Come diventare James Rodríguez

Le tappe della vita, prima dell’esplosione, del giocatore più promettente del mondo. Un manuale su come crescere il trequartista perfetto.

È una delle immagini che i trenta miliardi di spettatori che hanno guardato il Mondiale in Brasile porteranno nella memoria per molti anni: il lob da centrocampo di Abel Aguilar che lo scavalca, la palla respinta di testa dalla difesa uruguaiana, che torna da Aguilar. Aguilar che ancora di testa la calibra verso il suo petto. Lui, James Rodríguez, che la ferma con il petto, ha le spalle alla porta da cui dista circa venticinque metri, e che la calcia al volo, di sinistro, dopo aver fatto due piccoli passi per girarsi mentre quella scendeva dal suo petto verso il terreno. La palla va forte, ma il brusio della folla cresce come un climax centimetro per centimetro mentre si avvicina alla traversa, che colpisce sulla parte inferiore prima di sbattere sull’erba, e finalmente è in porta alle spalle di Muslera. A quel punto lo stadio urla tutto il suo stupore per il gol più bello del Mondiale. Lui è il numero 10 della Colombia, si chiama James Rodríguez, tutti lo chiamano James con la pronuncia spagnola, la “J” da aspirare, ha 22 anni ma quasi 23, questione di giorni. Non arriva dal nulla, ha vinto molti trofei da molto giovane con il Porto e l’ultima stagione ha giocato nel Monaco, che l’ha comprato dal Portogallo per 45 milioni di euro. Oggi gioca al Real Madrid dove è titolare, porta sempre la maglia numero 10 – non è una cosa da tutti – e in Colombia lo chiamano “Pibe”. Anche questa non è una cosa da tutti: prima di lui “Pibe” era stato soltanto Carlos Valderrama, il giocatore colombiano più iconico di sempre, vincitore di due premi come miglior calciatore sudamericano dell’anno. È stato Valderrama a dare il suo assenso al passaggio di proprietà, dicendo: sì, James è l’erede, potete chiamarlo Pibe.

Il gol del Mondiale

 

James è un ragazzo tranquillo

James è un ragazzo tranquillo. La generazione colombiana di cui fa parte, la più forte nella storia calcistica del paese, appena un gradino sopra a quella romantica e bolañesca di Asprilla, Valderrama e Higuita, è una generazione tranquilla. Quell’altra, quella dei Mondiali del 1990 e del 1994, flirtava – necessariamente: non potevi starne fuori – con la droga, con le armi, con gli omicidi. Aveva amicizie pericolose: il nome più famoso è quello di Pablo Escobar, che per il calcio colombiano spese molti soldi, che uccise persone, che condizionò pesantemente la politica colombiana di quegli anni, che furono anni molto bui.

La generazione di James, o la Nazionale di cui fa parte, è fatta di professionisti affermati nel calcio europeo, poco adatti a ritratti pittoreschi. Cuadrado gioca nel Chelsea, Guarin nell’Inter, Falcao nel Chelsea, Ospina nell’Arsenal, Zapata nel Milan, Quintero nel Porto, Bacca nel Milan, tutte squadre che non fanno rima con la ribellione o il nostalgismo romantico, che – sia questo un tratto positivo o negativo – non possono ammettere nelle loro rose che professionisti dediti a una sola cosa. Quella cosa è il calcio.

Per James, il calcio è più di una passione e più di un lavoro, è una specie di religione. La biografia James, su vida uscita nel 2014, dopo l’eliminazione dal Mondiale, firmata da Nelson Fredy Padilla, raccoglie varie testimonianze della famiglia, degli amici, dei professori e degli allenatori. James è un ragazzo tranquillo e – ed è una cosa che capita spesso con le stelle del calcio, un profilo molto poco affascinante fuori dal campo. Così poco affascinante che vale la pena scriverne.

I primi 19 gol con il Madrid

Per quanto mi riguarda, ci sono pochi calciatori, oggi, che esaltano il mio senso estetico come James Rodríguez. Non è merito soltanto del gol contro l’Uruguay negli ottavi di finale, né dell’altro, forse altrettanto spettacolare, contro il Giappone nel girone, il 24 giugno a Cuiabá. Quello che mi esalta di James – e non esalta soltanto me, considerato che gli ultimi due trasferimenti del ragazzo sono costati complessivamente più di 120 milioni di euro – sono i movimenti tra la linea del centrocampo e quella delle punte, i movimenti da dieci, un dieci rapido e contemporaneo, con una capacità oggi unica al mondo nel cambio di direzione e nella visione periferica per i passaggi. Se le doti calcistiche, così spettacolari, sono lo zenit di James Rodriguez, la sua sfera privata, la sua “posizione” nel campo della vita, fin dall’infanzia, sono il nadir. Vale a dire: seppur guarderei ogni partita in cui James è schierato nell’undici titolare, non credo che, se me ne fosse data occasione, sarei un amico di James Rodríguez.

Un aneddoto raccolto in James, su vida esemplifica meglio di cento spiegazioni tutto questo. James è ancora giovane, frequenta la scuola e vive con la madre e il patrigno, Juan Carlos, che lui chiama Juanca. La scuola gli ha assegnato un compito: leggere Cien años de soledad di Gabriel García Marquez. James va da Juanca e gli dice: devo davvero leggerlo tutto? Sí señor, gli risponde il patrigno. E quando andrò ad allenarmi?, dice il ragazzo. Juanca risponde: se uno è disciplinato nella vita, trova il tempo per tutto. James non ha mai letto il capolavoro del più grande scrittore colombiano. Almeno, non in quell’epoca. Quando Marquez muore nell’aprile 2014, tuttavia, scrive un tweet: Muy triste por la partida de Gabo. Su obra hizo gigante el nombre de Colombia.

Da quando è bambino c’è un solo interesse nella testa, nel cuore e nella vita di James Rodríguez, e naturalmente quell’interesse è il calcio. È un tipo determinato: fin da piccolo dice che andrà a giocare al Real Madrid, la sua squadra preferita da sempre. César Nuñez, un suo amico d’infanzia, racconta che nei pomeriggi in cui non giocava a calcio James giocava a Fifa, il videogioco per Play Station. Prendeva il Real Madrid sempre, e vinceva sempre. Quando non succedeva, tirava il joystick contro il muro, rompendolo. Odiava perdere.

Aveva un altro idolo di gioventù: Francesco Totti. La sua devozione ossessiva al calcio si intravede in un altro episodio. Ha undici anni (è il 2002) e gioca con l’Academia Tolimense di Ibagué, una piccola città dell’entroterra colombiano. Il suo compagno Pipe lo vede allenarsi da solo nei calci di punizione, fuori dagli orari d’allenamento. Gli dice: «Mono (il suo soprannome, “scimmia”), perché ti alleni tanto se sai già tirare meglio di tutti noi?». James risponde, in uno scambio che ricorda una parabola del Vangelo: «Cabezón, perché non tiro ancora bene come Totti».

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Dio, calcio, famiglia

Un giocatore fortissimo in campo e dalla personalità – per dirla con un eufemismo – poco evidente fuori dal campo: è, in breve, il ritratto di un altro calciatore, leggermente più vecchio e più famoso di James. Si chiama Leo Messi, e probabilmente è il più forte giocatore di calcio di sempre. Tuttavia le somiglianze tra Messi e Rodríguez non sono soltanto caratteriali.

Un aspetto poco conosciuto e che ho trovato leggermente (o forse più che leggermente) inquietante nella vita di James è la presenza della famiglia. Non tanto come affetto: è una presenza che pianifica, che spinge, che direziona la vita di James Rodríguez fin dall’infanzia. Non è lo stesso tipo di ingombro o invadenza che ha caratterizzato il rapporto di Andre Agassi con il padre Mike, ha dei toni più soft, eppure forse per questo più subdoli. James, naturalmente, adora la sua famiglia, è grato alla madre e al patrigno Juanca per quello che potremmo chiamare “il supporto ricevuto”. Da parte sua Juanca ha sempre detto a James che doveva ritenersi un bambino particolarmente fortunato. Questo perché aveva tre padri: quello biologico, anche lui chiamato James, ex calciatore; quello putativo, lo stesso Juan Carlos; quello del cielo, dio. Anche a causa della presenza di questo terzo padre, vista dall’esterno, la storia della famiglia di James è una storia che perturba.

Con l’Academia Tolimense, 2004

Juan Carlos era il motivatore principale di James. Con Pilar, la madre, avevano deciso che il ragazzo era destinato a diventare un professionista, ma non un professionista qualunque. Avevano deciso di farlo diventare il più grande, o uno dei più grandi. Avevano deciso, insomma, di portarlo il più vicino possibile alla realizzazione di quella frase che sembrava solo la frase di un bambino alle prese con i normali sogni di un bambino, quando diceva «giocherò al Real Madrid». Aristi, un vecchio compagno di James prima del professionismo, racconta che James, a volte, usciva dal campo piangendo. Juanca lo guardava, gli diceva di correre di più, lo rimproverava a ogni passaggio imperfetto. «Se vuoi vivere di calcio, non puoi sbagliare», lo rimproverava.

Il topos del giovane sudamericano che gioca con una palla rovinata su una strada rovinata, nei dintorni delle favelas da cui quella palla lo porterà via, quel topos banale eppure molte volte realizzato, per James non vale. Lui – che ricco non lo è mai stato, ma nemmeno povero – giocava a calcio da tesserato con la sua squadra, con i compagni e l’allenatore. Poi, dopo gli allenamenti, i genitori lo portavano da altri allenatori, altri preparatori atletici. Quando, nel 2005, firma il suo primo contratto da professionista con l’Envingado, James ha soltanto 14 anni. Si allena con la squadra under 14, ma Juanca e Pilar chiedono all’allenatore della prima squadra, Omar Suárez, di dare allenamenti privati al figlio. Poi assumono anche Héctor Chica, preparatore atletico. Poi il nutrizionista Luis Emilio Lara, con cui inizia un trattamento ormonale per crescere in altezza e massa fisica. James, che è un ragazzino gracile, alto soltanto un metro e trentasette a undici anni, a diciotto ha raggiunto il metro e ottanta. Cure a base di ormoni, crescita fisica e sviluppo ultrarapidi. Ricorda qualcuno? Esatto.

Cure a base di ormoni, crescita fisica e sviluppo ultrarapidi. Ricorda qualcuno? Esatto.

Ho scritto che Juanca non è come Mike Agassi, ed è vero, in primis, probabilmente, perché non è duro come il padre di Andre. In secondo luogo, ma non meno importante, James condivide completamente gli sforzi a cui è sottoposto. È lui stesso il primo che vuole allenarsi, che vuole fare gli straordinari per arrivare più in alto di tutti. Quando aveva poco meno di dieci anni gli regalarono una bicicletta. Lui la usò, e come capita ai bambini cadde. Non la toccherà mai più, per paura di infortunarsi.

E poi c’è dio. Nel 2008 circa, prima di essere acquistato dal Banfield in Argentina, la famiglia gira un Dvd sulle capacità del piccolo e lo manda ad alcune squadre. Nel dvd c’è anche una presentazione in persona, immagino a mezzobusto o a figura intera, forse con il pallone sotto il braccio. James dice: «Ho sedici anni, sono un giocatore professionista. Un 10 veloce. Mi piace giocare la alla e fare gol. Tuttavia è l’assist il dono che dio mi ha dato». Alla visione di un sedicenne che parla così davanti alle telecamere si possono avere due reazioni. La prima, quella che avrei probabilmente avuto io, è fondata su un giudizio negativo, dalla mia torre di avorio e di una certa supposta superiorità culturale e atea. E direi: che arroganza, che faccia tosta. Fortunatamente per il mondo del calcio, io non faccio lo scout di talenti, e l’impressione che fa il video alla dirigenza del Banfield è opposta alla mia. Dicono: «Che coraggio, che sicurezza il ragazzino», e James se ne va per la prima volta dalla Colombia, diretto a Buenos Aires, Argentina.

VALENCIA, SPAIN - OCTOBER 18: James Rodriguez of Real Madrid celebrates after scoring with his teammates Daniel Carvajal (L) and Javier 'Chicharito' Hernandez (R) during the La Liga match between Levante UD and Real Madrid at Ciutat de Valencia on October 18, 2014 in Valencia, Spain. (Photo by Manuel Queimadelos Alonso/Getty Images)

L’America, l’Europa, il mondo

All’inizio, a Banfield, poco più di duecentomila abitanti nella periferia di Buenos Aires, case molto basse, una vecchia prigione segreta del regime di Videla e la casa in cui Julio Cortázar ha trascorso l’infanzia, James si trova male. Lo mettono a giocare in quarta categoria, lui è distrutto e piange molto. D’altronde non è troppo strano: ha ancora sedici anni. Lui però vuole giocare in prima. Gli manca la famiglia, e allora quelli arrivano. Juan Carlos inizia ad accompagnarlo al campo e a motivarlo, James ritrova la fiducia. In panchina cambiano gli allenatori, e arriva Burruchaga. Vede James con i “piccoli” e lo porta in prima squadra. Conosce una ragazza, si chiama Daniela Ospina, si innamorano e naturalmente si fidanzano. Anche lei è colombiana. Juan Carlos è preoccupato, vede la relazione come un fattore di deconcentrazione nella cariera di James. In quel tempo insiste nel ricordargli che il momento per la sua carriera è cruciale, che non deve permettere a niente di distrarlo: si tratta di rimanere uno dei tanti, oppure entrare nell’élite del calcio. James, naturalmente, lo tranquillizza. Gli dice: «Juanca, yo voy a jugar en el Real Madrid». Il primo gol è nel Clausura del 2009, un tiro di sinistro da 25 metri contro il Rosario. Il secondo è contro il Newell’s, praticamente identico. Il terzo è un capolavoro, un’azione di squadra che inizia lui con un tacco smarcante alla Ronaldinho (James fa parte di una generazione cresciuta con Youtube, su cui passa l’adolescenza a imparare i trick del Gaucho brasiliano), prosegue con una triangolazione con due compagni, e finisce con un lob mancino che si addormenta in rete, appena a fianco al palo (sì: un lob mancino da sinistra, quasi sulla linea di fondo). Il Banfield, per la prima volta nella sua storia, è campione.

Golazo, Banfield-Lanus

Da questo punto in poi, la carriera di James è indirizzata, come se le fondamenta costruite nei suoi primi diciotto anni prevedessero già, precisamente, i successivi sviluppi dei piani. Ogni piano, un anno. Seppure con delle difficoltà: anche al Porto, ad esempio, passa i primi sei mesi in panchina. Poi c’è sempre qualcuno ad accorgersi del talento, quello puro e quello sviluppato con l’allenamento ossessivo. Dall’esordio assoluto nel calcio professionistico, quando entrò in campo il 21 maggio 2006, a quattordici anni e mezzo, in una partita tra Envingado e Cucuta, e toccò il primo pallone sotto le gambe di un difensore, al golazo che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Un gol che, come la sua vita, non nasce dal niente, o dalla magia, o dal talento puro. Un gol che ha spiegato così, semplicemente: è una giocata che ho provato spesso. Un gol che, naturalmente, l’ha portato al Real Madrid. C’è una sola cosa che non è andata perfettamente, fino ad ora, nella sua vita: il Mondiale. È vero, è servito, è stata una vetrina fondamentale, l’ennesimo passo propedeutico al suo cursus calcistico. A Marca, però, ha confessato di provare frustrazione per quella sconfitta contro il Brasile, nei quarti di finale. Eppure, uno scampolo di romanticismo l’ha fatto vedere proprio nei minuti successivi alla sconfitta. Con un tweet, una frase semplice che riscatta tutto quel destino costruito, più che capitato: «Que lindo el fútbol», che bello il calcio».

 

Dal numero 5 di Undici, acquistabile qui