Contro il Fair Play Finanziario

Una voce "anti": perché è illiberale, perché pregiudica la concorrenza, perché ne soffrirebbero soprattutto le piccole. Un'analisi dal libro "Money and Football".

Dall’oligopolio al monopolio il passo rischia di essere breve. Lo scudetto nel calcio italiano è da quasi sempre appannaggio di tre club: Juventus, Milan e Inter, con la prima un passo in avanti alle due milanesi. Alle loro spalle si è mossa una piccola aristocrazia del pallone, che in tempi lontani con più convinzione e in quelli recenti in maniera più episodica ha strappato loro la palma del vincitore. Da 15 anni, però, il trofeo non esce più dall’asse Milano-Torino. Mentre la china delle ultime stagioni lascia pensare a una trasformazione in senso monarchico del nostro campionato: le affermazioni della Vecchia Signora, quattro volte di seguito campione d’Italia (di cui una con record di punti), hanno fatto assomigliare la Serie A alla Bundesliga, dove il Bayern domina e le altre raccolgono gli avanzi. Un trend che non solo segna il crollo della competitività sportiva dei club italiani, ma anche lo schianto di quella economica.

Nell’incapacità di autoriformarsi del nostro calcio e con l’iniziativa lasciata all’intraprendenza dei singoli, il futuro sembra segnato: i più forti rimarranno più forti. Il problema non è solo italiano. Anche la Champions League, massima espressione del movimento calcistico europeo, sta vivendo un simile percorso di contrazione. Dalla fondazione al 1997, quando al torneo partecipavano solo i campioni nazionali in carica, hanno vinto la coppa dalle lunghe orecchie club provenienti da 10 leghe diverse. Da quando le società partecipanti sono divenute 32 con relativo irrobustimento del tabellone, hanno invece trionfato squadre espressione di soli 5 campionati. Delle ultime 10 edizioni, 4 se le è aggiudicate il Barcellona.

Messi è il secondo giocatore più pagato al mondo. David Ramos/Getty Images
Messi è il secondo giocatore più pagato al mondo. David Ramos/Getty Images

Se in Italia è legittimo chiedersi se vedremo mai più Genoa e Bologna vincere lo scudetto, all’estero c’è chi è sicuro che non solo Psv e Stella Rossa possano considerare le proprie Champions in bacheca pezzi unici, ma che l’élite del calcio europeo di questo passo non vivrà nessun tipo di avvicendamento. Detto in altri termini: «Chievo Verona, Unterhaching – terza squadra di Monaco di Baviera – e Schunthorpe – Lega Pro inglese – non vinceranno mai la Coppa dei Campioni». Latore di tanta sfiducia è Stefan Szymanski, docente della University of Michigan, economista dello sport e autore nel 2010 di Calcionomica (Isbn edizioni), saggio scritto a quattro mani col giornalista Simon Kuper. Szymanki ha di recente dato alle stampe Money and Football (Nation Books), testo in cui analizza le condizioni finanziarie del calcio europeo e delle norme che lo amministrano.

A differenza della federazione italiana, la Uefa ha provato a darsi delle regole con il Financial Fair Play (Ffp): l’obiettivo esplicito è assicurare la solidità economica del calcio continentale, mentre quello sottinteso (ma neanche troppo) è tarpare le ali ai “sugar daddy”, i magnati arabi e russi che con spropositate iniezioni di capitali – vedi Manchester City e Psg – innalzano i propri club ai vertici europei dall’oggi al domani. Il Ffp, entrato gradualmente in vigore dal 2009, impone alle società che partecipano ai due tornei Uefa una disciplina manageriale per la quale il rapporto tra ricavi e costi deve essere contenuto e il quadro debitorio misurato, pena sanzioni di varia entità. L’impianto, però, trema ed è destinato a cambiare. Lo scorso 23 giugno il tribunale di Bruxelles ha accolto e rinviato alla Corte di Giustizia Europea un ricorso presentato contro il Financial Fair Play dallo stesso avvocato che nel 1995 arrivò alla fatidica sentenza Bosman, quella che ha rivoluzionato le regole del calcio mercato. Il legale contesta l’inconciliabilità tra Ffp e trattati comunitari sulla libertà d’impresa e di circolazione dei capitali. Una settimana dopo la Uefa ha giocato due mosse. Innanzitutto ha presentato a sua volta un contro-ricorso. Poi Michel Platini, numero uno del calcio europeo, ha ufficializzato modifiche che alleggeriscono il sistema: per i club che non sono già incorsi in sanzioni, nel prossimo triennio sarà possibile sforare il tetto dei 30 milioni di deficit, a patto di presentare e farsi autorizzare un business plan che spieghi come la società intenda far quadrare i conti. La controversia sul Financial Fair Play non si chiude certo così. Aspettiamo i prossimi capitoli.

Ibrahimovic, al PSG, è il terzo più ricco del calcio. Victor Fraile/Getty Images
Ibrahimovic, al PSG, è il terzo più ricco del calcio. Victor Fraile/Getty Images

Intanto torniamo a Szymanski. Il cattedratico nel suo ultimo lavoro analizza gli andamenti del calcio europeo pre-anni Novanta (quando era un movimento che mobilitava capitali molto inferiori ad altri settori industriali) e dopo il boom finanziario (quando diventa invece un comparto economico rilevante). I pilastri del pallone risultano essere due, validi in entrambe le fasi. Il primo è la “dominance”, cioè la tendenza all’instaurazione di oligopoli. È un fenomeno indipendente dalle dimensioni dei campionati: accade nei grandi paesi, come nel caso della Liga, ma anche in quelli infinitesimali, come dimostra lo strapotere dell’Hb Tòrshavn nella massima serie delle Far Oer. Il secondo è il “distress”, la continua condizione di sofferenza finanziaria dei club che, ieri come oggi, procedono sempre con l’acqua alla gola. Malgrado la retorica sulla crisi del calcio, contesta Szymanski, fa parte della razionalità del gioco che i patron chiudano il bilancio in perdita, perché il loro vero utile è il ritorno sociale della vittoria sul campo. E i fatti, sottolinea l’autore, segnalano che il movimento nel suo complesso non ne soffre affatto. I fallimenti rimangono un fenomeno marginale e – non se ne abbiano a male i tifosi del Parma – non riguardano mai le grandi società.

Tra il 2008 e il 2012 la crescita del Pil dei paesi europei si è fermata a causa della crisi economica, al punto che nel 2013 il prodotto interno lordo dell’Eurozona era mediamente ancora più basso di quello del 2007. Nello stesso lasso di tempo, al contrario, il fatturato dei club continentali è cresciuto del 28 per cento. Non fa eccezione la Serie A che, stando alle rilevazioni Deloitte, è passata dai 1064 milioni complessivi di ricavi della stagione 2006-2007 ai 1720 del 2013-2014.

Il nemico della democrazia nel calcio europeo è il Financial Fair Play.

Secondo Szymanski il limite del calcio europeo è che, allo scopo di non permettere più agli Abramovic e ai Mansour le pratiche che Platini ha definito di “doping finanziario”, si è dotato di regole che di fatto «ossificano le gerarchie esistenti». Il modello su cui si regola il pallone è semplice: per dare lustro al brand, conquistare nuovi tifosi e interesse nei paesi dove il football è emergente bisogna vincere; per essere competitivi serve spendere, soprattutto in cartellini ed ingaggi dei migliori atleti su piazza; più si inanellano successi, maggiore sarà il vantaggio sportivo e commerciale sulle contendenti, con progressivo innalzamento dei livelli. In questo percorso non si può non contemplare il rischio di generare deficit, osserva Szymanski , e soprattutto non si può pensare di inserirsi nel giro ristretto delle grandi senza un forte indebitamento iniziale. «Negli ultimi anni Chelsea e Manchester City hanno dimostrato in maniera piuttosto convincente», scrive il professore della University of Michigan, «che spendendo in maniera monumentale si conquistano titoli nazionali. Ma essere la squadra più cara non ti garantisce la vittoria finale».

Gareth Bale è al quarto posto tra i calciatori più pagati. Denis Doyle/Getty Images
Gareth Bale è al quarto posto tra i calciatori più pagati. Denis Doyle/Getty Images

Il nemico della democrazia nel calcio europeo è il Financial Fair Play. Se Campedelli, o un eventuale sceicco interessato a rilevare il Chievo, volesse fare della squadra scaligera una rivale di Real e Barcellona non potrebbe muoversi sul mercato come vorrebbe, ingaggiando in un sol colpo giocatori per un centinaio di milioni di euro come il Psg nell’estate 2011, ma dovrebbe rispettare una tabella di crescita per la quale il gap con le spagnole rimarrebbe in eterno incolmabile. «E considerato che la competizione oggi è anche sulla capacità di attrarre magnati», ammonisce Szymanski, «un sistema illiberale come quello della Uefa li potrebbe spingere verso federazioni più accoglienti, come quella statunitense o quelle nascenti asiatiche, a detrimento del calcio europeo». Per queste ragioni Money and Football è un appello contro il Ffp.

Si può dire che Platini abbia sbagliato per un eccesso di generosità. Gli esecutivi italiani e i governi della Figc susseguitisi nell’ultimo decennio, invece, hanno peccato di immobilismo. L’ultimo intervento legislativo di un certo peso che si ricordi è la legge Melandri del 2008 sulla ripartizione collettiva dei diritti tv, norma molto complessa che non piace agli operatori del settore. Mentre sull’ordine pubblico negli stadi i palazzi romani hanno sfornato più decreti, la montagna della discussione sulla legge per gli impianti di proprietà ha partorito il topolino di un articolo nella legge di Stabilità del 2013. La stagione di riforme annunciata dal presidente federale Tavecchio, a partire dalla riduzione della Serie A da 20 a 18 squadre, è stata rimandata. In un contesto dove manca una cabina di regia unica, le società si modernizzano alla spicciola. Chi gode di una posizione di forza con le amministrazioni locali (vedi Juventus e Udinese) si porta avanti sul tema stadio privato, chi invece gode di un brand di suo riconoscibile (Roma, Bologna, Inter, a quanto pare il Milan) attrae capitali stranieri. Gli altri si arrangiano come possono.

Ancora Barça: neymar Jr. è al quinto posto tra i calciatori con i più alti guadagni. David Ramos/Getty Images
Ancora Barça: neymar Jr. è al quinto posto tra i calciatori con i più alti guadagni. David Ramos/Getty Images

«In Italia, a differenza che in Germania o in Inghilterra, manca una visione collettiva della Serie A», commenta Francesco Pirone, docente della Federico II e autore col collega federiciano Luca Bifulco nel 2014 di A Tutto Campo, il calcio da una prospettiva sociologica (Guida). «Il campionato britannico si è ristrutturato con forti strumenti di bilanciamento interno delle risorse, nella convinzione che la priorità fosse vendere innanzitutto all’estero un ottimo prodotto Premier, e poi stabilire le gerarchie interne». Nel Belpaese? «Al contrario da noi si è sempre ritenuto che dovessero essere le eccellenze a trainare l’intero movimento», risponde. «E ancora oggi che c’è la sola Juve a spiccare sul piano internazionale, ci si affida a lei per suscitare interesse sul campionato». Il limite non è solo di vision, ma anche di metodo: «Federazione e Lega da noi sono presidiate in maniera puramente politica», continua Pirone, «con la formazione di alleanze tra club basate sulle contingenze e il più delle volte orientate alla conservazione dello status quo». Ne consegue che non solo la Figc non è in grado di produrre grandi riforme del calcio italiano, «ma neanche di dare un indirizzo alle società in fatto di patrimonializzazioni: stadi e centri sportivi mettono al riparo i bilanci dalle fluttuazioni di cartellini e risultati sportivi. Invece anche club come il Napoli non ne risultano proprietari».

Il docente della Federico II non teme una Serie A proprietà esclusiva della Juventus, piuttosto si aspetta «un campionato dominato da poche squadre capaci di cicli vincenti lunghi». Per club di calibro medio alto come Fiorentina e Lazio «la conquista dello scudetto, possibile, passa dalla capacità di approfittare dei fisiologici passi falsi delle big», mentre l’eventualità che, come nella Prima Repubblica del pallone, si aggiudichino lo scudetto società come Cagliari e Bologna «è, in queste condizioni, da escludere». Non c’è molto spazio, insomma, per le illusioni.

 

Nell’immagine in evidenza: Cristiano Ronaldo, calciatore più pagato del mondo. Denis Doyle/Getty Images