Il viaggio di Salah

Da Port Said, il cui ricordo porta sulla maglia, fino a Roma: gli inizi e le avventure di Momo Salah, un calciatore che forse non abbiamo ancora compreso del tutto.

Troppo ruvido e stanco, il vecchio Walter, troppo deluso per stare attento a non inciampare nelle bugie. «Il Salah che sta giocando adesso è un giocatore che va rimpianto: è un errore che ho fatto, la responsabilità è solamente mia», dice ruotando gli occhi. Certe notti Sabatini pare ancora più ombroso del solito, con quelle guance scavate nella roccia solfurea e lo sguardo da pirata. Siamo già un pezzo avanti nella storia di Mohamed Salah, è la sera del 19 marzo, la Roma ha perso agli ottavi di finale di Europa League 3-0 contro la Fiorentina e il diesse giallorosso, trascinata via un’altra cicca di Marlboro rossa con la suola, ammette l’evidenza: non aver portato Salah a Roma è stato uno sbaglio. Ce l’aveva a tanto così, l’egiziano, e invece se l’era fatto soffiare. Però cosa vuoi, il calcio è questo, è una questione di attimi. Bisogna saperli prendere, altrimenti fuggono via. Oggi Salah si allena a Trigoria di nascosto, è un giocatore della Roma, ma non è stato così semplice cancellare quell’errore.

Salah contro la Roma

L’attimo giusto

Anche Bernhard Hausler, il presidente del Basilea, ha imparato che gli affari girano sempre nello stesso modo. O sei pronto, o ti fregano la merce da sotto al naso. Qualche giorno dopo il disastro di Port Said, gli scontri fra tifosi che hanno provocato 74 morti, è lui a inviare il suo direttore sportivo in Egitto. Georg Heitz è uno di quei dirigenti che rispecchiano la new generation, taglio di giacca all’ultimo grido, jeans, scarpe comode, smartphone sempre acceso. È uno a cui piace girovagare, scovare il talento qua e là, esplorando tutte le possibilità del calcio. E, nonostante la sciagura, anche l’interruzione del campionato egiziano sembra l’opportunità per un buon affare. È il 2012, gli emissari del Basilea agganciano Hany Ramzy, il ct dell’Egitto Under23. Sta mettendo su la squadra per i Giochi di Londra, nessuno si aspetta da lui più di tanto, ma Ramzy è convinto di avere le carte giuste per passare almeno il turno. Perché non facciamo una bella amichevole, dice Hausler ai suoi collaboratori, una partita per vedere fino a che punto ne vale la pena. Marzo: al Rankhof Stadion il Basilea affronta la nazionale egiziana, la stessa squadra che di lì a qualche settimana parteciperà alle Olimpiadi. Sugli spalti non c’è molta gente, l’aria è ancora fredda, non c’è niente da vedere. Tranne Salah. La partita finisce 4-3 per gli egiziani, Mohamed parte dalla panchina, poi entra e fa il diavolo a quattro, segna due gol, fa impazzire il terzino svizzero, e Heitz, insieme al presidente Hausler, a fine partita lo convince a passare con loro un paio di settimane. Beh, pensa Salah, in Egitto è tutto fermo, perché no. Dirà il numero uno del Basilea: «Non eravamo pienamente convinti. Qualche volta sembrava come assente, un osservatore».

Salah esulta dopo aver segnato contro la Nuova Zelanda, alle Olimpiadi del 2012. Francis Bompard/Getty Images
Salah esulta dopo aver segnato contro la Nuova Zelanda, alle Olimpiadi del 2012. Francis Bompard/Getty Images

In effetti Salah non parla molto. C’è un pizzico di timidezza dietro a quei ricci neri e lucidi, ma l’impressione è che Momo osservi il mondo circostante con attenzione, studiandolo bene, in attesa del momento giusto. Il silenzio l’ha imparato a casa. La madre fa la casalinga e si prende cura dei tre figli, il padre, che una volta giocava a calcio anche lui, fa l’impiegato amministrativo in ospedale. A Basioun, dove vivono, a cento chilometri dal Cairo, Salah trascorre le giornate per strada a giocare, sognando di essere Ronaldo o Zidane. A quattordici anni passa ore in autobus per andarsi ad allenare con le giovanili dell’Arab Contractors. La madre è preoccupata, non vuole che Mohamed trascuri lo studio. Dirà lui al Der Bund: «Quando arrivavo a casa, la sera, ero stanco e avevo bisogno di dormire. Il giorno dopo si ricominciava». Anche il padre è preoccupato, cerca di persuaderlo che il calcio è una questione di fortuna, e se va male? Il giorno che lo vede giocare decide di rimettere il volere a Dio: «Affidiamoci a lui». Salah esordirà a 17 anni nella Serie A egiziana, mai nessuno ci era ancora riuscito.

Figlio del vento

Vestito in un completo grigio scuro, il giorno di Pasqua del 2012 Heitz vola al Cairo convinto di chiudere con Sherif Habib, il presidente dell’Arab Contractors, l’affare che porterà Salah al Basilea. «Se si desidera una Rolls-Royce, si deve anche pagare il prezzo di una Rolls-Royce», dice Habib allungando un sorriso in attesa di un assegno. Due milioni di euro bastano, le parti si mettono d’accordo. Momo non parla inglese, la cultura svizzera è così lontana da quella egiziana, forse è troppo presto per un salto del genere. Invece no. Dopo le Olimpiadi (in cui Salah trascinerà l’Egitto ai quarti contro il Giappone), la stagione 2012/2013 è portentosa. Basta la prima partita con la maglia del Basilea. Heiko Vogel, l’allenatore, ha già capito: «Salah sarà essenziale per far male agli avversari». È rapido come un cobra, quando parte palla al piede è letale. La velocità di Salah è impressionante. Non ci vuole molto perché l’egiziano diventi una superstar. Finisce nella top 15 dei migliori giovani attaccanti del mondo e a novembre, secondo gli oltre 400mila che lo votano su internet, è lui che si merita il Golden Boy, il pallone d’oro dei giovani. Per l’Africa intera Salah diventa un idolo al pari di Cristiano Ronaldo o Messi. Ma questi giocatori hanno uno fascino distaccato e di un’altra terra, Salah invece è uno di loro.

All’inizio della stagione 2013/2014, con già addosso il soprannome di Messi d’Egitto, Salah realizza il gol che accende l’attenzione del mondo. Allo Stamford Bridge il Chelsea di José Mourinho va a caccia di punti nel girone di Champions League. Oscar porta in vantaggio i Blues, Mou non fa una piega. Tutto facile. Il Basilea non molla e a 20’ dalla fine la palla rimbalza in un flipper a pochi metri dell’area inglese. Salah è sulla traiettoria, lì attende il pallone che lo catapulterà in un’altra dimensione, più grande. Il sinistro non è deciso, né misurato. È un tiro mancino, una carezza al pallone. Alla fine il Basilea vincerà 2 a 1. Poche settimane dopo Mou lo vuole al Chelsea. Anche a Londra l’avvio è fulmineo, convincere l’allenatore portoghese non era facile. Lui ci riesce mostrando le sue doti di figlio del vento, di funambolo votato al sacrificio, quelli che piacciono al generale Mou. Poi, la panchina. All’improvviso i riflettori su Salah si spengono, Mourinho si dimentica perché si era innamorato di lui. Gioca di rado, si intristisce, poi arriva l’opportunità dall’Italia. Uno scambio con Cuadrado, un altro mondo ancora.

Salah, con un gol e un assist, batte il Chelsea

Salah è ottimo studente tolemaico: al centro del suo universo c’è l’Egitto, il resto gli ruota intorno. Quando gli chiedono dove gli piacerebbe giocare, lui risponde il Borussia Dortmund. «Mi piace lo stile» dichiarerà alla tv egiziana Melody Sport, «credo sia simile al modo di giocare dell’Egitto». Alla Fiorentina decide di indossare il numero 74, come i morti a Port Said. Quell’evento drammatico ha cambiato la sua carriera. Se non avessero fermato il campionato egiziano, Salah sarebbe andato a giocare in Svizzera? Anche se ultimamente scrive in inglese, su Twitter spesso lancia messaggi in arabo. C’è sempre un qualche simbolo che ricorda la sua terra, il sapore dolciastro dei datteri, il vento del deserto che accompagna le sue giocate d’aria, le piramidi che si sciolgono in un orizzonte di fuoco. Su YouTube, cercando il nome di Salah, i filmati dei suoi gol sono spesso un montaggio serrato, rapidi come le sue giocate, cullate da musiche d’Arabia e tè alla menta. La gente d’Egitto si rivede in lui, in quegli occhi scuri, in quel calcio incantato che non sembrava possibile.

Il senso di una comunità

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Momo contro il Siviglia, semifinale di EL. Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images

Lui vive nel suo mondo, grandissimo. Prega prima di ogni partita, o prima di entrare in campo. A San Siro, contro l’Inter, Montella gli urla dalla panchina. C’è da fare un cambio, e in fretta. Babacar è a terra, deve essere sostituito. Montella indica Salah, tutti lo cercano con lo sguardo, lui è in un angolo che sta pregando. Lo fa ogni volta che realizza un gol, ringrazia il suo dio, e anche questo aiuta a smuovere l’orgoglio dei suoi connazionali. La religione gli procura anche qualche guaio quando viene tacciato di antisemitismo. Nel 2013, con la maglia del Basilea, Salah affronta il Maccabi Tel Aviv nei preliminari di Champions League. Un parte del suo paese lo ha incitato a schierarsi contro Israele a sostegno della Palestina, altri lo hanno implorato di non giocare. Mohamed decide di scendere in campo, ma evita di stringere la mano agli avversari, quando è il momento di farlo si mette da una parte ad allacciarsi le scarpe. Al ritorno, non potendo rifarlo, invece di dare la mano, porge il pugno chiuso. Qualche tempo dopo, quando Walter Sabatini, con l’aria da gringo, non smentisce l’accostamento di Salah alla Roma, la comunità ebraica insorge. Il presidente dell’associazione Maccabi Italia, Vittorio Pavoncello, twitta: «Noi ebrei come potremmo continuare a tifare Roma se il club dovesse ingaggiare un antisemita?».

Coast to coast contro la Juventus

Sono per lo più commercianti, ristoratori, hanno angusti kebab, locali illuminati al neon, piccoli bar; la comunità egiziana è dappertutto. In un rapporto ufficiale stilato nel 2014 si è calcolato che gli egiziani raggiungono l’ottava forza tra i cittadini non comunitari in Italia, oltre 135mila persone. Quando Salah si è trasferito a Firenze, è tra loro che è scoppiata una vera e propria mania prima ancora che tra i tifosi viola. A febbraio, al primo gol di Momo contro il Sassuolo, in via del Palazzuolo, dove c’è un famoso ristorante egiziano che fa le tipiche salsicce del Nilo, hanno organizzato una festa. E in via Pasquali, punto di riferimento per gli egiziani in Toscana, le richieste per vedere le partite della Fiorentina si sono moltiplicate nel giro di subito. «Se lui fa gol è un grande segnale di integrazione per tutti noi e quindi non possiamo che esserne felici», ha detto uno dei responsabili. Non c’è tifo, c’è appartenenza, il senso di una comunità. Sul portone in legno della palazzina che lo ospitava in centro, a Firenze, vicino a Ponte Vecchio, è comparsa un’incisione: Salah, e sotto un grande cuore trafitto. Un murales d’amore. È stato lo stesso giocatore, in marzo, a condividere l’emozione sui social. Non appena si è capito, tra fine giugno e i primi di luglio, che la sua avventura a Firenze sarebbe terminata il portone è stato immediatamente rimesso a nuovo.

Salah è un investimento, non solo tecnico, apre scenari nel mondo arabo

Ma la traccia del suo passaggio è rimasta, e continuerà alla Roma. Con il mercato, l’estate torrida e l’attesa che la giostra del calcio riprenda a girare, Salah non poteva che trasformarsi in una telenovela dell’assurdo. Di chi è Salah? Chi ha ragione? Erano anni che l’Italia non viveva una spaccatura profonda tra due club, una contesa forsennata per un giocatore di grande talento. Ma quello che per Fiorentina e Roma è diventato un calciatore di lusso da trattare come un giocattolo, per l’Egitto, per una grande fetta del mondo arabo è molto di più: a 23 anni Salah è il senso stesso di appartenenza. Non accade poi tanto spesso. In certi paesi l’onda mediatica del calcio si adagia in una risacca, l’idolo è quasi sempre circoscritto ai confini del territorio, è locale, di casa. Ma poi arrivano quelli come Hagi, Nakata, Weah, Drogba, bandiere di un calcio minore, di nazioni ancora lontanissime dal cuore del business. Non più calciatori, ma simboli. La globalizzazione aumenterà ancora questo fenomeno, cambiando il risiko del calcio anno dopo anno. Con il suo arrivo a Firenze Salah ha portato con sé anche 1,2 milioni di follower, ha spostato le masse, ed è stato così ogni volta che ha cambiato squadra. Dal Basilea al Chelsea, alla Fiorentina, e adesso alla Roma. Salah è un investimento, non solo tecnico, apre scenari nel mondo arabo, un mercato che – almeno nel calcio – noi conosciamo ancora poco. E questo non fa che ampliare i nostri confini. Tracciati in un campo di calcio.