Raúl, l’anti-galáctico

A cinque anni dall'addio al Madrid, a nove da quello alla Nazionale, dà l'addio al calcio un grandissimo attaccante normale.

Raúl arriva dalla Terra perché gli altri, quelli che arrivano dalle altre galassie, sono capaci di cose che lui, che noi, non possiamo contemplare. Galattico è Michael Jordan, che nella sua ultima partita con i Bulls (1998) ruba palla a Karl Malone, si porta a spasso gli Utah Jazz per tutto il campo, realizza “the shot”, il tiro del sorpasso e del sesto anello, a cinque secondi dalla sirena.

Raúl è un essere mortale, e in quanto tale gravato dal peso di esserlo e dai suoi effetti: paura, fallimento, conflittualità, colpa. Raúl non è un galáctico. Ce lo ha fatto credere per anni. E questo fa di lui uno dei giocatori più eccezionali nella storia del calcio.

Raúl arriva dalla Terra perché, quando si ritrova nella stessa situazione di Jordan, due anni dopo, fallisce. A lui restavano 28 secondi dal termine, un calcio di rigore a disposizione. Europei del 2000, quarti di finale: Francia-Spagna 2-1, un rigore per pareggiare. Una volta sistemato il pallone, su di lui piombano i fantasmi di una Nazionale ossessionata dal fallimento, che non vinceva nulla dal 1964. Tira, e va come si aspettava che sarebbe andata.

Raúl e quel rigore

La sua ultima partita con la Selección la gioca il 6 settembre 2006. È un’Irlanda del Nord-Spagna, valevole per le qualificazioni a Euro 2008, e le Furie Rosse perdono 3-2. Il giorno dopo i quotidiani spagnoli sono impazziti: «La España de Aragonés toca fondo», titola Marca. Da più parti si chiedono le dimissioni del selezionatore. Aragonés, per tutta risposta, decide di estromettere alcuni senatori, tra cui Raúl e Míchel Salgado. L’esclusione di Raúl dalla Nazionale, per la prima volta in dieci anni, solleva un coro di critiche. «Era necessario prendere decisioni per il bene del calcio spagnolo», dirà anni dopo Aragonés. «Arrivò un momento in cui la Selección divenne troppo per Raúl». Quella Spagna, senza Raúl, vincerà gli Europei, per poi vincerne un altro, più il Mondiale, con Del Bosque. Le critiche furono presto dimenticate, Raúl anche, spazzato via dall’alluvione di successi della Nazionale.

Un sondaggio di Marca di poche settimane fa ha certificato che, per gli appassionati spagnoli, il miglior giocatore nazionale di sempre è stato Xavi, con il 47,8% delle preferenze. Raúl, secondo, è al 24,1%, staccato di molto. Xavi è diventato il simbolo della Spagna che vince, il Paese che impone il proprio modo di intendere il calcio sugli altri. Raúl appartiene a un’altra generazione: di perdenti. José Antonio Camacho, quand’era ct delle Furie Rosse tra il 1998 e il 2002, disse: «Se all’estero dici Spagna, il primo nome che ti viene in mente è Raúl. Come Zidane in Francia o Beckham in Inghilterra». Più recentemente, nel 2012, Pep Guardiola ha messo da parte la diplomazia: «Raúl es el mejor jugador español de la historia». Una storia che se ne frega delle vittorie, quelle le si lasciano ai tifosi.

MADRID, SPAIN - AUGUST 22: Former Real Madrid player Raul acknowledges the crowd after the Santiago Bernabeu Trophy match between Real Madrid CF and Al-Sadd at Estadio Santiago Bernabeu on August 22, 2013 in Madrid, Spain. (Photo by Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images)

E comunque Raúl ha vinto, e tanto: sei campionati spagnoli, tre Champions League, due Intercontinentali, una Coppa di Germania, svariate Supercoppe. Ha collezionato record importanti, tra cui giocatore con più presenze nella storia del Real Madrid, 741, secondo miglior marcatore dietro Ronaldo, capitano più giovane della storia del club (a 27 anni). Raúl non ha cambiato la storia, ci si è trovato dentro. Però è stato abbastanza bravo da modellarla a suo piacimento. Alfredo Di Stéfano ha detto: «Se avessi saputo che qualcun altro avrebbe segnato più di me, avrei fatto più gol». Raúl era un ragazzino qualunque, travestito da campione etereo. Lo conferma quando sbaglia quel rigore contro la Francia, quando la Spagna lo abbandona come fosse un reietto, quando la sua carriera subisce un costante, e irreversibile, declino. Quando il Pallone d’Oro non lo vince. Si limita a sfiorarlo, nel 2001, arrivando secondo alle spalle di Michael Owen.

I galattici erano i giocatori con cui divideva il campo. Ronaldo, Fenomeno, come qualcosa che non è di questo pianeta; Zidane, e il suo calcio celestiale; Beckham, la sua sintesi inarrivabile di divinità glamour, dentro e fuori dal campo. Di Raúl? Si fa prima a dire cosa non è: non è spettacolo. «La parola spettacolo è più indicata per qualcun altro. Raúl è un giocatore austero: cerca sempre il modo più rapido, più diretto, per far gol. Questo stile lo tiene lontano dai riflettori, e ne limita anche il giusto riconoscimento alla sua carriera». Lo dice Jorge Valdano, che lo fece debuttare in Primera División, a 17 anni e 124 giorni. «Il ricordo legato al calcio più bello che ho è quel pomeriggio del 28 ottobre 1994. Corsi dai miei genitori: sarei partito per Saragozza insieme alla prima squadra». Valdano gli anticipò che sarebbe stato titolare: «Forse la cosa ti spaventa». Raúl rispose: «Míster, si quiere ganar sólo tiene que ponerme».

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Invece, a Saragozza, il Real Madrid perde 3-2. Raúl sbaglia quattro facili occasioni. Riesce persino a sparare in curva un pallone a porta sguarnita. Il fallimento, preceduto dalla paura: «Il giorno della partita, dopo il pranzo, ero sconvolto: non riuscivo a prendere sonno, continuavo a camminare per tutta la stanza senza sosta». Una concatenazione onnipresente nella figura di Raúl. Che però riesce a prendere a piene mani i suoi limiti, a calibrarli. A usarli a suo favore. Alla seconda gara in prima squadra, il gol arriva. È un derby contro l’Atlético che finisce 4-2 per le merengues. Dice ancora Valdano: «Ogni grande giocatore ha un vantaggio particolare. Quello di Raúl è l’intelligenza. È un crack mental». Renato de Lacour, che lo ha allenato nel San Cristóbal, la sua prima squadra, ricorda una spiccata capacità di concentrazione: «Ho visto giocatori con più tecnica, più qualità di lui. Ma lui, appena arrivava al campo, iniziava subito ad allenarsi».

San Cristóbal è il misero quartiere della periferia sud di Madrid dove Raúl nasce il 27 giugno del 1977. In questo barrio le differenze sociali si sovrappongono a quelle calcistiche: non si tifa Real perché è il club dei ricchi, si tifa Atlético perché è il club del popolo. Tutto ha una visione da ordalia, ma in un modo decadente, come se venisse fuori da una brutta imitazione. Però straordinariamente genuina: quando Raúl accetta la corte del Real, al padre Pedro si stringe il cuore. Sarà solo per il bene della carriera del terzo figlio che accetterà di vederlo con la maglia degli odiati.

Raúl, prima, aveva iniziato nella cantera dell’Atlético. Nel 1992, però, il settore giovanile dei colchoneros chiude per difficoltà finanziarie e il Real non si lascia scappare l’occasione di tesserare il giovanissimo attaccante. Qualche anno dopo l’Atlético tenterà di riprendersi quel talento che si era lasciato sfuggire, e sarà ancora decisivo Valdano. «Gli promisi che nel giro di due anni avrebbe giocato con la prima squadra. In realtà, era una bugia». Il tecnico argentino mentì anche a se stesso: tre mesi dopo, Raúl debuttò in prima squadra.

Nel 1998 Raúl si inventa questo straordinario gol contro il Vasco da Gama. Il Madrid vince la sua seconda Intercontinentale.

Da allora, Raúl non si ferma più. Tocca quota 26 centri nella stagione 1995/1996, quando si prende il posto da titolare fisso. Segna una tripletta in Champions al Ferencvaros e gol pesanti come quello alla Juve futura campione d’Europa, nei quarti di finale. Nel 1998 regala al Real l’Intercontinentale, decidendo la sfida con il Vasco da Gama con uno dei suoi gol più belli. Nel 1999 e nel 2001 è capocannoniere della Liga, con 25 e 24 gol. In mezzo, segna nella finale di Champions del 2000 contro il Valencia. Abbina il suo nome alle cucharas, le scucchiaiate. Con il piede sinistro è un cecchino. È una cosa che ha imparato da bambino, quando si infortunò alla gamba destra. Per poter continuare a giocare, iniziò a calciare con la sinistra, e non smise più.

Nel 2002 fa gol, ancora, in una finale di Champions. È il momentaneo 1-0 contro il Bayer Leverkusen, prima della magia impossibile di Zidane, che gli ruba la scena. Ma quella rete è la sintesi del suo calcio: un gol non spettacolare, ma nemmeno facile. Scatto rabbioso e sinistro a incrociare sul palo lontano, con quel piede che scocca il pallone come se fosse un pendolo. È un gesto di eleganza purissima, però non esasperata, ma essenziale. «Penso costantemente al gol. È la cosa più importante in una partita», disse una volta.

Una selezione dei più bei gol in carriera

Però qualcosa lo spingeva verso il basso, mentre puntava verso l’alto. Raúl ce lo ricordiamo inarrestabile a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila. Ma nella seconda metà del 1997/1998 segna appena due gol. La prima crisi della sua carriera, in cui entrano in gioco i meccanismi psicologici della seconda, quella definitiva. Senso di accerchiamento, colpa, frustrazione. La stampa lo accusa e i tifosi storcono la bocca, in giro le voci su una movida troppo esuberante, tra alcol e droga, si moltiplicano. Lui convoca una conferenza stampa, chiede scusa ad allenatore e compagni, piagnucola: «Lasciatemi maturare».

Sui los galácticos: «No entiendo esa palabra», risponde davvero così se glielo chiedete. Eppure ne è capitano dal 2003, dopo l’addio di Hierro. Via lui, via Del Bosque: è la vendetta di Florentino Pérez per la mancata Décima. Pérez è sempre più padre-padrone all’interno del Madrid, ingombrante al punto da mettere in pericolo l’autorità di Raúl. Non ci saranno liti, né accantonamenti misteriosi come nel caso di Hierro e Morientes. Ma i giornali spagnoli evidenziano la freddezza tra i due, e nello spogliatoio le cose non vanno meglio: pare che Raúl abbia pochi amici, forse nessuno, eccetto Guti. Il malcontento si riversa in campo. Per tre anni di fila non sfonda quota dieci reti nella Liga, e nel 2005 ci si mette pure la rottura al legamento crociato del ginocchio destro: fuori quasi cinque mesi. Sono anni, prima dell’arrivo di Capello, in cui il Madrid non vince nulla. E lui rimane sulla Terra.

Raul of Real Madrid celebrates his goal

Arriveranno ancora due campionati spagnoli, uno con Capello e l’altro con Schuster, ma non basta, non è bastato. Raúl è “solo” il grande professionista, l’esempio da seguire, il simbolo vivente del madridismo («Noble y bélico adalid, caballero del honor», come dice un verso dell’inno della squadra). Si è incastonato nella schiera dei grandi ma non dei grandissimi. In occasione del ritiro, Cristiano Ronaldo gli ha reso omaggio con un videomessaggio: «Como jugador y como profesional fuiste el número uno aquí». Come se avesse bisogno di essere consolato. Raúl è rimasto sospeso tra quello che è e quello che ha fatto, e a un certo punto le due cose non sono più coincise. È arrivato a una condizione che ha ribaltato il suo status di trascinatore in campo: un uomo senza un’epica forte, senza una prosopopea credibile, senza i contorni da superstar. A un certo punto tutto questo è diventato troppo per lui, come la Nazionale spagnola.