Sud Africa, Europa

Il Sud Africa non ha mai avuto il suo Drogba. Ma un legame duraturo con l'Europa, e molte storie condivise: a partire dall'Heracles degli anni Sessanta.

Avrebbe potuto essere una piccola versione calcistica di Invictus, ma la storia capovolta di Mark Fish – bianco nel Sudafrica dell’apartheid, eppure nato povero, cresciuto in condizioni di indigenza in un sobborgo di Città del Capo, un futuro dietro le spalle, o peggio, evitato grazie al pallone – ha intrapreso altre direzioni. Questione, soprattutto, di talento, di cui l’ex Lazio non abbondava particolarmente. Eppure era proprio Fish uno dei migliori prospetti della nazionale Bafana Bafana che nel 1996, con la conquista della prima – e finora unica – Coppa d’Africa della sua storia, faceva ipotizzare un futuro dai colori arcobaleno, come la bandiera disegnata dall’araldo di stato Frederick Brownell e adottata dal Sudafrica poco più di due anni prima. La generazione migliore: Lucas Radebe, Doctor Khumalo, Phil Masinga (arriverà in Italia l’anno dopo per una toccata e fuga a Salerno, per poi andare a fare coppia a Bari con il baby Cassano), Shaun Bartlett. Nel nuovo millennio arriveranno Benni McCarthy, l’unico sudafricano a vincere la Champions League (con il Porto di Mourinho), Aaron Mokoena (con 107 caps l’unico centenario della nazionale), Steven Pienaar, Siyabonga Nomvethe, prima del declino. Oggi l’arcobaleno è sempre più sbiadito, basta dare un’occhiata al pool di giocatori al quale può attingere l’attuale ct Ephraim Mashaba: nessuno gioca ad alto livello in Europa. Ci sono Rantie nel Bournemouth, Serero nell’Ajax, Patosi nel Lokeren. Poca cosa. «Non è solo una questione di talento», commenta l’agente sudafricano Glyn Binkin, «ma di soldi. Oggi in Sudafrica un giocatore guadagna bene, e pertanto le trattative con i club europei sono più difficili, perché nessuno accetta offerte al ribasso. È ovvio che in questo modo il movimento, privo di giocatori con esperienze importanti a certi livelli, fatichi parecchio a crescere».

Il Sud Africa non ha mai trovato il suo Drogba, nemmeno negli anni d’oro, ma oggi si accontenterebbe di un Bony qualunque. Tutti i giocatori, validi o meno, espatriati nell’ultimo ventennio devono comunque qualcosa a due pionieri che hanno lasciato questo mondo proprio nel 2015, Darius Dhlomo e Steve Mokone, i primi due calciatori sudafricani ad aver giocato in Europa. Dhlomo aveva 26 anni quando decise di averne abbastanza di vivere in un mondo in bianco e nero, quindi prese carta e penna, e scrisse una lettera dai toni aspri all’Ilanga Lase Natal, il giornale dove suo zio Robert era caporedattore. La missiva denunciava, senza troppi giri di parole, la politica di segregazione razziale attuata dal governo sudafricano: i bianchi da una parte, i neri dall’altra. Comandavano i primi, ottusi e brutali come nella peggiore tradizione dei regimi. Altri sarebbero finiti in manette nel giro di 24 ore con l’accusa di sedizione, ma Dhlomo era troppo famoso per essere arrestato. Miglior calciatore sudafricano (la sua squadra era il Baumanville City Blacks di Durban) e sportivo dell’anno nel 1957, pugile campione nazionale nella categoria mediomassimi, stimato batterista e vocalist di un ensemble blues e jazz. Nessuno poteva vantare il suo seguito all’interno della comunità nera, e vederlo finire dietro le sbarre per una lettera avrebbe con tutta probabilità dato fuoco alle polveri di una rivolta.

Philemon Masinga nel 1998 (John Parkin/ Allsport Usa)
Philemon Masinga nel 1998 (John Parkin/ Allsport Usa)

Da quel mondo che Dhlomo non sopportava più, Steve Mokone era riuscito a scappare qualche anno prima. Nazionale sudafricano all’età di 16 anni – ovviamente nella selezione dei neri, Mokone aveva firmato un contratto da professionista in Inghilterra al Coventry dopo che due anni prima il padre, che per lui sognava un futuro da avvocato, gli aveva impedito di andare al Newcastle. Stile di gioco pittoresco tutto scatti e dribbling, ben presto Mokone si era reso conto che il razzismo non era una prerogativa esclusiva del Sudafrica. Gli inglesi lo avevano accolto bene, la gente accorreva allo stadio per vedere in azione colui che la stampa locale aveva poco fantasiosamente definito “la perla nera”, ma una volta terminata la partita Mokone si ritrovava solo in una stanza d’albergo, con un letto, una tv che non sapeva usare e poco altro. L’isolamento proseguiva in maniera più subdola anche nello spogliatoio, dove nessuno perdeva occasione per fargli capire che lui non era come gli altri.

Dhlomo e Mokone si incontrarono sul finire del 1958 in una cittadina olandese di 35mila anime, Almelo, per vestire la maglia a strisce bianche e nere della squadra locale, l’Heracles. Mokone ci era arrivato l’anno prima, preferendo l’Olanda alla Spagna per ragioni linguistiche, dal momento che l’afrikaans parlato in Sudafrica è una lingua germanica affine all’olandese. Scelta indovinata: assieme alla punta Joop Schuurman, che proprio quell’anno aveva segnato 47 reti stabilendo un primato tuttora imbattuto nel calcio professionistico dei Paesi Bassi, Mokone era stato il grande protagonista della promozione dell’Heracles in Eerste Divisie, la Serie B oranje. Per Dhlomo invece l’avversario più duro rimaneva l’apartheid. Non potendo colpirlo direttamente, e dopo aver fallito un tentativo di infiltrazione nell’ANC (African National Congress, il partito anti-apartheid nel quale Dhlomo aveva conosciuto Nelson Mandela) allo scopo di coinvolgerlo in qualche disordine, i nazionalisti afrikaner avevano deciso di cambiare strategia, utilizzando un’arma più sottile ma non meno letale: la burocrazia. Per andare a giocare in Olanda, Dhlomo aveva bisogno del passaporto. Gli venne concesso dopo nove mesi, ma ce ne sarebbero voluti anche il doppio senza l’intervento di un avvocato bianco amico di una delle sorelle di Dhlomo, che si interessò personalmente della pratica fino a consegnare personalmente il documento nelle mani del giocatore.

Qualche rara immagine di Darius Dhlomo in campo, con l’Heracles, dalla televisione olandese

Dhlomo lasciò il Sudafrica l’11 novembre 1958 con una camicia di lino, un paio di pantaloni estivi e una piccola borsa di tela. Una volta atterrato ad Amsterdam scoprì un nuovo mondo. I bianchi si rivolgevano a lui chiamandolo “sir” oppure “mister”, e ad attenderlo nella piazza centrale di Almelo c’era un centinaio di persone. I primi giorni di allenamento Dhlomo si cambiava nello sgabuzzino dove venivano tenuti i palloni, ma solo perché nessuno lo aveva avvisato che in Olanda non era vietato condividere gli stessi locali con i bianchi. In campo il periodo di ambientamento durò circa un paio di mesi. Schierato sul lato sinistro della metà campo, il suo colpo d’esterno mancino ad aprire il gioco o a lanciare il compagno in profondità diventò in breve tempo la principale attrazione in casa dei Tukkers. Una volta il giornalista olandese Humberto Tan scrisse che senza l’influenza dei giocatori surinamesi, caratterizzati da uno stile estroso di matrice brasiliana, l’Olanda sarebbe diventata una sorta di Germania-bis. Il discorso può essere ampliato anche ai sudafricani Mokone e Dhlomo, entrambi arrivati nel paese dei tulipani nel medesimo periodo – la seconda metà degli anni Cinquanta – dei loro colleghi surinamesi (il primo fu Humprey Mijnals all’Elinkwijk Utrecht), e anch’essi inconsapevoli precursori di una tra le più felici contaminazioni calcistiche. Anche se, per ironia della sorte, oggi è la Germania ad essersi trasformata in un’Olanda-bis. Ma questa è un’altra storia.

Dhlomo e Mokone giocarono assieme per qualche mese, poi quest’ultimo – forte di una notevole fama tra gli addetti ai lavori – preparò i bagagli per un campionato più competitivo. La leggenda narra che un infortunio all’anca interruppe una trattativa ben avviata con l’Inter, portando il sudafricano a Barcellona. I blaugrana però lo girarono in prestito all’Olympique Marsiglia, non potendo più tesserare per regolamento altri giocatori stranieri. Dalla Francia Mokone tornò in Italia, al Torino, dove diventò suo malgrado protagonista di un piccolo giallo, visto che, a dispetto del curriculum, con i granata non scenderà mai in campo. Bidone epocale o giocatore incompreso? Per un granata doc Gian Paolo Ormezzano è buona la prima. «Era il prototipo del bidone. Fu comprato perché a uno dei soci principali del Torino piaceva molto sua moglie e così li fece venire un anno a Torino, ma non lo fecero giocare mai, impossibile, non era all’ altezza». Eppure in un’amichevole precampionato contro il Verona Mokone si era presentato con cinque gol. Eppure in seguito avrebbe affrontato, con il Valencia, nientemeno che il Santos di Pelé, segnando anche una rete. A Torino però solo fischi, battutine ironiche e tanta cronaca rosa per i flirt – veri o presunti – attribuiti alla moglie. Nel 1977 Mokone venne arrestato negli Stati Uniti con l’accusa di violenza privata. Lo condannano a dodici anni di galera, nonostante lui si proclami innocente. Una grande ingiustizia, almeno secondo il suo biografo Tom Egbers, autore dei libri De Zwarte Meteoor (la meteora nera) – da cui è stato anche tratto un film nel 2000 – e Twaalf gestolen jaren (12 anni rubati). La tesi è che Mokone, diventato dottore in psicologia ma soprattutto attivista politico, sia stato incastrato in quanto personaggio scomodo.

Un tributo a Mokone, dal canale Youtube ufficiale dell’Heracles

Meno avvolta da misteri è invece stata la vita di Dhlomo una volta lasciato l’Heracles. Per lui l’Olanda è diventata la seconda patria, si è sposato ed è addirittura stato consigliere comunale della città di Enschede per otto anni tra le fila del Partito del Lavoro olandese. Ha giocato fino a 35 anni, vestendo le maglie di Vitesse Arnhem, DHC Delft, Tubantia Hengelo e Enschedese Boys. Tra le fila di questi ultimi ha conosciuto il “Meazza d’Olanda” Abe Lenstra, uno dei più grandi attaccanti di sempre nella storia del calcio oranje. Tra i due si è cementato un forte legame anche fuori dal campo, con l’ormai 42enne Lenstra prezioso nell’aiutare il collega sudafricano a superare i lunghi e gelidi inverni dell’Overijssel attraverso infinte partite a scacchi e biliardo. Darius Dhlomo ha rimesso piede in Sudafrica solamente nel 1992, 34 anni dopo la sua partenza. Trovò finalmente un paese a colori.

 

Nell’immagine in testata, la Nazonale sudafricana ascolta l’inno al Nelson Mandela Inauguration Challenge, contro l’Egitto, nel 1998