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Ascesa e caduta del Leeds United, ex nobile inglese: dagli anni d'oro dei Viduka e dei Kewell al duro anonimato dei tempi più recenti.

È il 5 aprile del 2000: Istanbul è stata per tutta la giornata un’amante gentile ed educata, un ditirambo sinuoso da cui farsi irretire in maniera completa. Istanbul ad aprile non è Leeds. Certo nello Yorkshire si sta bene; qualche metro sopra il livello del mare, affacciati sulla brughiera, si può trovare un angolo di serenità guardando il verde che si fa spazio attraverso le conformazioni rocciose. Eppure Istanbul porta in seno i geni di molti popoli: romani, bizantini, ottomani. Istanbul che è ponte sul Bosforo e allaccio di culture. L’inverno è pungente e gelido, l’estate umida: una canicola che ti appiccica i vestiti alla pelle in una costrizione permanente. La primavera, invece, è amabile e deferente. Mentre le lager scorrono gelide, rendendo sollievo all’esofago affaticato, un rosso intenso si fa spazio prepotentemente alle spalle della Sultanahmet camii. L’odore di tiglio ricrea un capolavoro sinestetico difficilmente replicabile altrove. Probabile che David O’Leary stia istruendo i ragazzi nella pancia dell’Ali Sami Yen Stadyumu dopo l’ultima rifinitura. L’atmosfera tesa dei giorni precedenti si palesa, lo spettro degli scontri diventa reale: due tifosi del Leeds sono a terra, morti sulla Taksim Meydam.

Gli scontri di Istanbul

Sarebbe tautologico affermare che quel match sia stato drogato. Dopato da un odio feroce, da un’assenza di concentrazione che il Leeds non poteva avere. I primi quarantacinque minuti sono un monologo a tinte gialle e rosse, una frazione lunghissima di tempo in cui gli inglesi hanno corso con davanti agli occhi un fitto drappo nero, spesso e avvolgente.

I fatti di Istanbul rappresentano un turning point temporaneo all’interno del tifo inglese. Unito per un tempo breve, eppure apparentemente lunghissimo, nel ricordare due tifosi come chissà quanti altri. Prima del match di ritorno, David O’Leary, ha spiegato: «Oggi il Leeds non è più indifferente a nessuno. Tutta l’Inghilterra tifa per noi dopo quanto accaduto a Istanbul. Dobbiamo ribaltare il risultato anche per ricordare degnamente le nostre vittime». Potrebbero esserci parole più eloquenti?

20 Apr 2000: A minutes silence is observed for the two Leeds fans who died in Turkey at the Leeds United v Galatasaray UEFA Cup Semi Final Second Leg match played at Elland Road in Leeds. Mandatory Credit: Michael Steele /Allsport

Definiremmo singolare il fatto che uno dei punti più alti della storia recente del Leeds coincida con un episodio tra i più cupi del calcio moderno? La realtà è che quanto accaduto rappresenta una metafora irreversibile della storia del club: costruzione e distruzione, vittorie e dissesti finanziari. Vitalità e morte. Sono gli anni di Tony Blair al potere, e un’aura cupa come la foschia della brughiera quando è marzo si addensava sul Leeds già da qualche mese. Jonathan Woodgate e Lee Bowyer, due dei perni della squadra, vengono accusati di aver assalito senza motivo un giovane di origine asiatica. Da sempre Leeds vuol dire gioia e sofferenza: una storia fatta di grandi successi e sprofondi altrettanto eloquenti. Un palmarès che recita tre titoli inglesi, due Coppe delle Fiere, varie coppe nazionali e finali perse. Nel periodo della gestione Don Revie, il Dirty Leeds di Hunter e Bremner diventa una delle squadre simbolo del proprio tempo: vincente e odiata, capace di granire gli avversari come un mulino che lentamente attenta alla frangibilità di ogni singolo grano. Una brigata fedele al proprio capo, capace di battere la Juventus dei Furino e dei Bettega trasformando Leeds in un’arena di gaudio estatico, dopo la vittoria della seconda Coppa delle Fiere conquistata in pochi anni.

Nel 1971 il Leeds United batte la Juventus e vince la sua seconda Coppa delle Fiere.

Quella squadra è entrata nell’immaginario collettivo britannico, ne ha rappresentato un fenomeno pop e di massa. Un picco che poche altre volte si sarebbe rivissuto, in egual misura, in Inghilterra. Dopo i 44 giorni di Clough – la nemesi di Revie –, l’avvicendamento con Jimmy Armfield, la finale persa con il Bayern, il Leeds viene inghiottito da un enorme buco nero. Solo un talento adamantino come Éric Cantona poteva invertire lo spin, il momento angolare che aveva costretto Leeds e, il Leeds, ad un lungo peregrinare alla ricerca di un nuovo titolo: quello raggiunto con lui nel 1991-92.

Leeds United F.C. manager Don Revie (1927 - 1989) lifts the 'FA Cup' trophy after his players beat Arsenal F.C. to win the FA Cup Final, Wembley Stadium, London, 6th May 1972. Also shown are Jack Charlton (left), Billy Bremner (1942 - 1997), and Paul Reaney (far right). (Photo by Express/Hulton Archive/Getty Images)

Esiste una certa voglia di retromania per cui non riusciamo a non amare squadre che abbiano ottenuto con il tempo una storicizzazione del proprio lavoro: avventure estatiche come il Milan degli olandesi o di Capello, il Parma di Zola prima e Crespo poi, o la Stella Rossa dei ’90. Tutte storie su cui il tempo ha posato una morbida cortina di nostalgia, necessaria a farci apparire così rilucenti queste moderne storie di calcio e vittoria. Ma è, forse, non nella sconfitta quanto nell’asintotica ricerca del suo opposto che troviamo l’appagamento maggiore. Storie di gioie sfiorate, vittorie appena annusate e poi perse, ci rendono in pieno l’ineffabile bellezza dei perdenti. Il Leeds United degli anni ’00, guidato da David O’Leary, rappresenta quanto di più vicino alla sublimazione massima del concetto di “perdente amore retrò” si possa trovare in circolazione: una squadra di potenziali fenomeni, uomini intenzionati a prendersi la scena, un sogno autarchico crollato una volta affacciatosi al proprio apice.

A cavallo tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000, il Leeds è il prototipo di squadra che preme per tornare nel gotha del football britannico. Durante l’ interregno del tecnico irlandese – un ottimo ex calciatore, tra i recordman di presenze con l’Arsenal – il Leeds avvicina un livello di performance che aveva toccato soltanto durante la Revie era. Tra la stagione 1998/99, in cui O’Leary succede al dimissionario George Graham di cui era allenatore in seconda, e la sua ultima sulla panchina dei Whites, arriva sempre tra le prime 5 della Premier; ottiene due semifinali continentali e un posto tra le squadre più influenti di inizio millennio.

9 Dec 1999: Jonathan Woodgate and Ian Harte of Leeds celebrate Radebe's late goal during the UEFA Cup Third Round Second Leg match against Spartak Moscow played at Elland Road in Leeds, England. The game finished in a 1-0 win for Leeds and saw them progress to the next round via the away goals route. Mandatory Credit: Mark Thompson /Allsport

Partendo dall’ossatura di squadra imbastita da Graham, arrivata quinta nella stagione 97/98, O’Leary costruisce, come un abile sarto, un vestito perfetto. Hasselbaink segna con una continuità mai vista, Marty, Harte, Radebe, Kelly e Woodgate formano la linea difensiva su cui si baseranno alcuni dei successi degli anni a venire; Bowyer è il brutale, imperituro e talvolta geniale totem intorno a cui gravitano gli umori della squadra, Harry Kewell e Alan Smith la seta purissima colta direttamente dalla fertile youth academy del club.

Dopo aver raggiunto la qualificazione nel suo primo anno da manager, O’Leary gestisce da abilissimo demiurgo la campagna acquisti seguente: sfruttando la profittabilità di Hasselbaink, ceduto all’Atletico per 12.000.000 di sterline, inserisce nell’intelaiatura della stagione precedente i vari Mills (under 21 prelevato dal retrocesso Charlton, che O’Leary avrebbe voluto con sé già l’anno prima), il capitano norvegese Bakke, Duberry, Bridges (una riserva a Sunderland da 21 gol in maglia white). Per tutta la stagione il Leeds lotta per una posizione tra le prime quattro, alla fine del nuovo millennio gira in testa alla Premier. All’ultima giornata è un head to head con il Liverpool di Owen e Fowler per l’accesso in Champions League: in un documentario che sintetizza l’intera annata il commentatore descrive squadra ed allenatore come: «A young side, with a young manager». Una ragazza ancora acerba, ma in cui vediamo i prodromi di una donna bellissima e in velocissimo sviluppo. Il Leeds di O’Leary ci affascinava, probabilmente, più per quello che sarebbe potuto diventare che per quanto non sia stato realmente. Con il pareggio esterno contro il West Ham e la sconfitta del Liverpool, Smith e compagni si qualificano per la Champions.

Il gol di The Jewell Kewell alla Roma, che vale ai Whites la semifinale

Il processo di trasformazione del Leeds è una curva di crescita che punta verso la cima, una sommità che il passato ha fagocitato e sta ora restituendo. Viene annunciato un fatturato di 29 milioni di sterline, di cui 6 milioni di profitto. Con l’ingresso in Champions i ricavi dovrebbero subire una crescita ulteriore, così O’Leary spende per allestire una squadra competitiva: arrivano Dacourt dal Lens, Viduka dal Celtic, Dominic Matteo dal Liverpool. A novembre viene acquistato anche Rio Ferdinand dal West Ham per 18.000.000. Gli investimenti vengono fatti con la prospettiva di portare a casa qualche trofeo: l’anno prima la stagione è stata incoraggiante e intorno al Leeds c’è euforia.

Vi è una tale considerazione per quanto sta accadendo nello Yorkshire, che O’Leary può permettersi di criticare il know-how tattico di Ferguson. Dopo aver eliminato il Monaco 1860 nel preliminare, il 19 settembre il Leeds batte il Milan in casa, con un tiro di Bowyer su cui Dida commette un errore così macroscopico da aprire un’era funesta di errori tristi. Nella seconda fase a gironi gli inglesi pareggiano 3 a 3 in casa con la Lazio – la batteranno poi all’Olimpico – in uno dei match più spettacolari nella storia della competizione.

Leeds-Lazio 3-3.

Il sinistro tagliato di Harte e la forza straripante di un rinoceronte bianco come Viduka (22 reti in tutta la stagione), si inviluppano amabilmente con il talento cristallino di Smith e Kewell.

Per lungo tempo un ciclo si sviluppa e cresce. Arriva, tuttavia, un momento in cui la crescita si arresta e rimane solo una discesa verso l’ineffabile. Il Leeds ha connaturato nella propria storia il destino di chi crolla per aver bramato troppo. Se l’accelerazione selvaggia scalfisce lo sviluppo naturale dell’ontogenesi di una società, capiterà, prima o poi, che crolli quanto costruito frettolosamente. Una caduta che somiglia a quella turbolenta degli Amberson di Welles.

L’eliminazione subita dal Valencia di Cuper nella semifinale di Champions, la mancata qualificazione alla stessa competizione per l’anno seguente, i prestiti richiesti dal presidente Ridsdale per far fronte alle troppo scadenze sarebbero dovuti essere un necessario campanello d’allarme: invece si è investito ancora, forse più di quanto possibile, pur di restare in una dimensione “altra”, quella del calcio luminoso e accecante.

8 May 2001: The Leeds player surround the referee Urs Meier after Juan Sachez scored a controversial goal during the match between Valencia and Leeds United in the UEFA Champions League semi-final, second leg at Mestalla, Camp Del Valencia, Valencia, Spain. Mandatory Credit: Stu Forster/ALLSPORT

Il riscatto di Robbie Keane, gli acquisti milionari di Fowler e Seth Johnson, hanno dato il via ad un’ultima stagione dicotomica: il giorno di capodanno il Leeds è in testa alla Premier dopo aver sconfitto il West Ham, per chiudere, poi, con un mesto quinto posto, finendo di nuovo fuori dalla Champions. Da seri contendenti di Manchester United e Real Madrid in Europa, il Leeds si è trovato ad affrontare un dissesto finanziario con velocità disarmante. Non è bastato l’entusiasmo degli anni gloriosi. Così come non sono bastate le intuizioni di O’Leary allenatore, la capacità di crescere un vivaio florido da riversare nel flusso della prima squadra. Si è manifestata così una crisi risolvibile soltanto con la scissione del gruppo storico e la cessione di alcuni dei punti cardine di quella splendida utopia chiamata Leeds.

Dal sogno Premier all’incubo Championship passano pochissimi anni. I pezzi migliori di una macchina che stava funzionando perfettamente sono dispersi, in alcuni casi miseramente, per far fronte ai debiti. O’Leary entrerà ad Elland Road sulla sua Mercedes argentata, darà l’addio al presidente Ridsdale mettendo sulla scrivania la lettera di dimissioni dopo la cessione di Rio Ferdinand allo United. Ci saranno ancora consorzi di imprenditori e professori universitari alla presidenza, nuovi allenatori ed un dirigente cagliaritano. Quella del Leeds è una storia incerta e instabile. Una storia che ha continuato a scorrere negli ultimi anni ma che forse è rimasta immobile. Cristallizzata nel vermiglio pomeriggio di una Istanbul di quindici anni fa. Con il suono del Ney incastonato nelle note di una leggera armonia sufi ad accompagnare le danze dei dervisci. Non esiste apostasia. C’è solo la fede: nella vita come nel calcio, nella vita come nella morte. I tifosi del Leeds di fede devono averne più di chiunque altro.

 

Nell’immagine in evidenza,  Olivier Dacourt festeggia un gol con la maglia del Leeds United, il 26 dicembre 2000 contro il Newcastle. Stu Forster /Allsport