Alessandro Florenzi è il ragazzo tenero che corre ad abbracciare la nonna dopo un gol. Ed è anche quello con la faccia tosta che, in una notte di Champions in cui Roma trema, ha il coraggio di pensare un tiro impossibile: recupera il pallone, corre per venti metri allargandosi a destra, vede Ter Stegen lontano dalla porta e se ne frega di essere decentrato, a 55 metri e 49 centimetri dal bersaglio. Intanto tira, pensa un pallonetto che puoi pensare solo se hai talento, se hai la forza di affrontare la figuraccia e il pensiero naturale di poter compiere un capolavoro.
In quel momento, mentre la Roma sta giocando contro il Barcellona e l’Italia del basket sta lottando con la Lituania, lo zapping più o meno ossessivo per non perdere nessun evento fa pensare a un tiro da tre, inventato da posizione impossibile come fosse Belinelli. Un tiro che, anche se vale un punto, è un pezzo di storia. Dice De Rossi che è un gol che può finire nelle sigle televisive, di certo è una prova di virtù: c’è la prontezza di chi ferma l’azione del Barcellona; l’atletismo di chi corre leggero portandosi avanti il pallone; la capacità di tenere la testa alta con un avversario che arriva; la precisione di chi sta mirando alla porta lontana rispetto alla linea di corsa.
Eccolo, il gol che ha spalancato gli occhi dell’Olimpico.
Più che il finale, serve pensare all’inizio: Florenzi compie un intervento da terzino di stoffa. Solo poi libera tutte le altre qualità accumulate mentre il suo ruolo era un altro. Ora è un esterno basso, invenzione di Garcia che lo ha riportato ai tempi di Crotone e gli ha dato una posizione che può renderlo prototipo del calciatore moderno. Se serve, può anche tornare dove giocava: Alessandro Florenzi, di fatto, è un tuttocampista. Pochi mesi fa, seduto a un tavolo di Trigoria, non aveva ancora metabolizzato il passaggio. Questa definizione lo impauriva un po’: «Una volta quelli come me si chiamavano jolly, era una figura un po’ strana. Forse lo è anche adesso, ma mi adeguo alle esigenze. Però ha i suoi pro e i suoi contro, come molte cose. A favore c’è che puoi giocare in qualsiasi posizione si liberi durante una stagione, ma in contrario c’è che non hai un ruolo fisso, quindi puoi essere il primo ad andare fuori».
Ora però è difficile finire in panchina e nel frattempo Florenzi ha imparato a difendere come un terzino e attaccare come un esterno alto. E a fare certi tiri da mettersi le mani sul viso, appena terminata la traiettoria della palla e diventato gol, per l’incredulità. O forse per la realizzazione di un sogno lungo qualche secondo: aver fatto esattamente quello che pensava di fare. Quelle mani sul viso sono gioia, mentre intorno si chiedono come hai fatto, cosa hai fatto.
Roma-Cagliari 2-0, settembre 2014: al minuto 1.03 Florenzi segna la rete del 2-0, poi va sugli spalti ad abbracciare la nonna.
Ma, in fondo, quale ragione ha per non credere in sé chi ha accettato la sfida della serie A anche quando lo stipendio era di trentamila euro all’anno e di aumento non si parlava. E anche quando l’ingaggio è cresciuto raccontavano di un Florenzi uguale, con la stessa auto minima e lo stesso atteggiamento: «Ci tengo alla mia semplicità. E penso di non essere cambiato: spero, in realtà, che questo arrivi anche a chi mi segue. È il mio percorso personale, dal quale non voglio deviare. Dico che non è facile, in questo mondo, restare semplici, tenere i piedi per terra. Ma con delle buone basi si può».
Un romano (cresciuto tra Vitinia e Acilia) che gioca nella Roma e inventa qualcosa del genere proprio mentre la sua città ha voglia di pensare in grande almeno nel pallone e ha contro i migliori d’Europa, è un predestinato. Lo è perché da piccolo era un po’ più a destra del punto da cui ha calciato. Fuori dal campo, ragazzo degli Allievi Nazionali occasionalmente raccattapalle. Mentre Totti giocava, prima di giocare con Totti. Ecco, l’altro marchio: l’esordio in serie A di Florenzi è il 22 maggio 2011. Un ragazzo di vent’anni che prendeva il pallone andato fuori per ridarlo al capitano, entra in campo proprio al posto di Totti. L’Olimpico, in quel Roma-Sampdoria, gli sarà sembrato grandissimo. Quella sostituzione, invece, un segno: «Quel momento è l’inizio di una favola, che adesso continua. Giocare nella propria squadra del cuore è bellissimo, e lo è stato anche esordire dando il cambio a Totti. Però essere romano e romanista dà anche delle responsabilità. Totti e De Rossi le hanno in proporzioni molto maggiori, ma anche io ne ho un bel po’. Noi portiamo con vanto il nome di Roma in giro per il mondo e questo deve farci pensare e essere felici». La felicità è anche una carriera in prospettiva. Che, ragionando come con una scala di successione, vede Florenzi capitano della Roma, quando Totti avrà finito e De Rossi avrà smesso di essere solo “capitan Futuro”. Pensandoci, non sono nemmeno molti gli anni che separano il tuttocampista dalla fascia al braccio: «Sarà il tempo a stabilire. Io non posso dirlo. Ma se dovesse proseguire la dinastia romana dovrò farmi trovare pronto anche per fare il capitano». Nel frattempo partirà basso dalla difesa, magari recupererà un pallone e adesso gli avversari saranno più attenti, non gli lasceranno metri. Perché Florenzi non è folle, per tirare così. Semplicemente crede in sé. Sa fino a dove può arrivare.