La squadra degli invisibili

Si chiama "Loro di Napoli" il documentario che racconta l'Afro-Napoli: come il calcio ha dato un'ideale cittadinanza a chi la insegue da sempre.
di Cristoforo Spinella 16 Dicembre 2015 alle 15:22

Il capitano Lello vive da 23 anni ai Quartieri Spagnoli ma per l’Italia legalmente non esiste. Maxime, arrivato a Napoli dalla Costa d’Avorio, ha trovato lavoro come elettricista però il suo campo d’azione preferito resta la fascia sinistra. Adam sta a Secondigliano con la mamma, fa il portiere di riserva ma il talento non gli manca, se non fosse che lo descrivono un po’ pigro. Pure la sua famiglia è originaria della Costa d’Avorio, ma in Italia lui ci è nato e cresciuto. L’universo dell’Afro-Napoli United, la prima squadra fatta principalmente di migranti a partecipare a un campionato federale, sono loro. Il futuro, la nuova Italia, il Paese di domani: nessuno slogan è più fuorviante.

Loro, i figli di Napoli, sono il presente, e già da un bel po’. Solo che la norma delle leggi e della politica è più lenta della realtà. Anzi lenta e basta, si direbbe a guardare le vite raccontate da Loro di Napoli di Pierfrancesco Li Donni, appena presentato nella sezione Panorama al Festival dei Popoli di Firenze. Un film documentario dove il pallone torna metafora di opportunità e riscatto come nella sua vocazione più alta, e nonostante gli ostacoli più grandi i ragazzi dell’Afro-Napoli li trovino fuori dal campo. Sul terreno di gioco, a parte qualche ragazzata, poco da dire. Sono i più forti e si vede subito. Nella stagione raccontata, quella 2013-2014, la squadra fa molta più fatica a iscriversi al campionato di terza categoria che a vincerlo.

Il trailer del documentario.

Solo che questo non è proprio un documentario. La storia è vera, i protagonisti pure troppo – come del resto suggeriscono anche i sottotitoli che accompagnano dialoghi quasi solo in dialetto, senza indulgenze per una forma più digeribile da mostrare sullo schermo. Ma il racconto in cui ci guidano sembra quasi fiction, vicende recitate scavando nell’intimo delle vite di tre protagonisti che sono emblema di una squadra e un pezzo di società ancora marginalizzato ma non più marginale. Per girarlo, ci sono voluti due anni di lavoro e riprese tra i quartieri di Napoli e il Vallefuoco di Mugnano, il campo dove nel frattempo l’Afro-Napoli United ha vinto un altro campionato e ora gioca in prima categoria, rivaleggiando per il primo posto.

Ma qui il calcio è metafora più che mai. La sfida è poter giocare, prima ancora di vincere. Perché in maggioranza quelli che schiera l’Afro-Napoli sono ragazzi a cui non manca il talento ma quasi sempre un pezzo di carta. E quasi mai per colpa loro. Maxime, ufficialmente classe ’90, in Italia risiede legalmente, ma una casa è come se non l’avesse. Perché quello che gliela affitta “non vuole fargli la residenza”, come racconta Antonio, l’allenatore-ispiratore di questa battaglia contro la burocrazia che schiaccia. Per giocare, con l’aiuto della squadra, Maxime troverà una casa nuova che gli piace pure parecchio, a Pianura. Ce lo racconta lui stesso nelle lettere alla madre rimasta in Costa d’Avorio, che non vede da 7 anni e chissà quando potrà. Come laterale sinistro non è male, pare lo vogliano anche altre squadre del Napoletano, dove la concorrenza è forte e il clima spesso difficile, qualunque sia il colore della pelle. Ma lui resta all’Afro-Napoli, dove si convince che almeno non lo vogliono sfruttare.

Afronapoli STILL 20

Adam, anzi Adamo come lo chiama la mamma, è nero e parla napoletano strettissimo. Forse è che con i suoi 21 anni è tra i più piccoli, ma la testa sembra averla spesso fuori dal campo. Però dicono che è bravo, con un po’ di allenamento potrebbe essere il titolare. Lui che ancora non è certo di quello che farà, studia intanto da barman acrobatico. E poi c’è Lello, una vita come paradosso. Nato e cresciuto a Napoli, lì è anche imprigionato. Una città – non proprio Napoli Napoli, ma insomma – che è come un grande carcere da cui non può fare neanche un’innocente evasione per vedere Jennifer, la madre di suo figlio che a Parigi ha trovato un lavoro vero e quindi a tornare non ci pensa nemmeno. Lello c’è – è pure il capitano della squadra e un enganche piuttosto carismatico –  ma è come se non esistesse. Perché è uno dei 4 apolidi nati sul territorio italiano. Mai registrato all’anagrafe, nessun documento d’identità. Per lo Stato quasi un fantasma, certamente un’anomalia. Per provare che esiste, oltre alla sua cresta e al suo sguardo triste, bisogna cercare qualche pagella delle elementari. E ancora oggi, due anni dopo che Loro di Napoli ha iniziato a seguirne la storia, Lello esiste a metà. Con l’Afro-Napoli continua a giocare e vincere grazie a uno “ius soli sportivo”, un’eccezione per aggirare la burocrazia che non si sposta. Nell’attesa, sua e di almeno un milione di altri, di poter togliere quell’aggettivo e finalmente non essere più un’anomalia.

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