Liberatori d’America

Tigres e River, le differenze di una Copa Libertadores. Gli uni potrebbero essere i primi messicani, per gli altri sarebbe una resurrezione.

Seduti sull’erba dell’Universitario, André-Pierre Gignac e Rafael Sóbis guardano la notte passare. L’odore marcio dei fumogeni e il lampo dei petardi si mescola al sapore della vittoria, nessuno vuole lasciare lo stadio. A Sóbis torna in mente quella notte di cinque anni prima, quando, vinta un’altra semifinale, era rimasto a contemplare lo spettacolo sugli spalti con addosso una maglia diversa. Tutto solo. Tre settimane più tardi vinceva la sua seconda Libertadores. Con lui ora c’è questo francese dalla faccia piena di spigoli e le labbra da seduttore incallito, l’ultima diavoleria sbarcata in Messico dal calcio europeo. Gignac è stato uno degli eroi della serata contro l’Internacional, ha fatto quello che doveva, anche a gomitate in area, trascinando i Tigres alla prima finale della loro storia di club. Altre due squadre messicane ci erano riuscite, ma nessuna ha alzato la coppa. Di peggio c’è che i Tigres affronteranno il River Plate, e quei gauchos aspettano da diciannove anni l’occasione per alzare al cielo la coppa per la terza volta.

Cruzeiro v River Plate - Copa Bridgestone Libertadores 2015 Quarter-Finals
River-Cruzeiro, quarti di finale

Mercoledì non sarà soltanto una resa dei conti. Per l’andata, che si gioca in Messico, i tifosi del River sono partiti in massa, arrivando a Cancún e poi a Monterrey nonostante in giro non ci sia più lo straccio d’un biglietto. Lo avevano detto alla televisione, su Twitter, alla radio. «Ma sono anni che aspettiamo questo momento», dicono all’aeroporto i tifosi del River. Se la guarderanno nei bar, buttando giù qualche birra. È la partita dell’anno, c’è ben più di una Libertadores in palio. Con la Gold Cup, il Messico ha conquistato il feudo del Centro America. Va bene la Nazionale, ma adesso, con l’ultimo atto della Libertadores, il calcio messicano può prendersi una rivincita sul fútbol argentino a livello di club. Tigres e River si erano già incontrati in questa stessa edizione della coppa, nel gruppo di qualificazione. All’andata, al Monumental, avevano pareggiato 1-1; nella gara di ritorno i messicani conducevano per 2-0 fino a tre minuti dal novantesimo, poi avevano subìto la clamorosa rimonta degli argentini: ancora pareggio, 2-2. Adesso però è un’altra storia. Il 5 agosto, in Argentina, si saprà chi è il vincitore. La diretta è da seguire su Fox Sports.

 

Tigri del Messico

Stava per succedere nel 2001, quando il Cruz Azul aveva trascinato i campioni del Boca Juniors ai calci di rigore. Da bravo allenatore, savio e impenitente, Carlos Bianchi guardò quei calvari lunghi undici metri accovacciato in panchina, senza emettere un fiato, poi saltò su e venne anche lui inghiottito dalla festa albiceleste. A quelli del Cruz Azul restò l’angoscia di essere stati la prima squadra messicana a giocarsi una finale di Libertadores, e anche la prima a perderla. Però nessuno li aveva messi in croce. Nove anni più tardi era toccato al Chivas di Guadalajara. All’andata, Adolfo Bautista aveva segnato il gol del miracolo. Troppo presto per cantare vittoria: i brasiliani dell’Internacional avevano rimontato e conquistato il titolo (in quella squadra c’era anche Sóbis, che oggi gioca nei Tigres). Nel 1998, cioè da quando le squadre messicane sono state ammesse alla Libertadores, l’idea che un club del Centro America potesse spingersi così avanti nella competizione era semplicemente assurda. Ma il calcio messicano è pieno di talento, e non c’era voluto molto perché anche il blocco del Messico approdasse a uno degli ultimi turni di questa giostra tutta sudamericana. E poi? Perché ancora nessuna squadra messicana ha vinto una Libertadores?


Il gol dell’illusione del Bofo Bautista

Secondo Forbes c’è un motivo: ai club messicani la Copa Libertadores non interessa abbastanza. La questione sono i soldi. Oltre a essere una competizione storica, la Libertadores è servita a dare visibilità ai club di paesi come Cile, Perù, Paraguay, Bolivia, Ecuador, Argentina in certi casi. E premi. Discorso diverso per Brasile e Messico, che ricevono più risorse dalla pubblicità e dai diritti tv che dai premi della Libertadores. In media, un club finanziariamente solido della Liga MX ha un bilancio di 21 volte superiore a uno che gioca, ad esempio, in Paraguay. Gli argentini del San Lorenzo, che hanno vinto il titolo nel 2014, quest’anno hanno potuto investire 10,7 milioni di dollari, 47 volte di più di un club modesto in Argentina, come il Temperley. E mentre per una squadra del Perù, dell’Ecuador o della Bolivia vincere la Copa Libertadores (5,1 milioni di dollari in premi) può voler dire ipotecare più del 110 per cento del suo guadagno annuale, per una squadra della Liga MX la cifra equivale appena al 20 per cento. Poco.

Non sono i soldi a interessare i Tigres. Dietro la squadra di Monterrey c’è la Cemex, multinazionale del settore edile presente in cinque continenti e in oltre 50 paesi. L’ultimo rapporto parla di 15,2 miliardi di dollari di fatturato (circa 14 milioni di euro). Gli sponsor sono di primo livello, Adidas e Coca-Cola su tutti, e gli abbonati arrivano a coprire i 43mila posti dell’Universitario per quasi l’83 per cento. No, non sono i soldi a interessare i Tigres. Come ha dichiarato a Forbes Sebastián González, ex attaccante del Cile e di club come il Colo-Colo, «per i club messicani è più facile non prestare attenzione alla Libertadores perché hanno la Concachampions (Coppa Concacaf, zona alla quale appartiene il Messico) che dà loro un biglietto per il Mondiale per Club. Forse un giorno, vincendola, capiranno l’importanza della mitica Libertadores».

 Internacional v Tigres - Copa Bridgestone Libertadores 2015 Semi-Finals

Big Mac Gignac

Quel giorno potrebbe essere vicino. A inizio stagione i Tigres si sono rinforzati come mai era successo nella loro storia. Dal Pachuca è arrivato Damm, Uche è stato preso dal Villarreal, e altri nomi sono in lista d’attesa. Ma il colpo dell’anno è quello di André-Pierre Gignac. Quando è sbarcato a Monterrey, il 18 giugno scorso, l’ex attaccante dell’Olympique Marsiglia indossava una maglietta leggera di cotone, calzoncini corti e un cappello messicano. Quel cappello ora si trova nei negozi insieme alla sua maglia numero 10 e a un peluche che gli somiglia. Il trasferimento di Gignac è il più grande evento nella storia delle tigri, il suo arrivo è stato trasmesso in diretta tv per un’ora e, ha spiegato all’Equipe Willie Gonzalez, giornalista di Multimedios Deportes, «nella grande città del Nord del Messico l’attaccante è già una superstar». Forse Gignac è più di questo. Perché il secondo miglior marcatore della Ligue1 2014/2015 ha scelto di andare a giocare in Messico a 29 anni, nel pieno della sua carriera? Lo voleva l’Inter, lo cercava mezza Europa. «Se i francesi non sono d’accordo sul trasferimento in Messico, che se ne vadano a la mierda», ha dichiarato Christophe Cano, il suo procuratore.


La semifinale contro l’Internacional, con il gol di Gignac

Appena due, tre anni fa, dagli spalti di Francia gli urlavano: «Big Mac pour Gignac, Big Mac pour Gignac». Lontano da Marsiglia quei chili di troppo André-Pierre se li sentiva cantare in faccia. Poi all’Olympique è arrivato Marcelo Bielsa: «Io ti conosco a memoria, so tutto della tua carriera. Vai a perdere due chili e segna 25 gol». Gignac di chili ne perde sei e nell’ultimo campionato arriva a 21 gol. Bielsa lo ha letteralmente trasformato. Al Tigres il francese prenderà 4,2 milioni di dollari l’anno, diventando così il calciatore più pagato della Liga MX. Ha superato Roque Santa Cruz, ex Bayern Monaco che oggi gioca nel Cruz Azul e prende 2,6 milioni, e pure Humberto Suazo, fermo a 3. Ma quella di Gignac non sembra una questione legata agli sponsor, o al conto in banca, non soltanto almeno. C’è un fascino endemico che si nasconde in quelle terre, in Messico, Gignac lo ha percepito in uno dei sui viaggi. Il calcio messicano, così come molte altre nazioni del pallone, sta crescendo, si espande. Nell’ultima campagna trasferimenti la Liga MX ha investito quasi 50 milioni di dollari, più della Serie A (ferma a 45) e alla Ligue1 (30), avvicinandosi non di poco alla Bundesliga (55). È un calcio che vive in una metà geografica e spirituale: tra lo spettacolo degli Usa e l’animo passionale del Sudamerica, quello vero. Un posto perfetto per sognare.

Figlio di nomadi, da ragazzo Gignac viveva in caravan e roulotte. Aiutava la famiglia vendendo abiti alle fiere e cacciando conigli e cervi. Serviva davvero un europeo col suo bagaglio tattico e l’indole da argonauta a infiammare i messicani? Stadio Universitario, ritorno della semifinale Tigres-Internacional. I brasiliani hanno vinto la partita d’andata, ma la temperatura al Vulcano (come chiamano lo stadio di Monterrey) sta per esplodere. Minuto 18, dalla sinistra arriva un cross pesante come il piombo. Fino a quel momento Gignac è stato osannato, applaudito, celebrato come un messia che debba compiere un qualche miracolo. Il balzo è sufficiente a trasformare quel cross in gol, il primo dei tre con cui i Tigres si sbarazzeranno del club di Porto Alegre. Il primo di André-Pierre con la maglia dei Tigres. A fine partita, seduti ai bordi del campo, Gignac e il compagno di squadra Sóbis osservano la festa dei 43mila sugli spalti. I fumogeni, i canti, le bandiere al vento. «Incredibile», diranno poi a fine partita. Su Twitter è già partita la campagna #TodoMéxicoEsTigre, Gignac è dappertutto.

 Cruzeiro v River Plate - Copa Bridgestone Libertadores 2015 Quarter-Finals

Resurrezione River

Giugno 2011, il River Plate pareggia contro il Belgrano e sprofonda in Serie B. È la prima volta in oltre di cento anni di storia, è la fine di un’epoca. Al Monumental quel giorno piangono tutti. Un vecchio tiene la testa nascosta nella bandiera rossa e bianca, una donna ha le guance coperte di lacrime e mascara, molti fissano il vuoto, pallidi e immobili. Nessuno può credere che il club più titolato d’Argentina sia retrocesso davvero. E dopo va anche peggio di così. Salta fuori che il River ha un buco di quasi 200 milioni di pesos, un debito enorme, gigantesco, abbastanza per rimanerne strozzati, sufficiente per dire addio alle eterne sfide contro il Boca Juniors, alle lotte per il titolo, e ovviamente anche alla partite di Copa Libertadores. L’ultima il River l’aveva vinta nel 1996, proprio il 26 giugno, lo stesso giorno della retrocessione. Pensa il caso certe volte. Due gol di Hernán Crespo avevano tagliato le gambe ai colombiani dell’America de Calí e il River era diventato campione continentale. Era stato incredibile.


La retrocessione e le lacrime

Dopo un anno di B, il River è tornato subito nel massimo campionato. Adidas, che aveva anticipato i soldi del 2014 per ammortizzare le spese, decide di rinnovare il contratto per altri quattro anni, e alla porta si affaccia un nuovo sponsor, la BBVA, colosso bancario che sponsorizza anche il Boca. Tutto procede a rilento, ma procede. Nel 2012 il River spende solamente 4 milioni di euro, basta colpi di testa, si cambia il modo di pensare, e tutto sembrerebbe andare a gonfie vele se a dicembre del 2013 non saltasse fuori lo scandalo Passarella (appropriazione indebita di denaro della società) e un nuovo, insormontabile passivo da affrontare. Sembra l’inizio di una débâcle. Per fortuna che il calcio è più forte della moneta e, nonostante sia pieno di debiti, nel 2014 il River è tornato a far sognare.

Oltre al titolo nazionale, gli argentini conquistano anche la prima Copa Sudamericana e la Recopa contro il San Lorenzo. Ma è la Libertadores su cui il River vuole mettere le mani adesso. Ha già sfatato il primo mito: quello del “6”. Vinta l’edizione del 1986 e quella del 1996, gli argentini avevano giocato anche le finali del 1966 e del ’76, perse entrambe. È una squadra con qualche giovane ambizioso e veloce, e con un generale in panchina, Marcelo Gallardo, che diciannove anni fa quella coppa l’aveva alzata. Ha detto: «L’allenatore vive il calcio ventiquattro ore. Ci sono un sacco di piccoli mondi da risolvere, le teste dei giocatori». A 7 anni sognava di fare il pilota, del calcio gli importava poco. Oggi, dopo una carriera orgogliosa in Argentina e anche in Europa, Gallardo è il simbolo del nuovo River. «I giocatori più intelligenti generano i risultati migliori. Risolvono situazioni complesse. C’è bisogno di giocatori intelligenti per il collettivo». La finale di Libertadores contro il Tigres arriva un anno e un giorno dopo il sì di Gallardo alla panchina del River. Chissà se ha avuto abbastanza tempo per risolvere tutti i suoi mondi.

 

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