A fari spenti

Stefano Pioli è diventato, senza che in tanti se ne accorgessero, uno dei migliori allenatori italiani. Il ritratto di uno normale.

Maurizio Zamparini è un tipo che difficilmente riconosce i propri errori. Soprattutto pubblicamente. Eppure, qualche mese fa, ha fatto un’eccezione: «Ho sbagliato ad esonerarlo, mi sto ancora mangiando il cappello». L’eccezione si chiama Stefano Pioli.

Pioli è arrivato alla Lazio nel giugno del 2014. L’ha fatto a modo suo, senza esagerazioni. Come uno di quelli timidi, che per entrare in un posto bussano alla porta, si affacciano, chiedono permesso due, tre volte. Il suo primo contratto con i biancocelesti è annuale. L’opzione per il rinnovo sarebbe scattata solo in caso di qualificazione alle coppe europee. Il giorno della presentazione, lo stesso allenatore chiarisce come la società avesse «offerto al sottoscritto un contratto biennale. Sono stato io a pretendere un impegno di una sola stagione. Prima l’Europa, poi il futuro». Il nuovo contratto di Pioli, che scade nel 2017, è stato firmato con l’inchiostro forte dei risultati. E prevede un’opzione di rinnovo fino al 2018, ovviamente.

La storia in biancoceleste dell’allenatore parmense è un po’ la concentrazione annuale di tutta la sua carriera nel calcio. Quella del campo, come giocatore e difensore, e quella in panchina. Lo Stefano Pioli allenatore è un po’ la riedizione perfetta dello Stefano Pioli calciatore. Uno che, senza troppo clamore, si porta a casa il meglio che c’è. Il palmarés è insospettabile: uno scudetto, una Coppa dei Campioni, una Supercoppa Europea, una Intercontinentale. E se il ruolo è quello del comprimario, sono le frasi con dentro il suo nome a raccontare di un calciatore comunque importante anche in una costellazione affollata come quella della Juventus, in cui abita per tre stagioni, dal 1984 al 1987. Una per tutte, quella di Giovanni Trapattoni: «[Pioli] È un tipo sveglio, dal gran fisico, Ha confermato una certa sicurezza ed offre un buon affidamento».

Pioli è uno che, senza troppo clamore,
si porta a casa il meglio che c’è

La storia con la Lazio è esplicativa. Pioli arriva a Roma qualche mese dopo un esonero a Bologna. Si presenta con fare mite, tranquillo, senza strombazzamenti mediatici. Niente esasperazioni tattiche o moduli astrusi, solo «principi di gioco che la squadra deve conoscere». I tifosi reagiscono in modo meno mite e tranquillo, bocciando fin da subito la scelta di Lotito. La stagione parte con un Milan-Lazio 3-1 e con altre due sconfitte nelle tre partite successive. Dopo Lazio-Udinese 0-1 dello scorso anno, quarta giornata, Pioli parla così: «I ragazzi sanno che hanno la mia fiducia e io sento la loro. Sappiamo che i risultati arriveranno presto». Non si sbaglia, Pioli: il 4-0 di Palermo lancia i biancocelesti in un magic moment che dura quattro vittorie consecutive, che non si esaurisce per tutta la stagione e che si ricarica dopo ogni fisiologico stop.

Palermo-Lazio 0-4. Segna tre volte Djordjevic

La nuova Lazio diventa una macchina efficace e bellissima. I “principi di gioco” di cui sopra sanno dar vita a una squadra spettacolare, imprevedibile, e la classe di De Vrij, Parolo, Candreva e Felipe Anderson fa il resto. Sono idee e interpreti, più dei numeri fissi di uno schema, a fare la differenza per l’allenatore parmense. Lo sostiene da sempre, fin dai tempi del Chievo e di questa intervista, in cui dice che «i moduli non vincono le partite». Lo afferma attraverso una squadra che gioca bene con Klose o senza, che perde Djordjevic per un brutto infortunio ed è costretta a riciclare Mauri nel ruolo di finto centravanti. Tutto questo senza disperdere il potenziale offensivo di Candreva, Felipe Anderson e dell’altro gioiello grezzo Keita. Pioli arriva in finale di Coppa Italia contro la Juventus e si gioca secondo e terzo posto con Roma e Napoli. Il 20 maggio perde contro i bianconeri, il 25 contro i giallorossi. Il 31 strappa a Napoli il terzo posto dopo un match drammatico, che la sua Lazio prima stravince, poi praticamente perde e poi vince di nuovo, definitivamente. In quei dieci giorni di fuoco giusto questa uscita, dedicata a Rudi Garcia. Roba appena fuori posto: «Gli allenatori stranieri vengono in Italia e diventano peggio di noi, Garcia poteva evitare di dire che siamo dei piagnoni. Non è stato né corretto né professionale». Questa frase potrebbe essere l’apertura di un non-libro: “La polemica secondo Stefano Pioli”.

Pioli abbraccia Parolo dopo la vittoria contro il Milan in TIM Cup il 27 gennaio 2015. Marco Luzzani/Getty Images

Pioli, oggi, è ancora il calciatore descritto dal Trap. Quello di buon affidamento, intelligente, sicuro. Nel ruolo di allenatore, queste skills confluiscono in due parole: lavoro e risultati. Vale a dire, quello che non è mai mancato nella sua carriera. Nonostante le poche celebrazioni, Pioli ha fatto bene ovunque gli sia stata concessa l’opportunità di farlo. La prima panchina è quella degli Allievi Nazionali del Bologna, con cui vince il campionato di categoria. È il 1999, e nel 2003 inizia il giro delle prime squadre. Ha lavorato a Salerno, Modena, Grosseto, Piacenza. Ha avviato il miracolo Sassuolo, ha salvato il Chievo e due volte il Bologna. Palermo è stata una tappa brevissima, lunga una sola estate e un preliminare europeo maledetto, in Europa League contro il Thun. Zamparini decise di petto e abbiamo già visto come giudica, a distanza di anni, quella scelta. Quindi, l’unica esperienza reallmente negativa risale alla stagione 2006/2007. A casa sua, a Parma. Proprio per questo, è tutta un’altra storia.

Per capire, si legga un’intervista del 2013. Stefano Pioli, da allenatore del Bologna, presenta così una sfida all’Inter: «Da ragazzo dovevo diventare nerazzurro. Ho visto la mia prima partita di Serie A dal vivo al Dall’Ara, e fu proprio un Bologna-Inter. Ma non sono mai stato interista: ho sempre tifato Parma». Se si vuole capire ancora di più, basta andare al 3 giugno 1984. Il Parma è a Sanremo a giocarsi la promozione in Serie B. Pioli ha i capelli lunghi, ricci, spettinati, studia da difensore centrale e di lì a poco partirà per la Juventus. Fa in tempo a fare un ultimo regalo ai tifosi crociati, e quindi anche a se stesso, siglando il gol che porta il Parma in cadetteria.

Un filmato vintage: Sanremese-Parma 0-1, 1984. Dentro, uno dei tre gol in carriera di Pioli.

Capire i motivi di quel fallimento, con queste premesse storiche, diventa più semplice. Se poi ci aggiungiamo che per Pioli è l’anno dell’esordio in A e che quel Parma – appena tre anni dopo il crac Parmalat – è in piena smobilitazione, il quadro è più chiaro. Pioli non regge all’urto della massima serie, la squadra non è eccezionale. Nel mentre, il Parma passa nelle mani del bresciano Tommaso Ghirardi, uno che sembra non riuscire a rinunciare alla giocata a effetto. Lo dimostrerà anni dopo, conducendo per mano il club al fallimento. Quando si insedia, a inizio 2007, i crociati perdono due partite di fila contro Milan e Roma. Tanto basta, a Ghirardi, per esonerarlo e chiamare a Collecchio Claudio Ranieri. Pioli chiude l’esperienza con 18 punti in 23 partite. Tornerà in Serie A solo quando si sentirà pronto, nel 2010.

In un’intervista del 2011, Pioli secondo Pioli è «un testone, uno che quando è convinto di una cosa non cambia idea». Un paio di anni dopo, racconta come avrebbe preferito dare più continuità al suo lavoro: «Non credo che una stagione sia sufficiente per far assimilare tutte le tue idee di gioco, cultura e atteggiamento di un allenatore». Frasi normali, di uno normale. Uno che viene da una famiglia di postini, del resto, deve essere normale per forza. Ma può anche passare una vita calcistica a dimostrare che la normalità non è un difetto. Che può diventare un pregio, costruito con la forza dei numeri, dei risultati. Lo dice nella stessa intervista in cui parla del poco tempo concesso agli allenatori: «Nelle stagioni e nei contesti in cui ho avuto modo di lavorare fino alla fine, le aspettative che c’erano all’inizio sono sempre state rispettate. Questo, per me, è motivo di orgoglio e soddisfazione».

Ha passato una vita calcistica
a dimostrare
che la normalità non è un difetto

Lo penserà anche adesso, dopo che la sua seconda Lazio ha vissuto un inizio di stagione similare alla sua edizione precedente. Un agosto terribile, in cui ha perso la Supercoppa contro la Juventus e il preliminare di Champions nel doppio confronto con il Bayer Leverkusen. In campionato, sei punti in quattro giornate e due scoppole da nove gol in trasferta, 0-4 al Bentegodi contro il Chievo e 0-5 in casa del Napoli. Scritte di contestazione a Formello e sui social, giocatori in ritiro e tifo sul piede di guerra contro una squadra «senza attributi». Pioli, dopo la notte brutta del San Paolo, dice la frase più ovvia del mondo. Ma in quella frase c’è tutto il suo, di mondo: «Non possiamo essere questi, siamo stati troppo brutti per essere veri». Oggi, la Lazio è quinta in classifica, a soli tre punti dal gruppetto delle seconde. E ha vinto tutte le gare stagionali giocate all’Olimpico.

Pioli, senza troppo clamore, è diventato uno dei migliori allenatori italiani. Una volta ha confessato di rilassarsi e pensare «fumando due sigarini». Oppure andando al cinema, anche da solo. In un luogo a fari spenti, evidentemente, uno così si trova perfettamente a suo agio.

 

Nella foto di testata, Pioli il 31 maggio 2015 durante il match contro il Napoli. Getty Images