutti mi guardavano, quasi implorandomi di farli tirare: avevano giocato una gran partita ed erano carichi», ricorda il tecnico. E tutti segnarono, mentre per l’Ajax risultarono decisivi gli errori del futuro juventino Davids e di Silooy. Una coppa da stringere forte, e alzare al cielo, finalmente: «Durante i rigori ero aggrappato a Ciro Ferrara, non ce la facevo a guardare – racconta Vialli -. Quando presi tra le mani quella coppa ero sollevato, e felice. Se mi capita di rivedere quelle immagini in tv, mi viene la pelle d’oca».
28 maggio 1997, Olympiastadion di Monaco di Baviera, Borussia Dortmund-Juventus 3-1
Un anno dopo, c’è ancora la Juve in finale. L’Ajax stavolta viene strapazzato in semifinale, e nell’ultimo atto che si disputa a Monaco di Baviera c’è il Borussia Dortmund, inferiore sotto tutti i punti di vista. «Erano praticamente imbattibili. I bookmakers ci davano l’1% di possibilità di vittoria», la candida ammissione di Kalle Riedle. È lui a segnare, nel primo tempo, i due gol che indirizzano la partita su un binario ben preciso, e non sono nemmeno le prime reti che realizzava alla Juve: ne aveva già segnate tre, ai tempi della Lazio. «Al fischio finale mi venne in mente il sogno che avevo fatto la notte precedente. Dividevo la camera con Martin Kree, e alle 3 di notte mi svegliai tutto sudato, dicendogli: “Ho appena sognato di segnare due gol in finale”. E il giorno dopo capitò veramente». Le due reti di Riedle arrivano entrambe sugli sviluppi di un calcio piazzato: «Preparammo varie opzioni sui calci piazzati. Peruzzi era un portiere molto forte tra i pali, ma non bravissimo nelle uscite», raccontò poi Hitzfeld, allenatore del Borussia. Nella ripresa Del Piero prende il posto di Porrini e riapre la partita con una straordinaria magia, ma l’illusione dura lo spazio di appena sette minuti. Hitzfeld decide di mandare in campo il ventenne Lars Ricken, buona promessa del calcio tedesco mai interamente realizzata: «Lars, entra e fai il gol decisivo!». Ricken, dopo undici secondi dal suo ingresso in campo, tocca il suo primo pallone e lo manda in rete per il definitivo 3-1. «In panchina avevo osservato che Peruzzi stava spesso fuori dai pali. Così mi ripromisi, una volta in campo, di calciare da fuori appena possibile. Lo feci: quella rete è stata votata come gol del secolo della storia del Borussia».
20 maggio 1998, Amsterdam Arena, Juventus-Real Madrid 0-1
E tre. La Juventus arriva per la terza volta di fila in finale di Champions. Ancora da favorita: aveva rifilato quattro gol alla Dinamo Kiev nei quarti (dopo l’1-1 dell’andata) e altrettanti al Monaco nell’andata delle semifinali. Il Real di quegli anni era lontanissima dal formato galáctico che sarebbe nato qualche anno più tardi: aveva ottimi giocatori in squadra, come Hierro, Roberto Carlos, Redondo, Seedorf e Raúl, ma non vinceva una competizione europea dal 1986 (Coppa Uefa), un digiuno che saliva a trentadue anni contando l’ultima Coppa dei Campioni messa in bacheca. Ma in finale la Juve combina poco: la coppia Inzaghi-Del Piero, che nella competizione aveva segnato 16 gol, (dieci Pinturicchio, capocannoniere del torneo) non punge e si infrange contro la rude difesa di Hierro e Sanchís. I bianconeri avvertono il dovere di andare in vantaggio e, man mano che i minuti passano, il peso li comprime sempre più: fino al gol fortunoso, arrivato a metà ripresa, di Pedrag Mijatović, che in posizione di fuorigioco è lesto a riprendere una conclusione rimpallata di Roberto Carlos e a mettere il pallone in rete. «In quella Champions non avevo mai segnato fino alla finale. Prima della partita, a pranzo, i compagni mi pregavano: “Segna almeno oggi!”. E così segnai il gol più bello e importante della mia carriera». Il Corriere della Sera, l’indomani, dipinge così la grande occasione sciupata dalla Juventus: «La Juve è riuscita a buttare la Coppa contro una squadra mediocre, che però ieri sera aveva più voglia e più bisogno, e perché Lippi l’ha regalata a un tecnico molto meno bravo di lui (Heynckes)».
28 maggio 2003, Old Trafford di Manchester, Juventus-Milan 2-3 dopo i calci di rigore
Manchester 2003, in fondo, è una brutta partita. È la prima finale di Champions tutta italiana, e sembra che voglia mantenere fede alla tradizione calcistica nostrana. Difese al potere, poche emozioni: uno straordinario Buffon su un colpo di testa di Inzaghi, un diagonale di Rui Costa a lato, la traversa di Conte. Fotogrammi che corrono veloci, inesorabili verso i calci di rigore. Ricorda Maldini: «Il momento peggiore, ho sempre avuto un pessimo rapporto con i rigori. Però poi ho guardato dall’altra parte e… sì, insomma, anche tra di loro c’era chi non aveva ottimi ricordi dal dischetto». Per Lippi, tornato alla guida della Juventus, non si ripete la storia della finale di Roma contro l’Ajax: «Si veniva da una brutta prestazione, consapevoli che avremmo dovuto vincere senza arrivare ai rigori. I calciatori tenevano gli occhi bassi, si guardavano le scarpe. Andò per primo Trezeguet che non era “scappato”. Sbagliò il rigore e ne fallimmo altri due. Me lo sentivo». I rigori durano una vita, durano più dei 120 minuti tra tempi regolamentari e supplementari. Le facce, le espressioni. Buffon che esulta dopo ogni parata. È carico e risoluto, così diverso dagli sguardi spaventati e dal caracollare incerto dei compagni di squadra che vanno a battere il calcio di rigore. Dida impassibile, quasi catatonico. E poi Shevchenko, che calcia il rigore decisivo. Shevchenko guarda per quattro volte l’arbitro. La prima, di scatto. La seconda, più duratura, e la terza, lunghissima. La quarta è un cenno che scompare nel vuoto, tra l’esaltazione dei tifosi del Milan e la disperazione di quelli della Juve.
6 giugno 2015, Olympiastadion di Berlino, Juventus-Barcellona 1-3
È il ritorno a una finale di Champions della Juventus dopo dodici anni. Dentro, perciò, c’è un preciso significato: è l’immagine della riscossa bianconera, dopo gli anni della discesa in Serie B, delle difficoltà di competere immediatamente ad alti livelli con le migliori d’Italia e soprattutto d’Europa. Ritrovare la Juventus, nella finale di Berlino, era perciò la conferma di una grandezza ritrovata, di un allontanamento di spettri che a lungo avevano agitato le notti bianconere. Ma i fantasmi, si sa, possono assumere diverse sembianze, e all’Olympiastadion questi vestono le maglie del Barcellona. Il gol di Rakitic, dopo appena quattro minuti, non è solo un modo pessimo per cominciare la gara, è un avvertimento. E la Juventus lo coglie. Gioca, controbatte. Non è certo una finale a senso unico. «Abbiamo iniziato male però dopo ci siamo ripresi, abbiamo pareggiato, abbiamo anche avuto le occasioni per vincerla», ricorda Andrea Pirlo. Quando Morata, a inizio secondo tempo, ristabilisce la parità, l’impressione è che la partita possa finire in qualsiasi modo. Ma su quell’accelerazione di Messi, che gli juventini non riescono a contenere, la coppa sembra viaggiare con l’argentino, caricata su un carro merci che prenderà la direzione opposta. È il momento in cui la partita si spacca di nuovo, e questa volta definitivamente: Buffon respinge la conclusione della Pulce, ma il pallone è raccolto da Suárez per il 2-1. Quello che segue è un copione non ancora scontato, ma dolorosamente riconoscibile. L’inseguimento, quasi alla disperata, non darà i suoi frutti, e Neymar a tempo scaduto chiude i conti.