Il football americano, in Italia

A Milano si è disputato il trentacinquesimo Italian Bowl: un'esperienza personale e una riflessione sullo stato del movimento nel nostro Paese

Quando ho saputo che l’edizione numero trentacinque della finale del campionato di football americano italiano tra Milano Seamen e Parma Panthers si sarebbe svolta al Velodromo Vigorelli di Milano, lo storico impianto per il ciclismo su pista, la mia mente è volata a Dallas, precisamente all’AT&T Stadium, l’arena più avveniristica dell’intero panorama NFL, simbolo dell’opulenza della lega statunitense e celebre per avere un maxi schermo grande quanto un campo da calcio. So bene che il paragone è scomodo, inutile e fuorviante, specie per uno sport che in Italia ha ancora addosso l’etichetta di amatoriale, ma quando penso a una palla ovale il mio immaginario è composto da una fitta serie di immagini (e luoghi comuni) a stelle e strisce. Non che mi aspettassi di trovare il marciapiede e il parcheggio antistanti il Velodromo colmi di tifosi intenti a grigliare costolette bevendo ettolitri di birra, ma la speranza era di bowlritrovarmi in un ambiente che ne avesse perlomeno qualche sfaccettatura. Faccio la doverosa premessa di essere un profano del football versione italiana, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per mancanza di una stampa specializzata ma soprattutto (le prime due sono solamente scuse accampate, lo ammetto) perché non riesco a prescindere dal paragone con l’originale. La stessa dinamica si presenta in tutti gli sport americani trapiantati in Europa, e seppur lo riconosca come un limite personale, sono costretto a convivere con l’incapacità di riuscire ad andare oltre, perdendomi spesso delle grandi cose (le finali di quest’anno tra Sassari e Reggio Emilia, ad esempio). La valutazione però parte da un fattore tanto banale quanto fondamentale: con lo sport “originale” ci sono cresciuto, e avrà sempre per me quel qualcosa in più: l’organizzazione, la gestione, l’atmosfera o semplicemente il modo di concepire e di vivere lo sport.

bowl2Il Superbowl italiano cade in concomitanza con le celebrazioni per il 4 luglio e l’esterno del Vigorelli, sotto l’egida dell’associazione J4 Milano che da anni organizza i festeggiamenti per il giorno dell’indipendenza americana, è popolato da un nugolo di persone che si aggira per i piccoli stand a metà strada tra il folkloristico e il divulgativo. Tra tour operator e stand informativi viene offerta la possibilità di cavalcare un toro meccanico o di fare una foto insieme ai cartonati del presidente Obama e della First Lady. Lo spazio dedicato al food è quello più nutrito, sia per la concomitanza con Expo, sia per una naturale affinità tra Stati Uniti, cibo e football, con diversi stand che propongono pollo fritto, costolette, hamburger in mille varianti.

Nonostante il caldo soffocante, la mancanza di buonsenso ha la meglio su di me, e forse per cercare di entrare maggiormente in simbiosi con l’evento (o solo per sete), ingurgito una Brooklyn Brewery dietro l’altra aggirandomi senza una meta precisa tra gli stand posti all’interno della lunetta dello stadio. Mi sembra di essere in una di quelle feste in cui capiti per caso perché invitato da un amico, ma l’amico poi decide di non presentarsi, lasciandoti solo in compagnia di sconosciuti: 4.500 spettatori, 124 giocatori, più staff tecnico, cheerleader e assistenti.

bowl3Il problema del football in Italia è che, nonostante sia presente da quasi quattro decadi e abbia una storia di tutto rispetto, è ancora un’entità che si muove a ridosso del professionismo senza riuscire a superare l’ultimo ostacolo. Se all’inizio degli anni ’80, insieme all’importazione in Italia di molti prodotti culturali di matrice Usa, ha vissuto un breve lampo di popolarità, oggi le schiere di appassionati sono poche migliaia e, come sostiene in un acceso dibattito pre-partita Marco Mutti, presidente dei Seamen Milano, la squadra che vanta il maggior seguito in Italia, i soldi raccolti permettono di pagare solamente lo staff sanitario. Da questo punto di vista è impossibile pensare, perlomeno in un futuro prossimo, a un’espansione tale che permetta di fare di questi giocatori dei professionisti retribuiti. Il dibattito vede protagonista anche Rendal Narciso, direttore di IFL magazine, il portale principale del football in Italia, che spinge perché vi sia un minore elitarismo e una maggiore espansione verso l’esterno per una lega che tuttora è quasi del tutto sconosciuta al di fuori del proprio circuito.

I molti sponsor presenti e un’acclamata partnership con NFL (tramite il Game Pass, servizio che permette di vedere in streaming tutte le partite del campionato statunitense) hanno dato un maggiore slancio mediatico all’evento, privandolo però del nome che si portava dietro da ben 34 edizioni. Superbowl infatti è un marchio NFL, che ne detiene l’esclusiva: questo ha costretto gli organizzatori a cercare un altro nome. Da qui Italian Bowl. Questo binomio tra l’imitazione americana e l’Italia si ripresenterà durante tutta la serata, sia nel pre-partita che nel tifo del pubblico e anche nella partita stessa, diretta da un arbitro donna statunitense che chiama i falli in inglese.

È cosa nota che il football americano è uno sport complesso, con dinamiche di gioco uniche e con una filosofia sportiva alle spalle che per chi scrive non ha paragoni, uno sport difficile da piazzare all’interno di un mercato, quello italiano, nel quale persino il basket, nonostante la grande ondata di popolarità che sta avendo negli ultimi anni, rimane ancora considerato di nicchia. Servono proposte e idee per permettere al football di ampliare il proprio target di riferimento e la propria fan base, in modo tale da essere riconosciuto come uno sport alla stregua di tutti gli altri.

Le immagini dell’Italian Bowl 2015: Panthers vs Seamen 14-24

Ma l’evento della giornata, nonché il motivo per cui tutti eravamo lì era la partita: centoventiquattro giocatori con età variabili tra i 17 e i 44 anni hanno dato vita a un gran bel match, ricco di colpi di scena e macchiato solo da qualche scelta arbitrale dubbia. I Milano Seamen, forti del fattore campo (anche se i tifosi di Parma sono sembrati decisamente più rumorosi), realizzano due touchdown già nel primo quarto, entrambi su lanci del QB californiano Jonathan Dally e ricezioni del Wide Receiver Stefano di Tunisi. Grazie a un sapiente possesso palla e agli attacchi inefficaci della squadra parmense, il risultato rimane congelato fino all’inizio del quarto periodo, quando un drive spettacolare dei Panthers riporta la partita a un solo possesso di differenza. L’entusiasmo dei parmensi però ha vita breve: se nel drive successivo riescono a contenere l’attacco di Milano concedendo solo un field goal da tre punti, nel drive successivo il QB Tommaso Monardi si vede intercettare la palla decisiva da Justin Bell, che va poi al terzo touchdown di Milano. Partita chiusa. L’entusiasmo delle persone sugli spalti è palpabile e allo stesso tempo, a sua volta, emozionante.

Dopo la premiazione, la stanchezza, il caldo e le birre che nel frattempo sono diventate troppe, decido che è arrivato il momento di levare le tende e provare a mettere in ordine i pensieri. Da un lato è innegabile aver assistito a un gran bel match, tra due squadre capaci e con dei talenti non indifferenti, dall’altro un’organizzazione che è ancora alla ricerca di un sistema che le permetta di emergere dall’ultra nicchia dello sportivo italiano. Che la strada da percorrere sia lunga è indubbio ma la speranza è che, con i giusti sponsor e le giuste partnership, si possa rendere giustizia al cuore che questi ragazzi mettono quotidianamente per allenarsi e andare in campo. Arrivederci al 2016.

 

Crediti per le foto: Giulio Busi