Quando, nell’estate del 2013, i Golden State Warriors lasciarono scadere il contratto di Jarrett Jack, in tanti pensarono si trattasse di un errore strategico. Il play del Maryland aveva chiuso la stagione a 14 punti di media, e i Warriors si erano arresi solo ai San Antonio Spurs al secondo turno. Jack, un onestissimo mestierante della NBA, non era tuttavia la stella della squadra che stava preparando l’assalto alla vetta della lega. Nel 2012 nasce infatti quella che Wikipedia definisce la “Splah Brothers Era”, l’era di Klay Thompson e, soprattutto di Wardell Stephen Curry II. Ma Jarrett Jack fungeva da metronomo, era un playmaker puro con non tantissimi punti nelle mani ma con la giusta regia. Tanto a far canestro ci pensavano quei due. La sua cessione e l’arrivo di Andre Iguodala significavano una cosa: Steph Curry sarebbe partito da numero 1 e quindi avrebbe avuto tantissimo la palla in mano. Se questa, ad oggi, può sembrarvi la migliore idea possibile, beh, vi basti sapere che al tempo aveva provocato quantomeno dubbi. Steph infatti era letale nelle uscite dai blocchi, e tiro da tre. Fargli portare la palla sembrava quasi snaturarlo. Col senno di poi siamo tutti più bravi.
Nel 2012/2013, la costruzione dei Warriors passa anche dalla scelta numero 35 del draft. Draymond Green ha 22 anni, viene dal Michigan – da Saginaw per l’esattezza, circa 50 mila anime a ridosso di un grande fiume – e nella regioni dei Grandi Laghi c’aveva speso praticamente tutta la carriera, essendo stato parte degli Spartans di Michigan State, prima di finire sotto il sole cocente della California. Quella di Draymond Green si presenta subito come una “steal” del Draft, una rubata. È un espressione molto usata in America, che sta a significare quando un giocatore – che poi si rivela molto forte – viene scelto in una posizione molto bassa. E Draymond Green è probabilmente la miglior steal degli ultimi anni.
Ma che c’entra lui, un numero 4, un’ala grande, con Jack, che invece è un playmaker vecchio stampo, buono – come ha detto Flavio Tranquillo qualche settimana fa – per il basket di qualche decennio fa? La chiave è, come tutto quello che succede alla Bay Arena ultimamente, Steph Curry. Nonostante le straordinarie qualità di ball-handling dimostrate, il palleggio e tiro mortifero e le inimmaginabili qualità di passatore, gli riesce ancora molto bene di ricevere e tirare, il catch-n-shoot, eseguendolo ad una velocità mai vista nella lega. Come lui anche il fratello Splash riesce ad essere efficace sui blocchi. Serve quindi qualcuno che sappia passare la palla bene, ma il nostro passatore principale è appena stato ceduto. Nessun problema, abbiamo la 35esima scelta del Draft del 2012.
Cosa succede se metti Curry e Green sullo stesso parquet.
La situazione con cui Golden State ha messo nell’angolo tutta la lega l’anno scorso, e che continua quest’anno (con il miglior starting record di sempre) è meno complessa di quando sembri. Pick’n’roll che coinvolge Curry e Green (o semplice “trappola del raddoppio” su Curry), la difesa cambia sul marcatore e dovendo scegliere di che morte morire preferisce togliere la palla dalle mani di Steph. E a quel punto Green deve essere solo bravo abbastanza da saper fare tutto. Passarla a Klay Thompson (7.1 assist di media in stagione) e tirare da tre (al 37.5% di media) sono le opzioni preferite. Se è vero che Curry è la condizione necessaria, Green è quella sufficiente. Se i Warriors sembrano imbattibili, un motivo quindi c’è.
In una intervista dello scorso maggio sul Guardian, Draymond Green viene paragonato a Dennis Rodman. Dennis era forse ancor più duro (e più matto) di lui, ma ad entrambi viene chiesto di essere degli “sceriffi” in campo, con il compito di innalzare il livello di intensità della loro squadra. E niente alza l’intensità quanto la voce. Una specialità dove Dray eccelle. «Sono qui per essere uno specialista difensivo, ovvio, ma anche per essere un leader vocale. Credo che sia uno dei miei compiti principali nella squadra», ha detto in quell’intervista. E il concetto viene ribadito anche da suo coach Steve Kerr, «mi ricorda un po’ Reggie Miller. Non sta zitto un attimo. Alcuni giocatori hanno bisogno parlare per rendere al meglio, per motivarsi, e questo è proprio il caso di Green». Green insomma, sembra proprio nato per essere l’altra metà della luna di Steph: se Curry tira come (leggi “meglio di”) Miller, lui parla come l’ex numero 31 di Indiana. Diversi articoli l’hanno etichettato come il più grande trash talker della lega. Il trash talking altro non è che l’arte di commentare qualsiasi cosa succeda in campo, mentre si è in campo. In genere infastidisce parecchio gli avversari, se volete chiedere referenze ne potete parlare con Kevin Garnett.
Da qualcuno Draymond deve pur averla presa questa passione per l’appunto piccato, la battuta, la presenza vocale, in altre parole: la catalizzazione dell’attenzione. Quel qualcuno è Mary Babers-Green, vulcanica madre del centro tuttofare di Golden State. Quella delle mamme-NBA è una bellissima tradizione che va avanti da parecchio e si arricchisce sempre di nuovi capitoli e protagonisti. Dalla presunta (mica tanto) love story tra la madre di LeBron James e un suo ex compagno di squadra, Delonte West, alla signora Pamela McGee, forte ex-giocatrice della WNBA (la lega prefessionistica americana per le donne) e madre quasi allenatrice del figlio Javale. «Ero molto brava sul parquet, ma ho avuto coach che non sapevano allenarmi. Per questo ho sempre detto a Draymond che devi sempre spronarti al massimo in quello che fa. Prendi me, ero brava a scuola, giocavo bene a qualsiasi sport eppure nessuna di queste cose si è materializzata, per un motivo o per un altro. Devi crederci forte. Ho cresciuto così i miei figli», ha detto Mary in una lunga intervista rilasciata a GQ qualche giorno fa. Messaggio ricevuto, a pieno.
Draymond si allena quindi per andare sempre a cento all’ora, per ricoprire tutti i ruoli che gli si assegnano. Arrivato nella lega, come da lui stesso ricordato, per difendere, ha cominciato subito a diventare abile nel tiro da tre, dopo il 13% della stagione da rookie. Quando gli avversari gli si sono avvicinati, ha preso a mettere la palla per terra e andare in palleggio. Non che fosse una sorpresa: nel secondo turno del Torneo NCAA (il campionato universitario, seguitissimo negli Stati Uniti a tutti i livelli) del 2012, Draymond mette a segno la sua terza tripla doppia (cioè 10 punti – 10 rimbalzi – 10 assist) in NCAA, raggiungendo un club ristretto di giocatori che hanno compiuto l’impresa. Ristretto in questo caso è quasi un eufemismo: ci sono solo Oscar Robertson e Magic Johnson. Con Magic, Draymond condivide anche un altro record: sono gli unici ex Spartans ad essere titolari di quintetti che hanno poi vinto il titolo NBA. E Magic, vuoi per cameratismo vuoi per sincera ammirazione, non ha mai mancato di far notare al mondo quanto forte ritenesse Green. Lo scorso giugno lo ha inserito al quinto posto nella sua ideale classifica di giocatori più forti della lega. Una esagerazione, magari una provocazione, eppure Draymond Green è il secondo giocatore con il plus/minus (una misura dell’impatto reale di un giocatore sul punteggio nel tempo trascorso in campo e in panchina) più alto nella lega. Il primo gioca nella sua squadra, ed ha la maglia numero 30.
Una compilation delle migliori giocate di Green.
Draymond Green è diventato col tempo anche un uomo copertina, anche più della presunta seconda stella dei Warriors Klay Thompson. L’utente BdotAdot5, autore di spassosissime parodie dei migliori giocatori NBA, ha cominciato ad imitare anche Draymond. I suoi pick’n’roll con penetrazioni a canestro, i contatti con fallo, le esultanze esagerate. Al suo terzo anno Draymond Green s’è già preso tutta l’NBA, se non altro la sua parte mediatica. Sarebbe strano non ritrovarselo all’All Star Game di febbraio, con quel suo tiro stilisticamente non perfetto ma tremendamente efficace. Ad imitare Michael cacciando la lingua quando vola a canestro.
C’è solo un punto buio nella carriera di Draymond: come ha potuto uno che ha vinto due campionati scolastici a Michigan, dominato intere partite nelle Big 10, finire al secondo giro del Draft? Uno che viene considerato anche da Kirk Goldsberry di Grantland e «da chiunque nell’NBA» come un giocatore dal QI cestistico sopra la media vale la trentacinquesima chiamata? No, ovviamente no. Ma Golden State, nella figura del suo GM Bob Myers, ci ha costruito un’intera squadra attorno alla valutazione e rivalutazione di potenziali campioni. L’intero pacchetto lunghi (ali forti e centri) dei Warriors è stato praticamente riciclato e assemblato in maniera creativa. Andrew Bogut ha segnato a suo modo la storia del gioco. È stato infatti il primo australiano ad essere scelto con la numero 1 assoluta al draft. Una storia diametralmente opposta a quella di Draymond, in tutto e per tutto. I primi 6/7 anni di Bogut non sono entusiasmanti: continui infortuni e quella maledizione di “essere-la-prima-scelta” che ha tagliato gambe ben più prestigiose delle sue. L’ultimo caso in ordine temporale è Anthony Bennett, canadese scelto dai Cavs post LeBron e oggi addirittura retrocesso in D-League (la lega di sviluppo, una sorta di campionato “B”) dai Toronto Raptors. Ritornando a Bogut: il suo arrivo sotto la Baia, pur se con diversi stop, è stato determinante per dare solidità difensiva al reparto. I 4 “piccoli” hanno imparato a giocare protetti dall’australiano, che è riuscito a prendersi quello che gli spettava: l’anello.
24 punti, 11 rimbalzi, 8 assist: uragano Green a Boston, qualche giorno fa.
La sua riserva è invece Festus Ezeli. Nigeriano, Festus arriva in America per studiare, e alloggia a casa di uno zio, un medico di stanza in California. Festus si guarda intorno, prova a fare application per le high school americane. Vorrebbe diventare un fisico o un biologo. Ma se avete mai dato un’occhiata alle rette delle scuole americane non farete fatica a capire perché in tanti cerchino una seconda via d’accesso. E ad Ezeli qualcuno gliel’ha offerta semplicemente guardandolo camminare suggerendogli «ma perché non provi a fare qualche sport? Una borsa di studio potrebbe essere dietro l’angolo». Prima il calcio, con risultati modesti. Poi l’illuminazione del basket. Se non fosse che, fino ai 15 anni, Festus non aveva praticamente mai preso in mano una palla arancione. Ma con quel fisico è davvero possibile tutto. In una partita dei Warriors di poche settimane fa, contro Toronto, guardandolo giocare (bene), Flavio Tranquillo ha ricordato la sua storia chiosando: «Provate a immaginare dove potrà essere questo tra qualche anno».
Fino a qui però ce l’ha portato Golden State, come ha portato Bogut e come Marreese Speights, il quarto a completamento di un pacchetto di lunghi teoricamente mal assortito, ma tra i più vincenti della lega. Li rappresenta tutti Draymond: ottimi giocatori diventati di platino nel sistema meglio oliato forse della storia del gioco. Nessuno aveva mai fatto quello che stanno facendo loro, nessuno l’aveva fatto in maniera così tanto divertente.