L’artigiano del talento

Pantaleo Corvino, una vita spesa a rincorrere promesse in giro per l'Italia: i suoi ricordi, le sue intuizioni, i suoi sogni.

Quando avevo chiesto a Carlo, lo spilungone dell’ufficio stampa, di descrivermi il metodo di Pantaleo Corvino, la risposta era stata un’utopia religiosa: «È ovunque». È il genere di ironia che, una volta esauritosi l’effetto divertente, lascia dentro uno strano senso di curiosità. Era gennaio, Corvino era stato annunciato nuovo responsabile tecnico del Bologna da qualche giorno appena e con la buriana del calciomercato invernale lì a infuriare e a sbattere sulle rotative, la Serie B da affrontare, l’idea di dovermi rapportare a una figura ubiqua mi stimolava non poco. Con il passare dei giorni, e a mano a mano che il grado di confidenza è aumentato, ho cercato di comprendere meglio l’ovunque di cui parlava Carlo, perché Corvino venisse considerato un personaggio di spicco del nostro calcio nonostante arrivasse da due anni di inattività, come mai non si era affievolita la sua fama di implacabile scopritore di talenti. Non può essere solo un fatto di titoli o di nomi.

Maurizio Lagana/Getty Images
Maurizio Lagana/Getty Images

Così, finito il campionato, sono andato nel suo ufficio, che adesso sta a Casteldebole, una stanza grande quanto basta, con le pareti imbiancate di fresco e una massiccia scrivania a elle, rigida e sicura, zeppa di fogli, tabelle, appunti, quasi tutti scarabocchiati a mano. Faccio in tempo a percepire il suono di una partita frusciare dalla tv al plasma, ma quando entro è già muta e nera. Spenta. Un’opera surrealista (palloni – da calcio, basket, tennis – piovono su una città sconosciuta e apocalittica) prende metà della parete portante. «L’arte? Sì, mi piace. È una cosa che ho dentro. A mio figlio ho regalato dei grandi coccodrilli colorati di Omar Ronda». Dalla finestra entrano luce e rumori di tacchetti. Si vedono i campi. Sono vuoti, chissà da dove arriva l’eco dei rumori. Sembra Blow-Up di Antonioni. «Quello l’ha fatto un artista di qui e me lo ha regalato», dice indicando il quadro. Corvino è una figura grande, ma che non ingombra. Indossa una maglietta nera a mezze maniche, modello Armani. Porta gli occhiali. La montatura è massiccia, scura, di quelle che vanno molto adesso. «Una delle cose che più mi dispiacciono, certe volte, è che la gente si scorda dei titoli a livello giovanile. Sono cose molto importanti per me». Agita le braccia, e in una frazione di secondo sotto la manica intravedo un tatuaggio. Non sarà tardi alla sua età? Lui sorride. «Sono cose private». Insisto. C’è il disegno di uno stadio, quello di un pallone e intorno i nomi dei quattro figli. «È tutta la mia vita – dice Corvino – me la sono voluta incidere anche sulla pelle».

L’INIZIO
«All’inizio facevo il giro delle piazze. All’epoca i ragazzini giocavano lì, nelle piazze, vicino alle chiese. Passavo in tutti i paesi. Guardavo, e ovviamente annotavo, così quando iniziava la stagione mi ero già portato avanti». Anche se il nome gli conferisce un’aura mitologica, Pantaleo ha poco più di vent’anni. Guida un’auto di seconda mano e tiene con sé un’agenda nera che non scorda mai. Annota talento. Ha i capelli tagliati corti, anche se a metà degli anni Settanta potrebbe osare di più. L’ordine e la giusta disciplina sono cose che gli ha insegnato il padre, e quando a venticinque anni il giovane Corvino entra in aeronautica, il calcio sembra uno di quei sogni troppo difficili da acciuffare. «Dovevo guadagnarmi la pagnotta. Quando si è ammalato mio padre non potevo starmene con le mani in mano». Ma fare il maresciallo di prima classe, in fondo, non è il suo destino. La domenica, e tutte le volte che può, Corvino sta sui campi di Terza o Seconda categoria, quelli che anche oggi siamo abituati a immaginare pieni di polvere e vento, figuriamoci in quegli anni. Si occupa del settore giovanile e tutte le volte che serve carica su quella specie di station wagon usata i ragazzini dei vari paesi. L’ultimo è sempre Vincenzo Mazzeo, un bimbetto alto così, che gioca a centrocampo e abita più lontano degli altri. Quando la macchina è piena Mazzeo si siede sulla ginocchia di Corvino.

«Poi un giorno, era l’ ’87, mi offrono il primo contratto da professionista. A Casarano, in Serie C». Il contratto è di due milioni di lire, bei soldi per l’epoca. «Meno di quello che mi davano in aeronautica. Avevamo già tre figli, andai da mia moglie che mi rispose: “Fai come vuoi, ma lo devi dire a tuo padre”. Mi ci è voluta una settimana. Mi ero preparato il discorso, ma papà non mi parlò un mese lo stesso». Il Casarano gioca in Serie C. È la squadra dell’imprenditore Antonio Filograna, il genio delle calzature. La sua azienda produce 40mila paia di scarpe al giorno, è una delle grandi realtà industriali del Salento. È in quel contesto che Corvino realizza i primi affari. «Mazzeo, il primo è stato lui. L’avevo venduto al Casarano per 150 milioni, niente male come prima plusvalenza». Giocherà in Serie A, nel Verona e nel Cagliari. Oggi, a quasi cinquant’anni, Vincenzo è il responsabile della scuola calcio Pantaleo Corvino.

IL METODO

Con Andrea della Valle, ai tempi della Fiorentina. Claudio Villa/Getty Images
Con Andrea della Valle, ai tempi della Fiorentina. Claudio Villa/Getty Images

Nel ’98 lo assume il Lecce. Corvino è già un direttore sportivo di un certo valore, visti i risultati ottenuti a Casarano. Ma è con il Lecce, la società acquistata dai Semeraro, che fa il salto definitivo. Introduce riunioni tecniche tra gli allenatori delle squadre giovanili. A rotazione, ognuno porta un argomento di discussione, ci si confronta, c’è collaborazione, una tavola rotonda in cui si parla di calcio. Corvino impone un modulo, uno stile di gioco per tutte le squadre, dai più piccoli alla Primavera, di modo che i calciatori possano crescere secondo un ordine tattico. Ma il punto di forza è l’intuizione del talento. Corvino ha imbastito una rete di contatti qua e là per l’Italia, qualcuno nel mondo, gente di cui si fida. Qualche volta, tornando da una partita giocata chissà dove, si ferma a vedere giocare gli Allievi o i Giovanissimi, le piazze di quando aveva vent’anni. E poi viaggia. «Sono stato il primo a portare i primi ragazzi bulgari, gli svizzeri. E poi il Sudamerica, ne ho presi molti anche lì. Uno dei primi viaggi a Sofia me lo ricordo. C’era molta povertà, alla dogana dovevi fare la fila e certe volte durava ore». L’Est è una delle grandi mete di Corvino. «Nella Romania del dopo Ceaușescu, anche lì c’era tanta difficoltà. Ma il talento è ovunque». L’ovunque è concetto di una pienezza disarmante. Come il potere, che per sua natura si nasconde, lo fa anche il talento. Però è dappertutto, il punto è che bisogna saperlo vedere. E allora come si fa, come si vede il talento? Corvino ruota la sedia e sbircia fuori dalla finestra: «Quando sono convinto di una cosa rischio. Bisogna farlo, uno non può andare sempre sul sicuro».

Giugno 2003, a Siena si gioca la finale del campionato Primavera. Il Lecce, allenato da Roberto Rizzo, ha battuto la Lazio, la Juventus in semifinale e deve affrontare l’Inter. Può sembrare assurdo, ma la sera prima Rizzo e Corvino si erano interrogati sul significato di quel successo. D’altra parte, a Lecce nessuno ha mai vinto uno scudetto a livello Primavera, sentono la tensione, anche perché i nerazzurri hanno convocato Oba Oba Martins, che ha già una certa esperienza in Serie A. «No, facciamo giocare i ragazzi che ci hanno portato fin qui», dice Corvino. In prima squadra giocano Ledesma, Vucinic, Chevanton e Konan, tutta gente che ha scoperto lui, ma nonostante siano in età per disputare anche quella partita, Corvino preferisce rischiare. Alla fine il Lecce vince 3-2. «È stato un successo molto
importante, che ha dato un valore a molte cose», dice Corvino. A fine partita Rizzo va da lui, ha la medaglia al collo, l’aria serena. «Prendila tu, direttore», dice Rizzo. I due sorridono. In carriera Corvino ha vinto dodici titoli giovanili. Ne aveva vinto uno con il Casarano. Ne conquista sette con il Lecce (due scudetti di fila). Quattro li vincerà con la Fiorentina. Ma quanto c’è di Corvino dietro quei successi?

2003, il Lecce di Corvino vince il primo Scudetto Primavera della sua storia

«Un giorno mi chiama la mia segretaria e mi dice che alcuni dirigenti americani mi vogliono parlare. Hanno bisogno di un metodo di lavoro per crescere, e vogliono capire il mio». Durante quegli incontri in California, Corvino conosce Joey Saputo, l’uomo che nel 2015 lo porterà a Bologna. Ritroverà Claudio Fenucci amministratore delegato, con cui aveva fatto grandi cose a Lecce. All’epoca Corvino sta alla Fiorentina. In Serie A, in quegli anni, ha già raggiunto risultati eccellenti, arrivando anche in Champions League con la squadra viola e sfiorando i quarti di finale persi per colpa di un gol in fuorigioco contro il Bayern Monaco. Non allena, non è un tattico, ma su dieci acquisti, stai sicuro che nove fanno il botto. L’esempio più evidente arriva un pomeriggio al “Via del Mare”, lo stadio di Lecce. Il vento è caldo, si sta bene anche se è febbraio. I giallorossi affrontano il Chievo, in panchina Zeman appare dal fumo di un’altra Marlboro. La partita finisce 3-0, ma quel che conta è il numero di giocatori cresciuti nel settore giovanile: sono cinque in campo, tre in panchina. È il 2005. Passerà molto tempo. Nel 2012 Corvino lascia il calcio e sta vicino alla madre malata. Due anni, poi ritorna in pista.

SOGNI
Per i tifosi, per quasi tutti, Corvino è ancora un fabbricante dei sogni. Un artigiano del talento. Lo scova, lo coltiva, gli dà un valore. A Bologna, per esempio, la platea è incollata ai seggiolini in attesa dell’entrata in scena: un qualche formidabile giocatore arrivato da lontano, un goleador sconosciuto, dal nome esotico, un fantasista che incanti come le invenzioni meravigliose di Melquiades, lo zingaro di «Bidoni? Qualcuno sì. A Firenze si ricordano tutti di Keirrison, quello che aveva il nome del chitarrista. L’avevo preso dal Barcellona, giocò giusto tre partite. Un altro è Santiago Silva, anche lui poca roba». Corvino lo aveva pagato un milione e 600mila euro dal Velez. Lo rivendette al Boca. Indimenticabile Mario Bolatti: argentino, El Gringo, lo chiamavano. Al quarto giorno di ritiro spaccò il ginocchio a Jovetic, il fuoriclasse del momento. Jefferson, raccontano, non lo riconobbe neppure il suo allenatore: «Davvero è uno dei miei?», disse vedendolo passare seduto al tavolo di un ristorante. Corvino prese Kenneth Zohore, cugino di secondo grado di Drogba, e Savio Nsereko, ugandese naturalizzato tedesco, che qualche anno dopo la sua apparizione alla Fiorentina inscenò un finto sequestro con tanto di riscatto fissato a 25mila dollari. Gli servivano per pagare le prostitute.

Il primo giorno da bolognese di Pantaleo Corvino

La storia è storia, il calcio è fondato sulle incertezze e sui sogni. Prima ancora dei gol e tutto il campionario gestuale del fútbol, è il calciomercato a preparare il terreno alla fantasia. Dietro le operazioni di Corvino c’è anche questo, ed è così che è nata la letteratura fantastica sullo scopritore di talenti venuto dal nulla. «Dal marciapiede», come dice lui. Felipe Melo arrivò nel 2008/2009 per 8 milioni. Lo rivendette alla Juventus per 25. Non lo conosceva nessuno. Lo stesso capitò con Jovetic, oggi al centro del nodo mercato, o con Bojinov, Vucinic, Ljaijc, Seferovic; anonimi diventati
idoli. Così come Babacar. Corvino lo scelse personalmente al termine di una selezione di provini fatti ad alcuni ragazzi arrivati dal Senegal. È l’attaccante che ha regalato con gli Allievi Nazionali di Renato Buso uno scudetto (anche questo contro l’Inter), il primo dell’era Della Valle. «Oggi, quando vedo una partita, molto spesso ci sono giocatori che ho portato io in Italia. Questo mi riempie d’orgoglio», dice Corvino. Beve tre gocce di caffè, tre di numero, «è un vezzo, perché il caffè lo adoro ma non posso berne tanto. Allora chiedo tre gocce, e fingo di berne qualcuno in più». A tavola usa l’olio di casa sua, di Vernole, che si porta dietro «come fanno certi giocatori di biliardo con la stecca», sorride. A volte, raccontano, passeggia tra gli ettari di ulivi che ha in campagna, le mani in tasca, la testa chinata sul sentiero. Alle spalle c’è la casa che gli ha lasciato il padre, «l’abbiamo solo allargata un po’: nel frattempo la famiglia è cresciuta». Sognando quello che sognano sempre tutti: «Lo scudetto», dice tornando al presente, guardando di nuovo giù, sui campi. Da qualche parte ci sarà qualcuno che glielo farà vincere. Può essere ovunque.