“Down under”, giù sotto, è un altro mondo. Perché l’Australia è davvero agli antipodi della vecchia Europa. È più grande e più evidente e, a gennaio, è in piena estate: tanto sole, abbagliante, tanto caldo, anche a 50 gradi, tanta luce, più netta, tanto colore, nitido, tanto cielo, blu, davvero blu. Non è tanto il primo mese dell’anno, quanto il primo grande tennis della stagione, il buongiorno agli eroi della racchetta dopo un mese e mezzo di letargo. È l’Happy Slam, lo Slam felice, dove grandi rivali e neopromossi sorridono alle nuove sfide, con l’inverno lontano e i muscoli caricati a molla.
Così, i nostri eroi germogliano e vestono i colori più vivaci, fucsia e giallo, arancio e verde, ad esaltare abbronzature da ricchi e famosi. Così, dal 18 al 31 gennaio, tinteggiano d’arcobaleno il tennis dei fratelli nobili, il Roland Garros, troppo radical chic, Wimbledon, troppo imbalsamato nel suo tight bianco, gli Us Open, perennemente a rischio corto circuito. Semplicemente diversi, gli Australian Open sono l’ultimo figlio del tennis. E, come tutti i rookie, portano libertà, spensieratezza, semplicità, e facilità nell’apprendere le ultime mode. Sbagliano, hanno sbagliato strada tante volte, e la sbaglieranno ancora. Ma intanto hanno vinto. Citando re Roger (Federer): «Per raggiungere il successo hanno seguito un altro percorso rispetto agli altri Slam, hanno fatto felici noi giocatori».
Sì, proprio quella terra lontanissima ed inospitale degli ex galeotti, la terra senza radici e senza pedigree che ha annientato gli aborigeni e vive di laser, cinema, grafica e computer. Terra di mare, e di sport come dottrina nazionale. Terra di tennisti prima e di un grande torneo poi, fino a saldarsi, domani, in un’altra grande generazione di super atleti. Terra di gente che va al sodo, senza fronzoli e maniere, perché down under, l’abito non fa il monaco, ma, viceversa, prima devi essere e poi puoi apparire. Perché laggiù devi essere forte, fisicamente e mentalmente, per sostenere l’impatto della natura, a cominciare dal micidiale caldo umido che tiranneggia gli Australian Open per continuare con le lunghe nottate, quando la terribile palla gialla rallenta nel mix tra temperatura, aria, campi. Devi mostrarti, devi batterti, devi vivere intensamente, abbracciato ai 700mila spettatori entusiasti che, per due settimane, invadono con la loro gioia di vivere Flinders Park. Orgogliosi testimoni del più grande successo nazionale, oggi vetrina più luccicante del paese e già scommessa del 2020: diventare la più importante nazione tennistica del pianeta e salutare il primo campione autoctono, da Mark Edmondson, nel lontanissimo 1976.
Quarant’anni fa, le cose andavano male per gli Australian Open. E i nemici sembravano davvero troppi per “la gamba zoppa dello Slam”: Il più debole dei quattro fratelloni del tennis, il più povero di premi e di stelle straniere, il più lontano, il più confuso, quello che aveva cambiato troppo spesso sede e data, traslocando due volte da dicembre a gennaio (cancellando persino la prova del 1986), quello che subiva la minaccia dei tornei indoor invernali di Stati Uniti ed Europa. Pochi avrebbero abiurato il passato scommettendo così radicalmente sul futuro, soprattutto con un passato così fulgido ed un futuro così nebuloso. Con il tennis che, finché è stato soprattutto erba, ha avuto tanti campioni di casa. Eppure, nel 1987, hanno rasato a zero il tappeto verde, hanno sradicato la storia per transitare per il cemento gommoso (rebound ace e plexicushion) e sposare poi il cemento classico, “made in Usa”. «Forse si stanno tagliando la gola da soli», temeva la mitica Martina Navratilova. Infatti il cambiamento non era garanzia di successo. Anzi.
Ma, miracolosamente, dal 1988, i numeri della prima tappa stagionale del Grande Slam si sono sommati, inseguiti, moltiplicati continuamente trasformando un’avventura nel maggiore affare sportivo di tutto l’emisfero meridionale. Col transito dall’erba di Kooyong al rebound ace di Flinders Park, sempre a Melbourne, gli Australian Open hanno subito raddoppiato gli spettatori (da 140mila a 266.436 persone nelle due settimane), ingaggiando finalmente con Us Open, Wimbledon e Roland Garros un’esaltante corsa ai record di affluenza ed incassi. Complice il fortissimo desiderio di mostrare al mondo la faccia migliore di un’umanità condannata al confino, il sistema ha pianificato il sorpasso nel nome del dio dollaro, che down under vale meno di quello Usa, ma è pur sempre dollaro e garantisce ogni alla regione del Victoria un ritorno economico di 200 milioni l’anno, con un surplus di oltre 12 milioni a Tennis Australia.
Cifre mostruose che vanno a braccetto col montepremi addirittura duplicato dal 2007, fino ai 44 milioni di quest’anno (il 10% in più rispetto a 12 mesi fa). Cifre che, raddoppiando gli introiti dei diritti tv e incrementando marketing e suite degli sponsor sul campo centrale, giustificano il nuovo scatto programmato per il 2036, con investimenti di 900 milioni di dollari. Per migliorare sempre, allargare, sempre, abbellire sempre l’impianto di Flinders Park ed abbracciare tutta l’Australasia. Bravi.
Il mago di Oz è il campo centrale, la Rod Laver Arena, un’astronave plurifunzionale da 15mila posti col primo tetto retrattile fra gli Slam, che spicca nel paradiso del tennis di 11 ettari dal costo di 70 milioni di dollari australiani, distante appena cinque minuti di tram dal centro di Melbourne. Con l’aggiunta di altri due grandi campi maggiori, col tetto, a difesa del caldo torrido come dei micidiali acquazzoni, più altri 16 all’aperto. Ecco il caleidoscopio all’avanguardia che s’irradia nelle tv di circa 600 milioni di case, la metà dell’immenso continente asiatico. Ecco le gesta epiche, ecco le maratone da video-game, ecco gli eccessi della terra degli eccessi, ecco infine Novak Djokovic, il campione che s’è fatto da sé nella terra che s’è fatta da sé, a caccia dei 6 titoli-record di Roy Emerson. Ecco l’Happy Slam, ecco la luce e i colori. Ecco, anche il tennis è diventato grande, grandissimo. Come tutto, in Australia.