Inserita in un romanzo, quella fine di Franco Scoglio sarebbe probabilmente apparsa manierata, falsa, un vezzo dello scrittore. «Morirò parlando del Genoa», è la frase che tutti citano rievocando il modo spettacolare e crudelissimo con cui il Professore ha lasciato il calcio, e con lui la vita. Una morte in diretta, in stile cinematografico.
Eppure è successo che Franco Scoglio è morto parlando del suo Genoa – e sono già dieci anni – in uno dei casi ormai rarissimi di identificazione profonda, intima tra un allenatore e la sua squadra. Perché è in quell’incontro che lui aveva trovato la sua dimensione da “grande”, come direbbero le etichette, e il Genoa il suo vate.
Canneto, Lipari
Le narrazioni che circolano della vita di Scoglio sono in fondo poche e seminascoste, certamente pigre per tutti gli aneddoti e le idee, per le storie e le prime volte che sarebbe stata in grado di far scrivere. A cominciare da una nota biografica: Franco Scoglio, nato a Lipari il 2 maggio 1941. Franco Scoglio di Lipari. Vero, ma non del tutto. Il Comune è quello, certo, ma già su questo c’è una sua diversità troppo spesso trascurata. Da ragazzino, nei derby delle Eolie, lui all’inizio gioca contro il Lipari, per la sua frazione dell’isola, Canneto. Gioca poco, in realtà. Per quello che raccontano, allenava già quando in campo ancora c’era, o poteva esserci. Non è il più forte a pallone. Ma nei campi polverosi in terra battuta e salata di mare lui già vede la tattica. Sembra una di quelle storie di vocazione che si raccontano sempre, a posteriori. Ma non è così, giura chi se lo ricorda. A un certo punto gli altri – stanchi, sudati e a volte pure più dotati – muovono in gruppo verso la praia, perché dopo due ore basta, se hai diciott’anni gli allenamenti sono noiosi e a maggio sulle spiagge bianche di pomice ci sono già le milanesi coi primi topless degli anni Sessanta e pure le tedesche, come quella che sposò dopo averla conosciuta un’estate. Lui invece resta spesso lì al campo, a cercare di capire come mai il gioco sulle fasce non funziona e con quali movimenti si possono evitare tutti quei buchi sui calci d’angolo. Le palle inattive, qualche anno dopo sarà tra i primi a studiarle nel senso moderno. Forse pure per le sue origini umili, la dieta a pane e cipolle e il letto di pietra pomice ricoperto di paglia, non gli manca quella che molti chiamerebbero cultura del lavoro. Lui prova a farsi sentire, anche se il giorno dopo i carusi si sarebbero comunque rimessi a giocare d’istinto. Franco Scoglio, insomma, è un fissato.
Non è il più forte a pallone. Ma nei campi polverosi in terra battuta e salata di mare lui già vede la tattica.
Il Professore
Lasciando da parte la predestinazione, quella è però già la sua aspirazione. Tanto che a trent’anni, messe da parte le ambizioni da giocatore, Franco Scoglio fa già l’allenatore nelle giovanili della Reggina. Vicino casa, un’ora di aliscafo ed è già in panchina alla conquista del mondo. Più che allenatore, in verità. Lui è il Professore. Perché negli anni in cui, con sorpresa di pochi, la sua carriera da calciatore non decolla, Scoglio porta in aula la sua fissazione per la tattica e i muscoli, per come si può correre di più e meglio. Diploma all’Isef e laurea in Magistero, nel suo mondo una rarità. A Palmi, mentre ancora gioca, insegna persino all’agrario. Quanto quel riconoscimento intellettuale gli piaccia lo si capisce paradossalmente dall’orgoglio con cui respinge il titolo («è un soprannome snob, preferisco maestro perché mi piace la figura del maestro elementare»), e negli anni a venire lo si sentirà ancor meglio dal suo latino evocativo e dal gusto matto per l’aneddotica simbolica. E poi, come parla Franco Scoglio: lento e sentenzioso, quasi strascicato eppure sempre chiaro. Anche quando dice cose che pochi condividono. Raramente sorridente, spesso gongolante in quella sua dimensione cattedratica da mixed zone, il Professore si cala nella parte che segnerà la sua unicità per non uscirne più. Di quel primo periodo, tra i Settanta e i primi Ottanta, testimonianze video si trovano forse solo in archivi casalinghi. Ma mentre si fa le ossa come allenatore in Sicilia e in Calabria, tra i dilettanti e la gloria massima in serie C, da Messina a Crotone ad Agrigento, parla già come Franco Scoglio: sentenze e intuizioni geniali, provocazioni e paradossi; in quelle categorie di calci, certo non sempre capito. Di quel periodo gli annali riportano pure un’esperienza a La Spezia, stagione ‘77-’78. Suggestiva, a posteriori. Chi lo sapeva che era come tastare un terreno che sarebbe diventato il suo.
«I miei bastardi»
Il successo che cambia il corso delle cose arriva però con il ritorno a Messina, letteralmente di fronte casa nei (tanti) giorni senza foschia. È il 25 maggio 1986 quando il Celeste – un catino vero, di quelli in cui anche chi in trasferta vinceva spesso tremava – festeggia la promozione in B dopo diciott’anni. In panchina c’è lui, il Professore. In campo quelli che chiama «i miei bastardi». Compreso un ventenne palermitano che è un po’ un suo figlio calcistico, Totò Schillaci, che alla vittoria del campionato di C1 girone B contribuisce con undici gol in trentuno partite. Quel giorno, Franco Scoglio ha già 45 anni e non è mai andato oltre la serie C. Oggi, a parte qualche Sarri, per uno come lui senza grossi sponsor sarebbe probabilmente troppo tardi.
Stagione 1985/86, il Messina festeggia la promozione in B dopo diciott’anni.
This must be the place
E invece il bello deve ancora venire. Prima un misterioso stage in Russia nelle file del colonnello Lobanovskyj, che all’epoca allena ancora l’Unione Sovietica. Nell’ ’88-’89 Spinelli lo vuole al Genoa, vince il campionato di B davanti al Bari per migliore differenza reti e non se ne andrà mai più. Certo, non letteralmente. Ma in quel momento si segna un destino che lui stesso riconoscerà tale. L’anno dopo, il suo primo in A, chiude a metà classifica e saluta per quello che appare un salto di livello. Arriva al Bologna qualificato per la Coppa Uefa, a sostituire Gigi Maifredi passato alla Juve. Durerà sei giornate, l’inizio della traversata nel deserto. Udinese, Lucchese, Pescara sono tutte parentesi prima di ritornare al Genoa: ormai, capisce il Professore, a casa. Stagione ’93-’94, richiamato a fine girone d’andata per risollevare una squadra malata di pareggite e con troppi gol subiti. È il 2 gennaio 1994 quando piega 1-0 la Cremonese e forse ha la sensazione di tornare ad allenare davvero. L’anno dopo andrà via dopo 10 partite, risultati neanche troppo brutti ma per il Genoa sarà una stagione maledetta: la morte di Vincenzo Spagnolo, pugnalato al cuore a Marassi prima della partita col Milan, che segnerà una generazione di tifosi, e alla fine la retrocessione ai rigori nello spareggio col Padova. Qui finisce, a livello di club, la storia importante di Franco Scoglio. Le esperienza successive con Torino, Cosenza e Ancona non lasceranno molte tracce durevoli.
Genoa-Avellino 2-0, stagione 88/89.
21 modi per battere un calcio d’angolo
Il Professore però è molto più dei suoi risultati. Le idee tattiche spesso geniali e quindi per molti strampalate si immergono in un bagno di citazioni, più o meno apocrife. «Ci sono 21 modi per battere un calcio d’angolo», dice per esempio Scoglio per illustrare la sua cura nel preparare i tiri piazzati. «Il mio calcio è fatto così: 47 per cento tecnica, 30 per cento condizione fisica e 23 per cento psicologia». Come dire: l’allenatore, e l’allenamento, contano quanto il talento. E forse pure un 3 per cento in più. Suggestioni che però aiutano a capire il calcio del Professore, di quelli con le rose corte («allenare più di 16 giocatori mi fa venire il mal di testa») e il bisogno di inventare per divertirsi. Questo certamente gli costerà. Ben prima del tempo in cui Crozza ne farà un’icona a Quelli che il calcio, qualche compassato solone della panchina non si risparmia un sorriso davanti alle sue scelte. Una narrazione irregolare che giornalisti miopi finiscono a volte per tradurre come una sorta di ‘bizona’. Scoglio invece in panchina fa il maestro. È l’inventore del rombo, se nel calcio si può davvero inventare qualcosa. O almeno, è uno dei primi a metterlo in pratica con costanza e precisione. Nel suo Genoa appena promosso in A, per esempio, il vertice basso è Signorini e quello alto l’uruguagio José Perdomo, che Scoglio porta in Italia per 130 milioni di lire pensando, come spesso gli accade, di prendere un fenomeno. Lo stesso Perdomo che per le cronache secondo Vujadin Boskov – il nemico della Sampdoria sempre rispettato – giocava come un cane. «Non ho mai detto questo – si affrettò a precisare il tecnico serbo – Ho detto che se sciolgo il mio cane in giardino, lui gioca meglio di Perdomo». In effetti l’uruguagio resta solo un anno, 25 presenze e nessun gol. Forse anche lui incompreso.
Scoglio comunque ha le idee chiare sin dall’inizio. Il terreno di gioco per lui si divide in tanti piccoli segmenti in cui i giocatori devono muoversi con precisione ossessiva: «Bellopede non deve passare la palla a Orati. Bellopede deve mettere la palla in una zona del campo dove ci deve essere Orati. Badate che non è la stessa cosa». Come fossero omini del subbuteo, parla dei suoi “bastardi” del Messina. Ma potrebbe essere chiunque: «Io non comando i giocatori, li guido». C’è per esempio, nella tattica di Scoglio, il concetto di ‘zona sporca’: un mix di marcatura a uomo e a zona, con ordine ferreo ma senza dogmi. Reinventa schemi di basket e di rugby, vive felice negli ossimori: «L’avversario non decide. Sono io che decido come deve giocare».
A volte fa pure il professore di matematica. Già in serie C propone le ‘tabelle di marcia’, dividendo il campionato in gruppi di partite e calcolando da subito quanti punti gli servono per l’obiettivo. Praticamente dei gironi nei gironi: altro che giocare partita per partita.
Le ‘tabelle di marcia’ del Professore.
Parole ad minchiam
Nessuno può dire con certezza quando abbia usato quell’espressione per la prima volta. Ma è nel settembre dell’ ’89, circondato da una massa di giornalisti in un’altra scena che pare un omaggio a Oronzo Canà, che il Professore sbotta contro un reporter colpevole di disturbare il suo commento ai microfoni della vittoriosa trasferta di Cremona: «Lei deve stare zitto. Io non ho il potere di concentrarmi e pensare a lei, altrimenti dico parole ad minchiam». Apriti cielo: alla sua quarta partita in serie A, è già un mito. Non ci vuole molto a capire che per lui non conterà solo il campo. I giornali ma soprattutto le tv si innamorano di quello strano siciliano che buca lo schermo. È già il tempo di Cacao Meraviglio ma non ancora di Non è la Rai, poco a che fare con le trasmissioni di oggi. Il personaggio Scoglio conquista tutti ma oltre le parole, in qualche caso ostinatamente ad minchiam, c’è un allenatore vero, con l’ambizione di creare calcio e la voglia di stupire; dicendolo a mezza voce, perché i suoi numeri in fondo non lo permettono: di essere il primo. Il suo Genoa schiera per esempio il primo giapponese nella storia della serie A. Uno strano esemplare, Kazuyoshi Miura, di nipponico cresciuto calcisticamente in Brasile, e arrivato in Italia a suon di sponsor. Un innovatore, il Professore, anche nell’abbracciare queste stravaganze.
Lo sfogo di Scoglio dopo la vittoria di Cremona.
La sua Africa
Dopo il Genoa, la sua grande occasione è l’Africa. Appena più giù della Sicilia, ci va perché lì è convinto di poter fare calcio vero: insegnarlo, produrlo e magari vincere. Nel 1998 diventa il ct della Tunisia: il primo italiano. Ancora oggi, l’unico. Prende in mano la nazionale dopo la secca eliminazione nel girone a Francia ’98 e si gusta il centro della scena di un Paese intero e la curiosità di un bel pezzo di Continente. Alla Coppa d’Africa del 2000 viene travolto in semifinale dal Camerun poi campione e perde pure la finalina con il Sudafrica ai rigori. Un quarto posto che certo non lo soddisfa appieno. Lascia prima dell’avventura di un Mondiale che pure si era conquistato sul campo e in cui certamente avrebbe trovato il modo di far parlare di sé. Le cronache dell’epoca raccontano di una squadra con buone geometrie e idee chiare, che rimasta orfana del Professore in Giappone riuscirà solo a strappare un pari al Belgio. Per France Football, la sua Tunisia è la squadra africana del 1999. Ma lui ha fatto una scelta di cuore: manco a dirlo, il Genoa. Rinuncia alla grande vetrina, la pressione – dice lui – gli sale a 190 (su 140) ma il suo sguardo sorride. A marzo del 2001 arriva a salvare la baracca che rischia di crollare fino alla serie C. È il quinto cambio quell’anno sulla panchina dei Grifoni. Sarà l’ultimo: con Scoglio, si salvano largamente. Ma la stagione successiva è di nuovo altalena. Si porta dietro 5 fedelissimi nazionali tunisini, dal portiere El Ouaer al fantasista Gabsi: praticamente mezza squadra. Per lui, come spesso dice dei suoi giocatori, sono tra i migliori. Si fida ciecamente, faranno tutti flop. A girone d’andata praticamente finito viene esonerato di nuovo. È il 23 dicembre 2001, Cagliari-Genoa-2-1. Lui non lo sa ancora, d’altronde quella è casa sua e chi può dirlo se ci tornerà o no; invece è l’ultima partita di Franco Scoglio alla guida del Genoa.
Lasciando il colonnello in panchina
Il Professore però non è tipo da guardarsi indietro, e nell’anno del Mondiale mancato per salvare il suo Genoa è già su un’altra panchina da ct, ancora più sorprendente: la Libia. Qui si potrebbe scrivere un romanzo: di come Scoglio arrivò a testa alta, con la voglia di conquistarsi la fiducia di Gheddafi ma seppe poi dire no al dittatore, lasciando in panchina il figlio Saadi quando ancora l’esperienza da circo nel Perugia era di là da venire; o di quando, cacciato dopo un ko con il Congo, disse: «La verità è che con me il figlio di Gheddafi in nazionale non ha giocato e non giocherà nemmeno un minuto. E poi mi sono rifiutato anche di allenare la sua squadra di club». I giornali italiani lo acclamano come un eroe. Per un po’ diventa l’uomo che disse no al colonnello. Lui, semplicemente, si mantiene fedele al calcio, o almeno al suo: «Non amo subire i ricatti di nessuno».
«La verità è che con me il figlio di Gheddafi in nazionale non ha giocato e non giocherà nemmeno un minuto. Non amo subire i ricatti di nessuno»
Le nove partite di una pessima annata del Napoli in B con cui chiude la carriera non sono certo memorabili. In quella stagione il Genoa retrocederà in C1, salvo poi essere riammesso: a Scoglio, gli dei del calcio concedono di non giocarci contro. Una possibile terza esperienza africana con la Guinea non si concretizza in tempo. Va a fare il commentatore in Italia ma non solo, lo vuole persino la rampante Al Jazeera, e pure stavolta qualcuno avrà da ridire. Come era giusto, finisce per diventare Professore, a Messina: Scienze motorie, cattedra di Teoria, tecnica e didattica del calcio. Immaginate gli studenti.
«Mi ha rovinato Berlusconi»
Il mio incontro con Franco Scoglio non è durato più di qualche minuto. Era d’estate, sul lungomare di Canneto, verso la fine degli anni Novanta. Davanti a una casa di famiglia, parlava con faccia severa. Poco più di un saluto, mediato da chi lo conosceva. Non ricordo esattamente cosa disse. Giusto qualche parola sull’isola e forse sulla Tunisia dove stava andando, che anni dopo, più grande, ho ricostruito nella mia testa. Non disse certo questo, almeno non così. Ma un giorno ho letto una sua frase e d’improvviso mi è sembrato che questo volesse dire: «Mi ha rovinato Berlusconi». Cioè il calcio alla Berlusconi, con più soldi e troppi sponsor, più interessi e meno campo. Non era fatto per lui, almeno non da protagonista. Ecco, il senso mi pare fosse quello. Anche se probabilmente disse solo che lì in Africa era più contento in quel momento, come fosse a casa.
La profezia che si autoavvera
Tutto è finito parlando del Genoa, come lui stesso aveva immaginato in quella profezia che non si aspettava certo così letterale, e proprio a Genova, dove lo amavano incondizionatamente; come solo si può amare uno come Scoglio, o come forse si può amare e basta. «A Messina, a Genova e a Tunisi sono l’allenatore migliore del mondo», diceva mostrando di aver capito di che si tratta: trovare il proprio posto nel mondo, e farsi trovare. Poi, nel mare di citazioni, ce n’è un’ultima che, una volta messa da parte la tattica, finisce per spiegare tutto: «Solo chi è nato in un’isola può sapere cosa significa il gusto della libertà e dell’esplorazione, la voglia di partire e di sbarcare».