Look back in anger

Contro il proprio passato, ritorni graditi o polemici: come la fase a gironi di Champions League ha architettato incroci "strani" e affascinanti.

Sono tanti, la maggior parte inediti, tutti suggestivi. Sono gli “incroci” di Champions, giocatori e allenatori che affrontano squadre del loro passato: eccoli, di seguito, per prepararci al meglio alla partenza della più bella manifestazione per club.

José Mourinho/Porto

Grazie è una parola aliena nel vocabolario di José Mourinho e Jorge Nuno Pinto da Costa. Tocca sempre a qualcun altro pronunciarla. Ma tra di loro avrebbero anche potuto fare un’eccezione. Obrigado Jorge, perché hai avuto l’intuizione di affidarmi i Dragões quando non avevo che dieci mesi scarsi di esperienza come head coach, tre in un disastrato Benfica e il resto nel piccolo União Leiria, al quale ero anche riuscito a non far chinare il capo quando sulla sua strada incrociava una big di Primeira Liga. Obrigado José, perché anche se il Porto aveva già vinto senza di te, quell’edizione di Champions 2003/04 rimarrà indimenticabile. Campioni d’Europa con una delle rose qualitativamente più povere transitate da Oporto negli ultimi quindici anni. Certo, c’era Deco che era un fuoriclasse o poco meno, ma il resto? Paulo Ferreira, Costinha, Pedro Mendes, Alenichev, Derlei, Carlos Alberto, Nuno Valente. Le loro carriere dopo quel 26 maggio 2004 a Gelsenkirchen (Monaco-Porto 0-3) parlano da sole. Adesso si rivedranno, Mourinho e Pinto Da Costa, si saluteranno (forse) ma nessuno dirà grazie. Non è da loro.

«Siamo forti, siamo la miglior squadra del paese. Vamos ser campeões»

Zlatan Ibrahimovic/Malmö

Quanta Rosengård ci sarà allo Swedbank Stadion di Malmö quando arriveranno i milionari di Parigi? Fisicamente non molta – la periferia è periferia ovunque, anche nel ricco Nord – spiritualmente tutta. Perché Zlatan Ibrahimovic è davvero riuscito a dare un’identità alla gente di questo quartiere ad alto tasso di meltin’ pot che mischia turchi, arabi, serbi, bosniaci, croati e kosovari. Chissà se ci sarà Hasib Klikic, allenatore del giovanissimo Ibra nel Balkan che in campo gli permetteva di fare quello che voleva e giocare come se fosse da solo, tale era la sua superiorità nei confronti di tutti gli altri, e un paio di gol a partita li segnava sempre. Chissà se ci sarà Tony Flygare, l’amico che a suon di reti gli aveva soffiato il posto nella Svezia under 16, e Zlatan se l’era presa così tanto da decidere di smettere con il calcio. Magari sugli spalti ci sarà l’ispettore Johnny Gyllensjo, Dipartimento Anticrimine della polizia di Malmö, all’epoca allenatore delle giovanili degli Himmelsblått, che con pazienza monacale fece ritornare il futuro campione sui propri passi. Malmö però era una città piccola per le ambizioni di Ibrahimovic già quando il nostro aveva vent’anni, figuriamoci oggi. Ma anche se lì non ha nemmeno più una casa, quella rimane la sua gente.

Un giovanissimo Ibra ai tempi del Malmö.

Angel Di María/Real Madrid

Balle spaziali, cifre galattiche, buco nero del buonsenso. Di Maria ceduto dal Real Madrid perché Florentino Perez odia gli argentini, per mettere in difficoltà mediatica Carlo Ancelotti – fresco della Decima – privandolo di uno dei suoi elementi più efficaci, perché le fattezze di Fideo (Spaghetti, nick assegnatogli da Banega) non sono propriamente da fotomodello. E il diretto interessato che, pur di cambiare aria, sceglie di andare agli ordini di Louis van Gaal, allenatore agli antipodi del suo modo di interpretare il calcio, ovvero in modo anarchico, istintivo, a strappi. L’antitesi totale del sistema di gioco con tempi e posizioni standardizzate sviluppato dal tecnico olandese. È finita nell’unico modo possibile, con tanto di risarcimento pagato dai parigini allo United per un selfie scattato dal figlio dello sceicco del Psg accanto a Di Maria senza la previa autorizzazione del club inglese. Costo? 4 milioni di euro. Bruscolini se confrontati ai circa 200 movimentati, tra cartellino e ingaggio, in soli dodici mesi per un giocatore scaricato da due grandi club.

L’ultima stagione di Di Maria al Bernabéu.

Luis Enrique/Roma

Primo errore: prendere casa dalla parte opposta rispetto a Trigoria, che significava quasi tre ore quotidiane – tra andata e ritorno – immerso in un traffico infernale, capace di sfibrare i nervi anche a un certosino della Grande Chartreuse. Secondo errore: affiancare a Totti un genietto delle statistiche poco più che ventenne che, munito di iPad, gli spiegava i movimenti da fare in campo. Terzo errore: non aver compreso che esigere puntualità in Italia è una battaglia persa in partenza. Luis Enrique a Roma è stato un grande equivoco, utilissimo però al diretto interessato per comprendere che non tutto il mondo è Barcellona, e per quanto possa essere eccitante e condivisibile una determinata filosofia, esistono precisi limiti di esportazione. Ma senza Roma e, conseguentemente, la parentesi rigenerativa in Galizia con il Celta Vigo, chissà se Luis Enrique sarebbe stato pronto per il Triplete. Poi ci sarà sempre qualche anima bella secondo cui “con Messi e Neymar chiunque sarebbe capace di vincere”. Proviamo a chiederlo al Tata Martino e vediamo cosa risponde.

Luis Enrique dedica la Champions League alla Roma

Ciro Immobile e Fernando Llorente/Juventus

Due pretendenti alla corte di una vecchia ma sempre affascinante signora. Il primo non la convince, e senza fiducia la storia non potrà mai funzionare, così lo mette alla porta senza particolari remore. Il secondo invece può andare, non è una passione travolgente ma i bei momenti non mancano. Poi, quando la fiamma si spegne, si salutano di comune accordo, senza alcun rancore. Ciro Immobile e Fernando Llorente sono due ex mossi da sentimenti molto diversi. Rivalsa per l’italiano, che la Juventus ha fatto anche debuttare in Champions League ma nelle cui potenzialità non ha mai creduto fino in fondo, e la prima stagione di Immobile in una big, il Borussia Dortmund, non ha causato mezzo rimpianto. Llorente per contro ha dato quello che gli era stato chiesto – il primo anno – e quando è calato non si è fatto problemi a togliere il disturbo. Con una piccola postilla, come ci ha segnalato il collega Federico Casotti: se per risparmiare 10 milioni di euro lordi di ingaggio regali il giocatore alla tua diretta concorrente per gli ottavi di Champions, che valgono ben più di 10 milioni, il rischio è che l’azzardo costi caro.

Llorente, una grande prima stagione a Torino

Radamel Falcao/Porto

Amore con data di scadenza. A Oporto funziona così, ci si può innamorare anche intensamente dei giocatori, senza però mai lasciarsi andare completamente. La politica societaria è sempre stata chiara: nel Porto la cessione del campione è qualcosa di ineluttabile. Nessuna deroga, altrimenti non si sarebbero mai potuti incassare 670 milioni di euro dal mercato in appena 10 anni. Poi, ovviamente, non sono tutti uguali, e Radamel Falcao lo è ancora meno. Nel Porto di Villas Boas non era un attaccante ma una sentenza, dalla quale è scaturito l’ultimo trofeo internazionale vinto dai portoghesi. Porto-Braga 1-0, rete di Falcao, la numero 17 in 14 partite dell’Europa League 2010/11. Vero, all’Atletico Madrid lo hanno amato ancora di più, ma lì le cessioni sono opzionali, si può anche dire di no. Eppure quando ha deciso di lasciare i Colchoneros perché un bomber del suo calibro non poteva aver disputato solo 8 partite di Champions (siamo in epoca pre-Simeone, è bene ricordarlo), aveva scelto un altro Porto, trapiantato nel Principato di Monaco con Moutinho e James sotto l’abile regia di Jorge Mendes. Il giocattolo, e il giocatore, si sono rotti sul più bello. Da sentenza, Falcao è tornato ad essere un attaccante.

La furia di Falcao ai tempi del Porto.

Memphis Depay/Psv Eindhoven

Alla prima da calciatore al Philips Stadion, il 26 febbraio 2012, Depay avrebbe potuto tornarsene a casa senza fare la doccia. Gioca gli ultimi tre minuti di recupero, il tecnico Fred Rutten lo inserisce per farlo entrare nel gruppo. Ci sono Mertens, Strootman, Wijnaldum. In tre anni e mezzo li ha superati tutti. Lui, titolare nel Manchester United, gli altri almeno un gradino sotto, con l’augurio che prima o poi Strootman riesca a tornarci, su quella scala. A Eindhoven gli hanno voluto bene tutti, nonostante la fame di appestatore (lo chiamavano proprio così nelle giovanili dello Sparta Rotterdam) che si portava appresso. Eppure, nonostante tutte le premesse negative (famigliari, sociali, attitudinali), ne è uscito un prospetto con i fiocchi, che una volta raggiunto il professionismo ha coltivato il proprio talento senza disperderne nemmeno una goccia, come invece accaduto a tanti epigoni del modello genio e sregolatezza. Per questo è così apprezzato non solo a Eindhoven, ma nell’Olanda intera. A nemmeno tre mesi dalla sua partenza, tornerà già a casa, anche se solo per una sera. Se il Manchester dovesse espugnare il Philips Stadion grazie a un suo gol, buona parte dei tifosi di casa sarebbe contenta lo stesso. Parola dell’ex Psv Bruggink. Se non è amore questo…

Perché a Eindhoven se ne sono innamorati.

Jesus Navas/Siviglia

La prima volta, lui c’era. Unico canterano – quella sera – di un undici titolare che strapazza il Middlesborough e porta a Siviglia la Coppa Uefa. La prima di quattro. Jesus Navas era in campo, simbolo del miracolo compiuto dal ds Monchi, abile nel ricostruire una squadra scampata dal fallimento agli inizi del nuovo millennio integrando una gestione virtuosa dal punto di vista economico (scoperta e valorizzazione di elementi del vivaio o di talenti stranieri poco noti, su tutti Dani Alves) con una competitività sempre maggiore in campo, ottenuta attraverso l’impronta inconfondibile di uno stile di gioco intenso e verticale. Lo stile di Jesus Navas, ala vecchio stampo in un’era nella quale sugli esterni si vede di tutto – attaccanti, trequartisti, mezzali – ma latita il classico giocatore incollato alla linea del fallo laterale, col compito esclusivo di cercare il fondo. La sera di Eindhoven, quella della prima volta, il Siviglia aveva speso per gli undici in campo la modesta cifra di 13 milioni di euro. Quando è passato al Manchester City, il solo Jesus Navas ne ha portati in cassa 20. A Siviglia lo hanno ringraziato di tutto, senza isterie di piazza, consapevoli che l’alternativa sarebbe l’estinzione.

Il discorso di Navas all’addio. Dall’infanzia a oggi.

Seydou Keita/Barcellona

In ogni arte esistono piccolo gemme alle quali capita di affezionarsi di più rispetto ai capolavori riconosciuti all’unanimità. I quadri di Umberto Boccioni, i film di Aki Kaurismaki, i dischi di Warren Zevon. Così nel calcio talvolta è il gregario, o presunto tale, a ritagliarsi un angolo nel cuore – e nella memoria – dei tifosi a scapito del campione. Provate a chiedere a un tifoso del Barcellona di scegliere tra Rivaldo e Seydou Keita: il maliano vincerebbe alla grande. Il boato con il quale è stato accolto in estate al trofeo Joan Gamper dice tutto. Questa volta a Barcellona il professor Keita, l’uomo che nell’epoca del Triplete rappresentava il termometro emotivo di Guardiola («Quando lo guardavo negli occhi, sapevo se mi ero sbagliato»), ci torna sul serio, non per qualche amichevole posticcia di calcio estivo. Anche se lui non si tira indietro nemmeno lì, perché – a parlare è sempre Guardiola – «Non ricordo abbia mai giocato male una partita», e in maglia blaugrana ne ha disputate 188. Ci vuole un genio per riconoscerne un altro.

Keita ha ancora tanti amici a Barcellona, «è bello tornare incontrare gli amici»

Nicolas Lombaerts/Gent

Nicolas Lombaerts era un calciatore che osava pensare. Audere Sapiens (osa pensare) è infatti il motto dell’Università di Gent, alla quale si era iscritto. Facoltà di giurisprudenza. Meglio diventare avvocato o giocare in Champions League? Lombaerts il problema non se lo era mai posto. Non certo a Gent, dove se tutto andava bene poteva scapparci qualche serata in Coppa Uefa dal finale il più delle volte inglorioso, e quindi lo studio offriva un paracadute sicuro. Però è un difensore con i fiocchi, glielo ripetono tutti, e certi treni non passano tutti i giorni. Non da Gent. Così quando arriva l’offerta dello Zenit, interrompe gli studi e accetta. «Ma se il Gent finisce in Champions, torno e mi laureo», scherza. Lo stesso anno un tizio che, vista la stazza, sembra passi la sua vita nei Burger King, trova un ingaggio come allenatore del Kortrijk, B belga. Dove volete che vada, si chiedono, uno che era a costante rischio di esonero in C? Risultato: promozione al primo colpo. Nel 2015 Hein Vanhaezebrouck porta il Gent in Champions League dopo aver vinto il primo campionato in 115 anni di storia del club. E lo sorteggiano con lo Zenit, quasi il destino volesse ricordare a un ex studente in legge una vecchia promessa.

L’ultimo (secondo in totale) gol di Lombaerts con la Nazionale belga

 

Nell’immagine in evidenza, Fernando Llorente nelle nuove vesti di attaccante del Siviglia (Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images). In testata, Messi e Keita nel marzo 2012 (David Ramos/Getty Images)