Due facce, una finale

Nuova Zelanda e Australia sono le protagoniste dell'epilogo dei Mondiali di rugby: le ragioni delle due squadre e i fattori di un eventuale successo.

Stando alla retorica, quello delle previsioni e delle profezie nel rugby è il campo più noioso in cui ci si possa addentrare. Il più forte vince sempre. Non è solo la mancanza di sorprese a pesare sulle fantasie da inizio torneo o da pre-partita, ma anche il fatto che il più forte di solito viene annunciato dai test-match e dai risultati precedenti con una precisione inquietante. Dritto al punto: sono convinto che questa Coppa del Mondo la debbano vincere gli All Blacks, semplicemente perché, rispetto ai Wallabies che affronteranno tra pochi giorni a Twickenham nella finalissima, sono la squadra che ha costruito più sistematicamente l’ascesa al trono imperiale del rugby internazionale. Non soltanto con un tradizione fortissima e una devozione cieca, ma anche spezzando le dicerie e le maledizioni e aggrappandosi al primato più che mai negli ultimi cinque anni — ad esempio chiudendo una stagione perfetta. Tra Nuova Zelanda e Australia, insomma, la parte della Cenerentola in questo caso sembra farla la seconda e, come insegna la storia e ha ribadito Duccio Fumero qualche giorno fa proprio su Undici, in questo sport gli outsider difficilmente hanno la meglio. Le eccezioni esistono, ma, per tornare all’inizio, non fanno statistica.

Certo, si possono imbracciare le ragioni che hanno portato l’una e l’altra squadra fino in fondo al torneo senza nemmeno una sconfitta e sicuramente per entrambe il merito va oltre i numeri. E si può anche considerare che, nel panorama generale, il fatto che in finale ci siano due delle quattro del Championship, mentre le restanti si giocheranno il bronzo, è indicativo della direzione che il rugby ha scelto di prendere. L’Europa è ufficialmente tagliata fuori in attesa di un adeguamento tecnico ora più che mai necessario, prima che il distacco diventi incolmabile e il gioco diventi troppo veloce per essere arrestato. Che la Francia, data tra le favorite quest’estate, sia caduta ai quarti, così come l’Irlanda dei miracoli di Paul O’Connell, non è più stupefacente della semifinale della Scozia, per la piega che hanno preso gli eventi. Se una squadra europea — raffiniamo, del Sei Nazioni — fosse arrivata in finale, sarebbe stato più inaspettato della vittoria del Giappone sul Sud Africa. Succede, ma non vale a cambiare la norma.

Il rugby ha preso una decisione precisa, che non comprende l’Europa

Detto questo, è molto più divertente e costruttivo prendere una manciata delle ragioni che possono favorire la vittoria di Nuova Zelanda o Australia a Londra, che in entrambi i casi fa da lato positivo di una sconfitta, comunque cocente.

LE RAGIONI DEGLI ALL BLACKS

  1. Il fattore maledizione

Se esiste un solo obbiettivo che la nazionale neozelandese si è data negli ultimi anni, è quello di distruggere la eco della maledizione che li vedeva vincere tutto tranne la partita decisiva. Dopo la prima edizione e fino a quella del 2011, la vicenda degli All Blacks nella Coppa del Mondo è fitta di delusioni dell’ultimo minuto. Nel 1991 sono caduti sotto i colpi dell’Australia in semifinale, nel 1995 sono stati spiazzati in finale dal Sudafrica più famoso della storia, nel 1999 è stata la Francia, nel 2003 di nuovo i Wallabies — quando si dice conti da saldare — e nel 2007 il peggior risultato di sempre: una caduta rovinosa per due punti maledetti regalati alla Francia ai quarti. Non ci fosse altro, basterebbe questo.

Il 2011 è stato l’anno della rivalsa. Ma come già detto, nel rugby il contentino non basta mai e la Nuova Zelanda di quest’anno è una squadra marziale, che ha superato di diverse misure il momento dell’assalto a occhi chiusi e baionetta avanti e da tempo pianifica la costruzione di un impero. Le facce sono le stesse dell’ultimo mondiale e questa è una delle notizie peggiori per l’Australia, che si trova di fronte una squadra che non è soltanto motivata, ma anche sicura di sé e dei propri crediti.


Troppa Nuova Zelanda per la Francia.
  1. Il fattore Alamo

Essendo la compagine neozelandese una truppa di lungo corso e di grande esperienza, per molti dei giocatori questa è l’ultima occasione per partecipare a una finale Mondiale — per alcuni, tra l’altro, è proprio l’ultima occasione di giocare in maglia nera. I soldati di Alamo sono quelli più agguerriti, perché non hanno niente da perdere salvo l’onore. E l’onore è qualcosa che viene via a peso d’oro. Se poi i futuri pensionati sono anche personaggi di grande carisma come Richie McCaw, Dan Carter, Ma’a Nonu, Tony Woodcock, Conrad Smith e Keven Mealamu, possiamo stare sicuri che non c’è niente che non siano disposti a fare per portarsi a casa intatta la fama che hanno sudato tanto per costruirsi.

McCaw, poi, è portato in palmo di mano da un’intera (piccola, per carità) azione. Se questa sarà davvero la sua ultima partita — ultimamente fa il vago — a Twickenham non ci saranno tifosi, ma gli adepti di un culto neopagano, una setta che ha nel flanker la sua divinità. Parliamo di leggende, ingigantite dalla certezza di aver fatto parte della squadra più forte del mondo quando nessuno poteva sperare di batterla. E qui viene il punto successivo, forse il più determinante.

  1. Il fattore oggettività

Gli All Blacks sono davvero forti come sembrano. Dopo aver vinto ogni singola partita del 2013, l’anno scorso si sono lasciati sfuggire soltanto il Sud Africa nel Championship. E ogni volta hanno giocato come se stessero inventandosi le regole sul momento, lasciando gli avversari liberi di provare a reinterpretare, ma senza troppa speranza di entrare nel gioco. Se il rugby sta cambiando — o è già cambiato, a deciderlo sarà proprio questa finale — sicuramente gli All Blacks sono seduti al tavolo della strategia e non si preoccupano troppo di rallentare per aspettare chi è rimasto indietro.

La prossima stagione sarà quella della tabula rasa, durante la quale bisognerà fare i conti senza chi fino ad ora ha costruito la perfezione. I neozelandesi toccheranno con mano la solidità dei risultati raggiunti e se veramente sono concreti quanto sembrano, avranno cambiato la storia del rugby.

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LE RAGIONI DELL’AUSTRALIA

  1. Il fattore David Pocock

Si dice che il numero otto australiano sia il miglior giocatore di rugby del momento. Si dice, e i fatti un pochino danno ragione alle voci. La squadra mutilata che ha resistito all’assedio gallese per otto minuti durante l’ultima partita del girone, si asserragliava attorno all’idea di un condottiero: David Pocock. Una specie di primo della classe, pulito nell’esecuzione e puro nell’anima. Uno che va a caccia dei palloni senza nessuna paura. Che prende l’iniziativa, ma abbastanza coscienzioso da gestire i compagni come se si trattasse di estensioni vaganti della propria volontà. Una roccia nelle ruck, capace di assorbire i colpi delle bordate avversarie come un pezzo da contraerea, finché la situazione non è di nuovo sotto controllo. Entusiasta in attacco, implacabile in difesa. Se c’è una cosa che può tornare utile all’Australia contro la Nuova Zelanda è proprio un giocatore capace di garantire i turnover e blindare il possesso di palla in avanzamento. Ora forse esagero, ma in questo Pocock è abbastanza impressionante.

Non si dovrebbero riporre tutte le speranze in un solo uomo, soprattutto parlando dello sport di squadra per eccellenza, che fonda la sua fama sulla generosità, ma la tentazione è forte. Soprattutto perché, nella finale, dall’altra parte del campo molto del gioco lo faranno i nomi degli avversari e la loro leggendaria presunzione. «Cercheranno di spezzarlo, gli andranno addosso con tutta la forza che hanno», ha detto qualche giorno fa Nick Farr-Jones, il capitano che ha guidato i Wallabies alla vittoria nel 1991. «Se abbiamo una sola speranza, è quella che lui non perda il controllo».


Il 2015 di David Pocock.
  1. Il fattore Michael Cheika

L’allenatore dell’Australia ha cambiato tutto in meno di un anno: il bilanciamento del peso della mischia, le regole degli ingaggi per la Nazionale e il sistema di beatificazione dei giocatori. Ha lasciato in panchina la nota testa calda Kurtley Bealey, in tribuna Quade Cooper e a casa James O’Connor. Ha riportato in rosa Matt Giteau alla faccia della federazione e si è preso la sua buona dose di scetticismo, prima di dimostrare che poteva condurre una squadra poco convincente fino all’orlo del successo mondiale. A fare bene i conti, forse l’Australia è proprio quell’eccezione che nessuno si aspetta. Moderata, perché così impone lo sport, e all’interno di certe barriere ben definite e rigidissime, ma a suo modo un coniglio dal cilindro. Se ha qualche speranza di avere la meglio sugli All Blacks, è proprio per la sua purezza di spirito e per la determinazione di chi fino a tredici mesi fa sembrava non avere speranza. Il merito tecnico va a Michael Cheika, su questo non ci sono molti dubbi.

  1. Il fattore blocchi di partenza

Se la Nuova Zelanda è una squadra alla fine, costretta a un ricambio importante e fisiologico appena dopo l’ultima partita del Mondiale, ma senza nessun rimpianto, l’Australia è una squadra al debutto ufficiale. Due estremi della stessa situazione. Dopo un periodo difficile e poco convincente, i Wallabies hanno trovato il modo di ringiovanirsi, rinfrescarsi e ritrovare la motivazione. L’obbiettivo non era nemmeno la finale, sarebbe bastata la vittoria sull’Inghilterra ad assicurare a tutti una buona estate — inverno, da questa parte del mondo. Contrariamente agli All Blacks, l’Australia si trova già ben oltre le proprie aspettative e per questo non ha più niente da trattenere. Da una parte ci sono i trincerati all’Alamo, ma dall’altra c’è lo sbarco in Normandia. In entrambi i casi, niente di cui rimanere delusi.


La vittoria dell’Australia sul Galles.

BONUS: LE RAGIONI DELL’ARGENTINA

Detto tutto questo e fatte le dovute considerazioni, un po’ di ribaltamento delle regole: l’Argentina, per la seconda volta nella storia, si trova a disputare una finalina mentre i “grandi” giocano al loro gioco di potere. Senza volersi lanciare in pronostici azzardati, la verità è che i Pumas stanno dimostrando una volta di più che, applicandosi, tutto è possibile. Anche accelerare il passo abbastanza da raggiungere le vette del rugby mondiale, oltre le nebbie del cambio di paradigma. Abbandonare tutta la tecnica imparata in Europa e riportare dal Championship il verbo del gioco degli isolani. Liberarsi della ruggine e della staticità dei punti di incontro forzati, per lanciarsi al galoppo nelle Pampas delle fasce. Ormai siamo abituati all’esistenza di questa ex squadra di dilettanti che continua a tenere testa ai giganti senza nessuna paura, ma non dimentichiamoci che è saltata fuori da dietro l’angolo solo nel 2007 e che in otto anni ha conquistato molto più di quanto altri si sono lasciati scappare — nessuna allusione ai presunti cugini continentali, ma diciamocelo. In finale possono anche esserci le maglie nere contro le maglie oro, ma la vera vincitrice è, ancora una volta, bianco-azzurra. E questo lo sanno tutti.

 

Nell’immagine in evidenza, l’australiano Bernard Foley (a sinistra) e il neozelandese Dan Carter. Stu Forster/Getty Images