Orfani di George Best

Best rivoluzionò il calcio con il suo stile di gioco, non quello di vita. L'alcolismo fu la sua tragedia, non il suo fascino. Due libri per ripercorrerne la vita.

George Best

C’è una storiella su George Best che dice del personaggio molto più degli aforismi che ci ha lasciato. Lui stesso amava raccontarla. Grossomodo fa così. Un cameriere irlandese gli deve consegnare una bottiglia di champagne. Entra nella sua suite e lo trova a letto. Con lui ci sono le mazzette di sterline, tante, vinte al gioco, e Mary Stavin, attrice e modella svedese miss Mondo ’77, più o meno nuda a seconda delle versioni della barzelletta. Il cameriere si fa vicino a Best, e gli chiede: «Quand’è che le cose hanno iniziato ad andarti male, Georgie?».

Sono passati 10 anni da quando, il 25 novembre 2005, Best è morto in una clinica privata londinese. A causarne il decesso il combinato disposto di polmonite, setticemia, immunosoppressione indotta da farmaci e sindrome da disfunzione multiorgano, più un’emorragia gastrointestinale. A uccidere il campione nordirlandese all’età di 59 anni sono state le conseguenze di una vita da alcolista.

Il rapporto di Best con il bicchiere è leggendario. È entrato nel mito, come e più del suo modo di giocare istrionico e pungente. Ha sopravanzato la sua figura di calciatore. Ha lasciato un’impronta nell’immaginario collettivo più profonda anche del gol al Benfica in finale di Coppa dei Campioni 1968. L’alcolismo ha influenzato la carriera di Best come oggi ne condiziona la valutazione, perché induce il pubblico che guarda alla sua figura a due possibili distorsioni.

Best George

C’è un racconto “riduzionista” del campione nordirlandese, un modo di parlarne che riporta ogni discorso sul numero 7 ai termini del talento sprecato. La 66thand2nd editore ha appena tradotto in italiano George Best, l’immortale (traduzione di Francesca Benocci e Roberto Serrai), la biografia che della stella del Manchester United ha scritto il giornalista inglese Duncan Hamilton. Non si è più riusciti a discutere del ragazzo di Belfast se non con frasi ipotetiche del terzo tipo, spiega Hamilton. Il tenore del dibattito su di lui, sin da quando era ancora in attività, è del tipo: che fenomeno sarebbe stato senza vizi? Subordinando a un interrogativo cui non si può rispondere l’apprezzamento per quanto di buono Best ha pur fatto vedere. Il problema, commenta il giornalista inglese, sono «le grandi aspettative che gli altri riponevano in lui; è normale chiedere sempre di più a chi ha già dato tanto». Così facendo, però, i meriti si schiacciano sulle mancanze e la figura del calciatore si appiattisce su quella dell’uomo debole.

Manchester United campione d’Europa nel 1968 contro il Benfica: Best at his best

C’è un campione da riabilitare, ricorda Hamilton, che non si riferisce tanto al medagliere e ai titoli, ma alla carica di innovazione che Best ha portato nel calcio. Il nordirlandese, sostiene il giornalista britannico, è stato il primo giocatore moderno. «Era assoluto, completo: ambidestro sublime, deciso nei contrasti, intrepido in elevazione e dotato di una superba visione periferica che gli permetteva di dominare tutto ciò che aveva davanti». Alla tecnica univa il coraggio: era «sfacciato, un vero guascone». Il carattere è l’ingrediente che fa la differenza. I campioni di oggi applicano sul prato il proprio estro in condizioni regolamentari che ne tutelano l’incolumità. Best giocava negli anni Sessanta, quando «il calcio era una faccenda piuttosto brutale» spiega Hamilton. «Se le disposizioni attuali sulle entrate a gamba tesa, sui falli da dietro, le gomitate e i tacchetti fossero state in vigore allora, la maggior parte delle partite sarebbe finita in sette contro sette». Non nei capelli lunghi, ma nel rappresentare un punto di rottura sta il suo essere una rockstar, il “quinto Beatle”. Come i cantanti della sua generazione sovvertono le regole del vivere borghese, Best ribalta quelle dell’ala di fantasia. Non gli basta divertire: dà spettacolo.

Torniamo al secondo travisamento postumo. Più molesta ancora è la lettura semplicistica dell’alcolismo di Best. Per gran parte del pubblico, specie tra quelli che non l’hanno visto né giocare né in vita, fa parte del suo fascino. Anzi, più dell’irriverenza e delle basette mandibolari, è l’etilismo a renderlo un maudit. Che sia stato un ottimo calciatore diventa un particolare accessorio, rappresenta solo il trampolino per la celebrità, ma non ragione della fama. Non Best il campione, ma amano George il dissoluto, il donnaiolo, il beone.

È una visione divertente, ma che stona. Se c’era uno che, alla fine, non si compiaceva dei propri vizi era Best. Baldini&Castoldi ha pubblicato nel 2002 la sua autobiografia con il titolo The Best. La versione originale, uscita l’anno precedente, porta in copertina la dicitura Blessed, che gioca sull’ambivalenza tra “beato”, nel senso di perfettamente felice, e “benedetto”, cioè in qualche modo favorito dalla divina provvidenza.

George Best memory

Quando si mette alla macchina da scrivere per raccontare la propria vita, il 53enne Best è appena sopravvissuto (febbraio 2000) a un’insufficienza epatica che quasi lo ammazzava. Sa di essere un alcolista e sa pure di essersene reso conto tardi. Pone lo spartiacque ai 27 anni. Fino a quel momento la vita da atleta, pur interpretata in maniera eccentrica, lo ha tenuto a galla. Dopo, quando con la maturità dovrebbe iscriversi con Di Stefano, Eusebio e Maradona al club dei grandissimi di tutti i tempi, inizia la china discendente. Si parte dal Madame Tussaud che sostituisce la sua statua con quella di Cruijff, e si finisce coi Mondiali di Spagna evitati per una forma di codardia. Nel 1981 Best vive il primo ricovero in una clinica di disintossicazione. Intanto l’Irlanda del Nord si qualifica alla competizione iridata. Lui è uscito dal giro e il selezionatore Billy Bingham pretende che si rimetta in forma prima di convocarlo. L’offerta di ingaggio del Middlesbrough arriva al momento giusto. Ma George, che non ha mai giocato una partita dei Mondiali, rifiuta. Il più forte giocatore nordirlandese di tutti i tempi in Spagna, anziché per confrontarsi sul campo con Platini e Zico, ci andrà da commentatore tv.

Codardia, si diceva. Intorno ai 30 anni Best, che ha visto la madre morire da alcolista, comprende di non essere un bevitore qualsiasi, ma di avere un problema di dipendenza. Sa pure che, per quanto si sforzi, malgrado psicoterapia e cure farmacologiche, non è in grado di gestire il rapporto col bicchiere e che, anzi, questo è un’insidia che lo porterà in basso. «Ero stato lontano dall’alcol per circa nove mesi», racconta a proposito della disintossicazione del 1981, «ma non avevo smesso nemmeno per un istante di sentirne la mancanza. Gli psicologi dilettanti amano pensare che si possa risalire a un incidente che scatena una ricaduta, ma un alcolista come me non ha bisogno di una ragione». Resteranno travolti dall’etilismo carriera professionale e vita privata (non tanto per i divorzi, ché quelli capitano pure alle persone sobrie, ma per la bancarotta e i tre mesi di reclusione per guida in stato di ebbrezza). Quando è una vecchia stella che di mestiere fa il conferenziere, la musica non cambia. «Avevo un paio di ingaggi in agenda, ma una volta iniziato a bere non ci pensai più», ricorda George Best a proposito di alcune collaborazioni televisive negli anni 90. «Se hai dei problemi con l’alcol, non c’è niente altro che conti nella tua vita. Abbandoni qualsiasi pensiero logico. La gente chiede sempre: “Come hai fatto a startene fuori a bere quando dovevi guadagnare la pagnotta?”, ma questo vuol dire usare la logica».

George Best 1964
Prima che succedesse tutto quello che successe poi: a 18 anni, nel 1964

 

Nel 2001, spaventato dall’insufficienza epatica, Best è convinto di poterne uscire. Le conclusioni della sua autobiografia sono un inno all’ottimismo. Le cose non andranno come da aspettative. Nel 2002 è sottoposto a un trapianto di fegato, ma questo non evita che, nella baraonda delle polemiche giornalistiche, Best continui a bere. Nell’autunno 2005 l’ultima crisi. In un mese di degenza passa dai 75 ai 40 chili di peso. Consapevole di star morendo, concorda con News of the World la pubblicazione di una sua foto sul letto d’ospedale. Itterico, intubato, coperto di ematomi e con gli occhi bui, la sua ultima intervista è un appello, riportato con grandi caratteri neri sotto la foto: «Don’t die like me».

Calciatore, ma anche cantante, attore, testimonial, imprenditore nel campo della moda e della ristorazione. Best è stato tante cose, e diverse le ha fatte egregiamente. Ha avuto dipendenze. Anche la ludopatia, ad esempio. Ricordarlo oggi bonariamente come un forte bevitore, giusto per ammiccare all’immaginario rock e glissando sul fatto che nel suo essere stato un boozer non c’è niente di bonario, non è la cosa migliore. Lo spiega, a suo modo, la storiella iniziale. Miss Mondo, i soldi vinti al gioco, lo champagne: tutto molto suggestivo, eppure quel cameriere irlandese intuisce che c’è qualcosa di sbagliato. «Quand’è che lo cose hanno iniziato ad andarti male, Georgie?».