Re di coppe

Come segna (e quanto) Álvaro Morata in Champions League. Dagli inizi, tentennanti, con il Madrid, alle notti di Berlino e Manchester.

Arriva l’uomo bianconero. E fa paura, ma soprattutto fa gol. Álvaro Morata in coppa è un incubo. Per gli altri, per gli avversari della Champions League. Occhi profondi da principino berbero, scuro il volto.  Lo chiamano el Ariete o Alvarone. Ombre spagnole. Ma adesso che va di moda il codice a barre va bene anche «AM9», un missile terra-aria nelle porte d’Europa. L’ultimo è quello che Álvaro ha sparato nella notte dell’Etihad Stadium contro il Manchester City. Colpito e affondato. Ha fatto vincere la Juventus, ha salvato la panchina di Max Allegri. Ma il punto è un altro. Perché il richiamo selvaggio della Champions risveglia l’istinto al gol di Morata? Sono 6 nelle ultime 8 partite disputate, una media da aguzzino dell’area di rigore. Cosa c’è dietro la puntualità a rete di Morata? Istinto, volontà, grinta. E ancora, sacrificio. Dedizione. «Sono stanco, ho speso tutto» ha detto nel tunnel subito dopo la partita contro gli inglesi. Sembrava felice, «anche se la benzina è proprio finita». È stato ancora una volta decisivo.

Stadio 1

Nell’apologia del Morata moderno, l’intensità di passaggi e spostamenti nella zona sinistra del campo racconta l’epica. Contro il City, per esempio, ha giocato 19 palloni, altri 20 li ha persi, i compagni l’hanno cercato 26 volte. Fino dell’uscita di Mandzukic, Álvaro è stato perno e delizia. Ma c’è un prima e un dopo nella vita di bomber europeo di Álvaro Morata. Comincia tutto a Madrid, dove però non può esprimersi come vorrebbe. Comprensibile, visto che ha solo vent’anni. Fino a due stagioni fa, in Champions Morata aveva disputato appena 10 minuti. Troppo giovane, dicono. Con Carlo Ancelotti, poi, il feeling non c’è, o non fino in fondo, tant’è che sul tramontare del 2014, vinta la Champions contro l’Atletico Madrid e giocando al massimo qualche spezzone, Álvaro se ne va alla Juventus per crescere e dimostrare che Ancelotti si era sbagliato a non puntare su di lui. Con la maglia del Real era però successa una cosa importante la notte degli ottavi di finale contro lo Schalke 04. Gli spagnoli avevano già asfaltato i tedeschi all’andata, e figuriamoci: al Bernabeu per i Blancos è una sciocchezza. Morata è partito dall’inizio e prima del fischio finale aveva piazzato il terzo gol, l’ultimo dei nove complessivi segnati dai madrileni.

Il gol contro lo Schalke 04

Quei novanta minuti non passeranno alla storia, né per Madrid né per Morata. Oltretutto quella di Álvaro è una rete trascurabile, dimenticabile, come una cartolina che resta sommersa da una montagna di scartoffie sulla scrivania. Non c’è nulla di spettacolare nel primo gol di Álvaro in Europa, un appoggio nel cuore dell’area dopo una traversa (quella sì spettacolare) di Cristiano Ronaldo. Ma è il primo, e come tutte le prime volte, insostituibile. In quel periodo Álvaro Morata è ancora un ragazzotto, di quelli che tutti dicono che sboccerà, sboccerà vedrete, basta saper aspettare; vive ancora in una dimensione di leggerezza perché quelli bravi davanti a lui sono troppi, e anche se vuole giocare con la maglia del Madrid, per Morata non c’è molto spazio. È ancora un centravanti che non conosce la straordinarietà del sacrificio. Ma certo il gol allo Schalke accende qualcosa dentro di lui, qualcosa che dà vigore al suo killer istinct: l’idea che essere un bomber europeo è ben più esaltante che esserlo altrove. Le dimensioni contano, e la Champions è per Morata un palcoscenico sul quale cimentarsi nell’arte della realizzazione.

Stadio 2

Ma perché ci arrivi serve una trasformazione. Alla Juventus l’evoluzione europea di Morata passa necessariamente per le difficoltà di un girone di qualificazione insulso, mal giocato, senza brillantante. Max Allegri lo dosa col misurino. Contro il Malmö e l’Atlético Madrid, Álvaro gioca una manciata di minuti, è uno degli accusati dopo la sconfitta contro l’Olympiacos, non segna, né fa assist. Morata non incide. Dondolare per il campo non basta. Le prime sei partite in Champions con la maglia dei bianconeri, di fatto, sono un flop. Tira poco, sembra intimorito. Qualcosa non funziona. Morata non c’è. È negli ottavi di finale che la storia cambia. Allo Stadium arriva il Borussia Dortmund. L’attesa del popolo bianconero è agitata, feroce, l’Italia intera crede che la Juve possa fare bene. Ma andare avanti, quello è difficile. E invece. È in un contesto di illusione e speranza che Morata fa play sull’iPad del suo istinto. All’andata è un tocco sotto misura, tecnicamente non difficile, ad accendere il bolero. «È durissima, lo sappiamo, ma vogliamo provare a passare il turno» dicono i bianconeri alla vigilia della sfida di ritorno. Ci si abitua a tutto, anche a non primeggiare in coppa, e visto che la Juventus non vince da un pezzo, anche i giocatori si adeguano a questo patto con una realtà ritoccata.

Il gol dello 0-2 a Dortmund, ottavi di finale di Champions League

In questo stato di semi-incoscienza vive anche Álvaro Morata. In Germania, nel ritorno degli ottavi, è ancora lui a fare gol, un altro, finalizzando una corsa pazza di Tévez con un tiro di piatto a centro area. È soprattutto grazie a Morata (e Tévez) se la Juventus prosegue il cammino in coppa, e più la dimensione onirica di Álvaro si alimenta insieme a quella dei tifosi, di tutti quanti, più lo stupore per una sua rete si fa grande. Con Morata si sogna il più possibile: la Juventus è quasi tornata la grande squadra d’Europa. Quasi, ma non ancora. Ai quarti di finale, contro il Monaco, lo spagnolo gioca pieno di fiducia e di irrazionalità. È sciolto. Veloce. Non fa gol, ma è determinante per la vittoria dell’andata con un assist eccellente. In semifinale c’è il Real Madrid, e l’incrocio con la sua ex squadra non potrebbe essere più assurdo di così. Anzi, sì: aiutato da una deviazione di Casillas dopo un tiro di Tévez, lo spagnolo sigla il vantaggio bianconero a due passi dalla porta. E poi al Bernabeu, ancora, partita di ritorno, Álvaro riesce a segnare il pari della qualificazione alla finale. Questa volta utilizza il fisico di roccia, si fa spazio in mezzo, controlla un pallone con il petto, e di sinistro colpisce netto come un colpo di scure. Ma l’apoteosi dell’incredibile è più avanti, in finale contro il Barcellona, quando Morata di nuovo riesce a buttare dentro il gol, che risulterà inutile, più importante della sua giovane carriera. È inarrestabile.

Ci sarà stata una gioia particolare nel segnare contro il Barça, in finale

Stadio 3

L’estate di mezzo avrebbe dovuto interrompere questa continuità, non è stato così. Quella di Morata è una sorta di coazione a ripetere positiva, fa gol perché l’esperienza glielo ha insegnato. Perché fiuta l’Europa, e la musichetta della Champions gli accende i radar. Morata è più di un attaccante, è un attaccante nuovo e strumentale nella rincorsa alla Champions League. È disegnato apposta per una competizione come quella, il grande palcoscenico divampa Morata, e il gol sembra quasi una conseguenza ineluttabile. Contro il City sono bastati 8 minuti in una posizione vicino alla porta. Avviene nonostante tutto. Nonostante Allegri gli chieda di ripiegare quasi fino a centrocampo, di recuperare palla, di fare lavoro sporco. «Il mister mi ha chiesto di correre di più, e io gli ho risposto: claro que sí». A fine partita percorrerà 9 chilometri, e per uno abituati a fare l’avvoltoio in area di rigore sono anche troppi. Nella crescita di Morata il gol al Manchester City è l’ultimo stadio. Migliorato rispetto alle stagioni di Madrid, più consapevole rispetto a un anno fa, probabilmente lo spagnolo è dopo Messi e Ronaldo il finalizzatore più completo e letale in circolazione. In Champions League, prima che in altre competizioni. Un bomber europeo. Non un valore aggiunto. Morata è l’uomo bianconero. C’è sempre qualche spauracchio che si aggira per l’Europa.

L’ultima rete, contro il City, a ribaltare l’ingiusto svantaggio

 

Nella foto, Álvaro Morata nell’estate 2015, in un’amichvole contro il Borussia Dortmund. Daniel Kopatsch/Getty Images