Il 19 aprile del 2008 diverse cose, in NBA, arrivavano ad un epilogo. Un’intera era pareva chiudersi, convincendo una grossa fetta di tecnici e semplici appassionati di un concetto già parecchio in voga: con un gioco veloce, fatto di tanti tiri da tre, di quattro piccoli e di campi aperti in NBA, dove ai Playoffs poi regnano le difese, non si può vincere. Puoi forse pensarci, combattere perché accada, ma alla fine il risultato sarà negativo.
Il 19 aprile del 2008 succede che i Phoenix Suns di Mike D’Antoni, i massimi esponenti del tipo di gioco appena predetto, perdono – seppur si tratti solo di Gara 1 – una partita troppo importante contro i San Antonio Spurs di Gregg Popovich. Dopo aver pareggiato a 3 secondi dal termine con una tripla di Finley, gli Spurs si ripetono sul finire dell’overtime, con una rara tripla di Tim Duncan. El Contusion Manu Ginobili fa il resto, e la serie cambia completamente inerzia. Vincendo quella gara 1, i Suns avrebbero riconquistato il fattore campo, e probabilmente l’epilogo di quel primo turno sarebbe stato diverso. Gli Spurs invece liquideranno 4-1 i Suns e andranno a giocarsi la Finale di Conference (persa) contro i Lakers. I Suns di Steve Nash e Amar’e Stoudemire, quelli dei tiri da tre di Leandro Barbosa e del prova a prendermi se ci riesci. D’Antoni verrà esonerato qualche mese dopo, i Suns invece resisteranno ad altri livelli con coach Alvin Gentry, un d’antoniano anche lui. Ma, manco a dirlo, non è stata più la stessa cosa.
Veloce, ma consistente, passo in avanti nella macchina del tempo, Playoffs del 2014: i San Antonio Spurs, sulla cui panchina siede sempre Gregg Popovich, annientano i Miami Heat dell’ultimo LeBron – ponendo fine ad un’altra era, quella delle tre super-superstar di Miami – vincendo il loro quinto titolo. I principi su cui Pop ha costruito quella squadra sono leggermente in anticipo rispetto al resto della lega, ma ampiamente preventivabili. Si corre come facevano i Suns di D’Antoni, si apre il campo con 4 piccoli come facevano i Suns di D’Antoni, si tira tanto da tre e, guarda caso, abbiamo anche Boris Diaw come ce l’avevano i Suns di D’Antoni. Pop ci aggiunge una grande difesa, essenziale per scappare via in contropiede, e un androide, che vince il titolo di MVP delle Finals e che ha la maglia numero 2 con su scritto Leonard. È un tipo taciturno, porta le treccine, ha delle mani enorme e una apertura alare che fa spavento. Sa fare semplicemente turno e sembra essere la trasposizione fisica, cestistica, americana e iper-atletica del concetto di calcio totale olandese. Con sei anni di ritardo quindi, tutti noi, e soprattutto tutti loro lì negli USA, impariamo che si può vincere giocando in quel modo, basta farlo meglio. È ironico, anche se per certi versi scontato, che proprio gli Spurs che distrussero quel sogno siano stati poi i primi a realizzarlo. I primi per l’appunto, ma non gli unici.
Ancora un anno, e quel concetto viene portato ad una sublimazione ancora più grande. Si corre ancora di più, si tira ancora di più da tre, si è tutti ancora più piccoli e si vince, anzi, si domina. I Golden State Warriors di Steve Kerr – lo stesso Kerr che faceva il General Manager ai Phoenix Suns nell’era D’Antoni, cresciuto seguendo quegli stessi precetti – impongono alla Lega il processo di cambiamento che s’avvertiva nell’aria. Hai per forza bisogno di un numero 4 perimetrale, che, se non sa trattare la palla come Draymond Green, deve essere almeno abile quanto lui ad allargare il campo e tirare da tre. Altrimenti sei agonisticamente morto.
Per la prima volta in stagione, i Golden State Warriors (40-4) affronteranno proprio i San Antonio Spurs (38-6), i primi di sempre ad essere riusciti a fare quello in cui loro stanno eccellendo. Con lo stesso sistema di gioco e con aggiunte e modifiche minime, Golden State ha azzeccato la miglior partenza di sempre nella storia degli sport professionistici americani (16-0), dando a tutti la sensazione di essere imbattibili. Tanto imbattibili che alla seconda sconfitta stagionale qualcuno ha storto il naso, non pronunciando la parola “crisi” solo per paura di ritorsioni fisiche. Ne sono poi arrivate una terza e una quarta, ma anche i +40 punti dati a LeBron e ai suoi Cavaliers, la più accreditata contender ad East per la vittoria del titolo.
Che significato può avere questa partita? “Il campionato è ancora lungo” si dice da noi, ed è una cosa in parte vera anche lì. LeBron James stesso snobbò (almeno a parole) la partita di Natale contro i Warriors con «non darò il meglio di me» (non servo io a dire che non dovete crederci), ma la verità è che certe partite possono condizionare in maniera determinante l’idea che ci si fa dell’avversario, in particolar modo in un torneo logorante come l’NBA. Il vantaggio psicologico è determinante.
Pochi giorni fa, Sport Illustrated ha rilasciato il Power Ranking NBA. Con tutte le squadre intorno alle quaranta partite giocate, il ranking di metà stagione non ha visto i Warriors primi. A superarli, manco a dirlo, sono stati i San Antonio Spurs che nonostante due vittorie in meno (e le due sconfitte in più) guidano la classifica per net rating, cioè il differenziale di punti su 100 possessi, e differenza di punti. Come citato da SI, «Kawhi Leonard is a legitimate MVP candidate, LaMarcus Aldridge has been fully integrated and Tony Parker has found another on-court life. The machine grinds away». Questo giustifica e serve a spiegare anche le dichiarazioni di Klay Thompson – lo stesso Klay Thompson che s’era procurato gli sberleffi del web per la dichiarazione del “sono la migliore guardia tiratrice della lega” – sulla reverenza davanti alla dinastia Spurs: «Loro stanno giocando bene, sarà divertente quando ci incontreremo la prossima settimana. Ci sono grandi squadre, i Cavaliers a Est, ma nessuna è mostruosa come San Antonio; a essere onesti, però, questo ci migliora».
La parola mostruosa, per quanto banale, può aiutare a spiegare quello che stanno facendo gli Spurs in questa regular season. Popovich ha gradualmente inserito LaMarcus Aldridge nel minutaggio, facendo in modo che recepisse e assorbisse i cambiamenti da un tipo di gioco completamente diverso (Lillard-Aldrige-centrico), preparando la transizione dei prossimi anni. LaMarcus, seppur con caratteristiche diverse, potrebbe essere il sostituto ideale, nell’età ideale, per la quasi certa – anche se lo dicevamo anche l’anno scorso, e quello prima ancora – ritirata di Tim Duncan, che ha visto la sua media punti drasticamente calata. Chi invece vive la più classica delle seconde giovinezze, come citato da SI, è Tony Parker. Migliorato in tutto, specialmente negli assist, Tony Parker è troppo importante nel confronto con i Warriors. Così come potrebbero esserlo i minuti di David West, intelligenza cestistica sopra la media a servizio di una squadra con un QI spropositato. A completamento di una batteria lunghi che salterà al massimo 5 centimetri, ma contro la quale è impossibile segnare.
Se consideriamo scontato vedere questa partita ripetuta al meglio delle sette verso aprile, che può significare solo finale di Conference per entrambe, uno dei punti cardine su cui gli Spurs dovrebbero insistere è l’eliminazione dal campo di Stephen Curry. Questo può avvenire nella metà campo difensiva, anzi soprattutto lì, ma anche in quella offensiva. Contro i Warriors fa estremamente più comodo avere una point guard che attacca il ferro, piuttosto che un facilitatore di gioco. Perché, se è vero che la difesa dei Warriors è speciale, e che Curry è un difensore sottovalutato, attaccare con insistenza il secondogenito di Akron potrebbe rivelarsi un’ottima idea.
Quando la differenza si riduce nell’avere, o no, quello con la maglia numero 30.
Il segreto di Pulcinella dei texani è la difesa. Unica squadra a tenere gli avversari sotto i 90 punti di media, gli Spurs sono riusciti ad esaltare le straordinarie doti difensive dei loro singoli con un sistema che pare perfetto. Il principale vantaggio che gli Speroni portano in dote è quello di avere tra le proprie fila quel piccolo granello di sabbia che può far saltare il sistema offensivo perfettamente oliato dei campioni in carica: Kawhi Leonard. I Warriors infatti hanno costruito i loro successi in larga parte sull’idea del “tutti possono fare tutto, ma ognuno fa il suo lavoro”, che si traduce splendidamente nei numeri di Draymond Green e nella sua esplosione accecante. L’androide o, come lo chiamano su Spurs Nation, il robot, può praticamente difendere su qualsiasi cosa si muova: single coverage su Curry (ammesso che per qualcuno sia possibile, quel qualcuno è proprio lui), uscire dai blocchi insieme a Thompson, arrangiarsi contro Green. Se a lui si sommano le rotazioni impeccabili e la presenza del divino Duncan, e dell’insospettabile Boban Marjanovic, sotto canestro, oltre che dei vari Patty Mills e Danny Green, quelle sei sconfitte diventano pure troppe, e quelle 36 vittorie poche.
Se Leonard è stato eletto miglior difensore del 2015 è perché le sue mani possono arrivare veramente ovunque.
Specialmente se non puoi contare su Steph Curry. Possono farlo invece i Warriors, che restano ancora i favoriti d’obbligo per il titolo finale, non fosse altro che per la minore età di tutti i suoi componenti. Collegandolo al discorso iniziale, del vincere praticando un certo tipo di pallacanestro, e collegandolo ad una certa idea che si ha di Stephen Curry e dei suoi compagni, può sembrare strano che sotto canestro i Warriors abbiano le migliori percentuali di realizzazione della lega. Merito dei contropiedi, delle alzate di Green per Ezeli ma soprattutto della circolazione principesca del pallone. Fermare i Warriors vuol dire soprattutto due cose: pregare in una giornata storta al tiro, e mettere un corpo credibile in punta, lì dove il pick’n’roll Green/Curry diventa mortifero. Da lì, i Warriors tirano quasi con il 50%, vale a dire che segnano quasi un canestro su due, che se proiettato fa un punto ogni possesso solo da lì. Per capire chi potrebbe mettere quel corpo, basta leggere il paragrafo precedente.
Courtesy of ChartSide.
Vi siete mai chiesti perché il giocatore più nominato nelle interviste da Gregg Popovich sia proprio Boris Diaw? «He really understands the game, he’s a really good basketball player. With his size, he can play outside, he can play in. He handles the ball like a point guard. He passes. He’s really an intelligent player and makes a lot of things happen. He’s real valuable to us», ha detto qualche tempo fa al San Antonio Express-News. Se conoscete un pochino Popovich – sintesi estrema: un ex membro dell’Air Force americana, con studi sull’unione sovietica, che ad un certo punto ha pensato di entrare nella CIA, e che ha incastonato la settima città più popolosa d’America nell’Olimpo del basket – saprete quanto possano essere pesate, oltre che pesanti, quelle parole. Gli ultimi anni gli hanno portato grosse soddisfazioni, qualche chilo in più, e una rinnovata immagine pubblica, portata a definitiva esaltazione dalla foto postata sul suo profilo Instagram della Nespresso che s’è fatto installare nell’armadietto dello spogliatoio.
È elegante Boris, oltre che francese. Eppure ci deve essere un motivo se Boris, dopo aver lasciato i Phoenix Suns nel 2008 (già, proprio in quell’anno) e peregrinato nel limbo NBA, sia tornato a brillare nella versione degli Spurs che più assomiglia a quella dei suoi Suns. Forse come Green è tra i più adatti a giocare in un modo che è tutt’altro che fisico (anche se si corre molto) ma cerebrale, in cui la velocità di pensiero conta tre volte tutto il resto. Ai tempi dei Suns era più magro, ma capiva già il gioco come pochi in questa Lega. Poi Steve Kerr lo lasciò andare. Lo stesso Steve Kerr che oggi allena Draymond Green, uno di quei pochi che capisce il gioco come Boris Diaw. Giocano allo stesso gioco, nello stesso modo. Potrebbe essere un puro caso, ma più probabilmente no.