Eugenio Fascetti quella sera aveva un problema: Osmanovski e Masinga, i due attaccanti titolari del Bari, erano entrambi out per infortunio. Non c’era scelta: sarebbe sceso in campo uno dei due promettenti ragazzini di cui tanto si parlava in città. Uno di loro, Antonio Cassano, quando il mister prese il foglio della distinta, sbirciò il nome dell’altro. C’era scritto “Ugo” e si rassegnò, certo di non giocare.
Due ore dopo, ai microfoni di Antenna Sud, avrebbe raccontato un’altra storia con queste parole: “Io mi(sic) pensavo che non giocavo quando ho visto Ugo avanti. Poi il mister ha detto: giocate insieme…”. Giocarono infatti entrambi, quello nigeriano (Hugo Enynnaya) e quello di Bari Vecchia; quello dei 60 gol in Primavera, come si diceva a Bari allora, forse con gran senso di approssimazione.
Io, tifoso dell’Inter da sempre, nel dicembre del 1999 mi ero da poco iscritto all’Università degli Studi di Bari, facoltà di Lettere Classiche. Fu un inizio difficile per tante ragioni: la vita da fuorisede (arrivavo da Rotondella, paesino di 3mila anime scarse in provincia di Matera), la nostalgia della famiglia, le fragilità personali, le lezioni deludenti rispetto alle attese. Credo sia un impatto comune a molti, ma intorno alla prima metà di dicembre produsse in me una condizione particolare e preoccupante: non sentivo più nulla, una strana sensazione di apnea continua, nessun gusto per le cose; non c’era notizia che mi facesse gioire, un piatto che desiderassi mangiare. Penso che fosse l’anticamera, o forse già un inizio, di quella che si chiama “depressione” e che mai avrei avuto la sorte di provare in modo pieno.
Proprio in quei giorni mio padre, interista da sempre come me, mi chiamò al telefono e disse che sarebbe venuto a vedere Bari-Inter con mio fratello, milanista non da sempre. Allo stadio arrivammo puntuali, con posto in tribuna centrale (mio padre non badava a spese, non lo avrebbe mai fatto) non lontani dall’area dei tifosi nerazzurri. Per la verità a Bari, quando arrivano le grandi del Nord (Inter, Milano e Juve), i club di Puglia e Basilicata danno il meglio in termini di presenze e non sai mai per chi faccia il tifo chi ti sta accanto. La notizia dei due sbarbatelli in campo fu un sollievo per noi interisti. Ci sbagliavamo, e ce ne saremmo accorti già al settimo minuto, quando uno dei due, Ugo, strappò a morsi il suo spazio di gloria con un magnifico tiro da centrocampo, imparabile per Peruzzi.
Il gol commentato da Fabio Caressa
Ripenso oggi alla bellezza di quel gol, e al fatto che mai, in quell’istante, avrei potuto pensare che nella memoria di quella serata si sarebbe trasformato in un dettaglio. Fu dettaglio anche il gol di un bomber d’eccezione, Christian Vieri, che pareggiò i conti cinque minuti dopo. Dettagli, dicevo, perché mai come quella volta, forse, una partita si esaurì in un istante, con un istante coincise. Fu quello, lunghissimo e bellissimo, del minuto 88. Cominciò con un lungo lancio partì dalla difesa, quando tutti fummo spettatori di una cosa mai vista prima, destinata a stamparsi nella memoria collettiva: il famoso aggancio volante a seguire con il tacco, che quasi produsse l’esultanza di un gol. Quel gesto strappò l’urlo, ma ricordo che già allora colsi il momento più esteticamente sublime di quell’azione, che non fu il tacco, ma un doppio tocco di testa e poi di sinistro (rivedeteli), densi di una compostezza e un’armonia che strappano ancora, su youtube, la parola bellezza.
In quell’istante cominciai (cominciammo tutti, anche tutti noi interisti) a desiderare quel gol. Seguii da tifoso quella corsa, quei piedi molli, quel dribbling finale, quel tiro con caduta annessa e quella magnifica corsa verso la Nord. Dello stadio ricordo l’urlo. Non improvviso, ma graduale, crescente. Cominciò con quel controllo di tacco, poi crebbe, fino all’esplosione del gol, come se lo avesse accompagnato. E poi, non so come, durante l’esultanza quasi crebbe, si replicò nelle singole persone, come se pian piano ciascuno prendesse coscienza dell’istante di cui si era avuto il privilegio di godere dal vivo.
La bellezza non era tutta lì. In tv avrei visto ancora un paio di cose belle che dal vivo non avevo potuto cogliere. La prima fu il gesto della mano di Cassano, su e giù col palmo aperto verso l’interno, con l’espressione stupita del viso, un gesto che a Bari ha una traduzione in parole e suoni, pressappoco questa: “Mooo….c’ so’ fatt” (cosa ho fatto). È affermazione orgogliosa del proprio operato, ma può essere anche domanda all’ignoto: “C’ so fatt?” (Cosa ho fatto?), di quando l’atto creativo supera e stupisce l’autore stesso, quando (per dirla “laicamente” con Maradona) c’è la mano del dio. Ma le cose belle ne ispirano sempre delle altre. Quella sera non potei ascoltare, su Tele+, un ispiratissimo Fabio Caressa. Mentre Cassano prendeva l’abbraccio della sua curva (in senso molto poco metaforico), trovò parole semplici ma belle: “Secondo me, quello che sta provando adesso Cassano…. non lo può spiegare neanche lui”.
Si superò qualche minuto dopo, quando l’arbitro (Cassano in mezzo alla sua gente, quella gioia che le parole non dicono) prese il cartellino giallo per ammonirlo a causa dell’esultanza eccessiva, come tutto in quegli istanti. Cassano gli si avvicinò con quel sorriso amico e sornione che tutti avremmo imparato a conoscere e gli carezzò il fianco: era un grazie a quel cartellino. Caressa : “Il regolamento va applicato, siamo d’accordo, ma se Cassano non va sotto la curva adesso… quando ci va?”. La festa che vince sulle sanzioni, la gioia oltre le regole.
L’Inter di quella sera era l’Inter “meteora” di Marcello Lippi, quella che in estate, per 90 miliardi di lire, aveva messo accanto al Fenomeno Ronaldo, per abbondare, proprio Christian Vieri. Insomma, Too big to fail, e infatti fallì, fermandosi a un deludente quarto posto, dopo il buon inizio di un Campionato che la Lazio avrebbe vinto nella pioggia di Perugia. Il Bari, invece, come sempre giocava per salvarsi, e infatti si salvò, per un pelo, a soli tre punti dal Torino ultimo e retrocesso. Si viveva di grandi speranze e recenti nostalgie, a quasi un quinquennio dai fasti scenografici del “Bari del trenino”, quello che aveva fatto sognare con Sandro Tovalieri, Lorenzo Amoruso ed Emiliano Bigica (una delle più grandi promesse non mantenute del calcio italiano nell’ultimo ventennio); un sogno durato troppo poco e finito in B l’anno dopo, nel 1995-96, nonostante i 24 gol di Igor Protti capocannoniere. Quella sera, anzi in quell’istante, sarebbe diventato il Bari di Cassano, poi di nessuno più.
Io, intanto, mi accorsi che per la prima volta avevo esultato per un gol subito dall’Inter, la mia squadra: non sarebbe mai più successo. Poi, dopo un po’, mi accorsi con gioia di aver esultato e basta. Avevo, cioè, provato un istante di gusto vero dopo quei giorni di buio. Per fortuna non sarebbe più successo neanche quello.